lavoratori

Licenziati e reintegrati, in Europa è regola. La legge italiana non è un’anomalia

Licenziati e reintegrati, in Europa è regola. La legge italiana non è un’anomalia

Roberto Mania – La Repubblica

Licenziati e poi reintegrati. Accade – sempre meno – in Italia, ma anche in tanti altri paesi europei: Austria, Germania, Grecia, Irlanda, Olanda, Portogallo, Svezia e pure in Gran Bretagna, paese del common law. E il ritorno nel posto di lavoro non è del tutto escluso nemmeno in Francia, Finlandia, Spagna o Lussemburgo, in caso di licenziamento illegittimo. Insomma la reintegra, come la chiamano i giuslavoristi, «non costituisce un’anomalia tutta italiana». Così scrivono i ricercatori di “Italia Lavoro”, il braccio operativo del ministero nelle politiche attive per il lavoro, in un dossier, “La flessibilità in uscita in Europa”, che fa un’analisi comparativa dettagliata sulle regole dei licenziamenti individuali e collettivi nei paesi europei. Ne esce un quadro di tutele piuttosto estese sulla base di un principio sancito nella Carta sociale europea: i lavoratori licenziati senza valido motivo hanno diritto «ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione».

Con il suo reintegro in versione ridotta dopo la legge Fornero (vale per i licenziamenti discriminatori e quelli camuffati da motivi economici) l’Italia è in buona compagnia nel prevedere la possibilità che un lavoratore ingiustamente licenziato possa tornare al proprio posto di lavoro. In genere spetta al giudice (anche questa non è un’anomalia italiana) decidere, ma sono previsti casi di ricorso ad un arbitro per la conciliazione (possibile pure da noi). Ciò che distingue molto l’Italia dagli altri paesi è, piuttosto, la durata dei procedimenti giudiziari: in media intorno ai due anni contro i quattro-cinque mesi della Germania, stando ad un’indagine dell’Ocse. È questo che genera incertezza per gli imprenditori. Ed è questa la ragione principale per cui il governo Renzi ha deciso intervenire nuovamente (la legge Fornero è di soli due anni fa) sull’articolo 18 dello Statuto. Non tanto per rendere più flessibile l’uscita dal mercato del lavoro, quanto per rendere più certo il quadro per le aziende che intendano investire in Italia. Perché più che il reintegro in sé, le imprese temono l’incertezza (per i tempi e per le imprevedibili conclusioni diverse da tribunale a tribunale) che può condizionare non poco la loro operatività. La strada dell’indennizzo verso il quale ha scelto muoversi il governo diventa sotto questo profilo più prevedibile.

In Germania, dove la cultura dei giudici è meno pro labour ma il sindacato è più forte e strutturato nelle aziende, prevale Nell’impianto legislativo la conservazione del posto di lavoro. Dunque è il tribunale che può ordinare il mantenimento del rapporto di lavoro in caso di licenziamento nullo o ingiustificato. Tra l’almo, durante il periodo in cui si svolge il processo, il lavoratore ha il diritto di continuare a prestare la sua attività. Queste regole valgono per tutti i lavoratori con un’anzianità di servizio di almeno sei mesi e nelle aziende con più di dieci dipendenti. Una soglia dimensionale che non ha impedito che in Germania si formasse un sistema produttivo caratterizzato dalla presenza delle grande imprese. Nello stesso tempo è questo un’argomento a sfavore di chi, in Italia, sostiene che il nanismo del capitalismo tricolore dipenda tra l’altro dallo Statuto dei lavoratori che si applica alle aziende con più di quindici dipendenti.

In Francia vige un sistema “misto”. C’è il reintegro in tutti i casi di licenziamenti discriminatori o nei casi di violazione di diritti fondamentali e di libertà pubbliche. Negli altri casi, decisamente più numerosi, di fronte al licenziamento senza giusta causa scatta un risarcimento monetario. In Irlanda, paese nel passato preso ad esempio per la sua flessibilità e non solo per il favorevole trattamento fiscale, prevale il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento nullo. Reintegro previsto anche in Gran Bretagna che affida margini di discrezionalità molto ampi al giudice il quale può reintegrare il lavoratore adibendolo a mansioni diverse da quelle precedenti. È interessante il fatto che queste ipotesi non valgano per i lavoratori che hanno meno di due anni di servizio. Tortuoso anche il procedimento in Olanda dove l’imprenditore deve ottenere dall’autorità pubblica l’autorizzazione (con funzione di deterrenza) per poter licenziare. Il problema dunque non è l’istituto del reintegro più comune, sulla carta, di quanto si pensi, bensì l’efficacia dell’iter che porta alla conclusione dell’eventuale contenzioso.

La riforma necessaria

La riforma necessaria

Giuseppe Turani – La Nazione

Se il lavoro manca, e ne manca tantissimo, la colpa non è di Renzi e nemmeno di quelli che l’hanno preceduto negli anni scorsi (Monti e Letta). La mancanza di lavoro ha due padri precisi. Il primo è la Grande Crisi che dal 2008 ha colpito l’economia internazionale e che ha portato l’Italia a perdere, come reddito pro-capite, un terzo di quello che aveva nel 2007. Di fronte a una botta così grande, è evidente che i famosi 80 euro rappresentano soltanto un risarcimento parziale. D’altra parte per ridare agli italiani quel terzo di reddito che hanno perso nella crisi ci vuole altro che qualche decreto governativo. Ci vorranno almeno dieci anni di buona crescita, ammesso che si riesca a farli. Ma poi c’è un secondo padre dei tantissimi disoccupati. È un padre collettivo. Si tratta di tutti quelli che facevano parte della classe dirigente negli ultimi trent’anni: sono loro che hanno consentito lo scempio del bilancio pubblico e la trasformazione dello Stato in una sorta di opera pia di prebende, stipendi, pensioni, rendite, enti inutili e tutto il resto. Fino a portarci oltre i due mila miliardi di euro di debiti. Si dirà: ma allora il colpevole è certamente Berlusconi. Calma. Berlusconi ha le sue colpe, ma anche tutti gli altri non possono andare in giro a testa alta.

Io non ho mai visto la signora Camusso o il compagno D’Alema sfilare in piazza contro l’eccesso di spesa pubblica. Anzi, sono lì che ne chiedono altra anche adesso (con quanto buonsenso lascio immaginare). Ma è proprio questa montagna di debiti che ha impedito all’Italia di mettere in campo misure di sostegno e di rilancio dell’economia. Siamo qui, bloccati in mezzo al guado, assistiamo impotenti al crescere della disoccupazione, perché non abbiamo un soldo: siamo ricchi solo di debiti. Oggi abbiamo tanti disoccupati, per essere sbrigativi, perché la generazione precedente è stata un fallimento totale: ha scambiato, a destra come a sinistra, consenso politico con spesa pubblica, e lo ha fatto per vent’anni, o trenta, di fila. Avrebbero ammazzato un elefante, non solo un Paese gentile come l’Italia. Adesso siamo a una prima resa dei conti. Renzi vuole cambiare il diritto del lavoro e contro di lui è schierata tutta la generazione che ha fallito. Il nostro diritto del lavoro ha mezzo secolo e, attraverso stratificazioni successive, è diventato un tale caos che l’unica cosa da fare è quella di abolirlo totalmente e scrivere un testo nuovo.

La Cgil e i suoi amici dentro il Pd hanno deciso di fare barricate sull’articolo 18. Segno che non hanno molto da dire sulla riforma del lavoro. Si aggrappano all’articolo 18 perché pensano che sia un tema popolare e di sicuro effetto: impedire ai padroni di licenziare. Ma vari sondaggi hanno già spiegato che a due terzi degli italiani dell’articolo 18 non importa nulla. È una garanzia in più per quelli che comunque un lavoro (e a tempo indeterminato) lo hanno. Ma qui il problema è di chi un lavoro non lo ha mai visto. Ancora una volta, cioè, una certa sinistra difende il proprio orticello e lascia gli altri (i piu sfortunati) sotto la pioggia e la neve.

Ma perché l’articolo 18 non può restare? Intanto perché è appunto la barricata di quelli che sbagliano. Inoltre una cosa è chiara: il nuovo modello di mercato del lavoro deve avere alla sua base la massima flessibilità in entrata e in uscita dalle aziende, prevedendo le giuste ricompense e la giusta assistenza per chi perde il lavoro (e il reddito). Ma diciamo basta ad anni di aule giudiziarie per chi vuole liberarsi di un dipendente incapace o lavativo.

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Sul Jobs act è giunto il tempo della decisione. Oggi si riunisce la segreteria del Pd e questa sera sarebbe auspicabile avere un segnale chiaro di approvazione. C’è una minoranza che non è d’accordo. Per alcuni l’intangibilità dell’articolo 18 è una questione di principio. Per altri (più numerosi) sembra invece essere una questione di contenuti. I margini per non rompere ci sono: Renzi ha già ceduto sui licenziamenti discriminatori, per i quali rimarrà il reintegro. L’altro punto su cui cercare convergenze riguarda le nuove tutele.

A quanto ammonterà l’indennizzo in caso di motivazioni economiche? E verranno davvero rafforzati gli ammortizzatori sociali? Il governo è in grave ritardo su questo fronte. Renzi deve chiarire quante risorse saranno disponibili nella legge di stabilità. La soluzione è usare già dal 2015 i fondi della Cassa integrazione in deroga per finanziare una indennità semiuniversale che colmi i buchi di copertura esistenti, soprattutto per interinali e contratti a termine. Non è una partita di giro, ma passaggio da un sistema aleatorio e discrezionale a una tutela finalmente «europea», basata su diritti soggettivi.

Il presidente del Consiglio deve insistere su questi aspetti. Il nuovo «contratto a tutele crescenti» è oggi uno strumento per offrire stabilità d’impiego ai giovani che non ce l’hanno; la maggiore flessibilità in uscita si accompagnerà a protezioni più robuste ed efficaci. Qualcuno dei dissidenti farà ancora finta di non capire: pazienza. Con gli altri, Renzi non cerchi «rese dei conti», ma dia rassicurazioni, spieghi bene come e perché ci si può fidare del cambiamento. Il Jobs act non può e non deve essere vissuto e additato come boccone amaro imposto dalla Ue, ma come una opportunità per rendere il nostro mercato del lavoro più equo e inclusivo.

I cinque scogli che separano il premier dai sindacati

I cinque scogli che separano il premier dai sindacati

Paolo Baroni – La Stampa

Certo l’articolo 18 e il nodo del reintegro. Il rischio di «scardinare» lo Statuto dei lavoratori contrapposto alla necessità di «aggiornarlo». Ma i punti «indigeribili» del pacchetto-Poletti per una larga fetta del sindacato, in primis la Cgil (e quindi anche per la minoranza Pd), sono molti. E sono tutti concentrati nell’articolo 4 della legge delega.

Primo scoglio, la «revisione della disciplina delle mansioni». Il governo parla di contemperare «l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale, con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento». La Cgil invece denuncia esplicitamente il rischio di demansionamento, un’operazione «inaccettabile». Per questa via, sostiene l’ex sindacalista Giorgio Airaudo oggi deputato di Sel, si cerca solo di ridurre gli stipendi. Tutte accuse che l’ex ministro Maurizio Sacconi (Ncd), uno dei registi della riforma, respinge evocando «mansioni flessibili» in relazione «ai nuovi modi di lavorare che richiedono comportamenti più duttili, autonomi e più responsabili». Mediazione possibile? Sì alla flessibilità, ma solo con l’accordo tra le parti e a salario invariato.

Altra scelta che rischia di aumentare la precarietà anziché ridurla è il comma che prevede la possibilità di estendere a tutti i settori produttivi, anche alzando la soglia massima di reddito, l’utilizzo dei voucher impiegato oggi per i lavori saltuari (stagionali, colf, baby sitter…). Anche in questo caso si paventa il rischio che, allargando le maglie, le imprese alla fine ne possano abusare. Quindi, per far passare la norma, la condizione è una sola: deve resta l’attuale soglia dei 5 mila euro di reddito.

Ancora un tabù, ancora un problema: il controllo a distanza dei lavoratori. Lo «Statuto» è nato quando Internet manco esisteva ed è chiaro che molte norme oggi risultano superate. Per questo il governo punta alla «revisione» di tutta questa distanza, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore». Definizione forse un po’ generica, ma poi nemmeno troppo. Epperò la minoranza Pd fa muro anche su questo: «si controllino le macchine, non le persone». Per Sacconi invece, «la doverosa tutela della dignità del lavoratore», che ovviamente resta confermata in pieno, «non deve diventare motivo di inibizione per il migliore impiego delle nuove tecnologie, incluse le opportunità di telelavoro fin qui trascurate».

Quarto «scoglio», il riordino dei contratti. In seguito all’introduzione del contratto unico si punta a disboscare l’attuale selva fatta di 47 differenti modelli. La norma inserita nella delega è abbastanza chiara: parla esplicitamente di «abrogazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali, incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato» e punta «eliminare duplicazioni» e «difficoltà interpretative e applicative». Ma anche questa formulazione, per la minoranza Pd , è troppo generica. Ma altrettanto generica però è la sua controproposta.

Infine, c’è il nodo dei soldi. Renzi punta a stanziare 2 miliardi nella prossima legge di Stabilità per estendere gli ammortizzatori sociali ai co.co.co: il sospetto di molti è che però si tratti degli stessi soldi oggi usati per la cassa in deroga e gli altri ammortizzatori. Vero? Falso? Certo è che così, alla vigilia della direzione Pd di domani e poi del confronto/scontro in Senato, la partita si complica ancor di più.

Lo strano caso di hostess e steward che vogliono restare cassintegrati

Lo strano caso di hostess e steward che vogliono restare cassintegrati

Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

«Sindrome depressiva ansiosa reattiva»: richiamati al lavoro, uno steward e una hostess di Meridiana, invece di fare festa, giurano d’essere stati gettati nella più cupa depressione: preferivano la cassa integrazione. Così han fatto causa all’azienda chiedendo duecentomila euro di danni. Una storia piccola piccola. Ma che rivela in modo abbagliante i deliri di un sistema abnorme. Sia chiaro: il contesto è pesante. Con un braccio di ferro tra l’azienda e i sindacati che in questi giorni si è fatto durissimo.

Da una parte la compagnia fondata nel ‘63 dall’Aga Khan con il nome di Alisarda, la quale dice di non farcela più coi conti a causa di tragici errori di gestione del passato (esempio: otto tipi diversi di aerei su una flotta di 27 e cioè otto diversi stock di pezzi di ricambio, otto diversi gruppi di manutentori, otto diverse autorizzazioni…) e di un decreto del Tribunale che nel 2010 «impose l’assunzione di 600 persone stabilizzate dopo due stagioni di lavoro part-time» col risultato che, accusa l’amministratore delegato Roberto Scaramella, «lavoriamo con mille dipendenti e 1.600 sono in più». Dall’altra parte i sindacati che, accusati d’avere indetto nel 2014 «un’agitazione ogni tre settimane con due o otto dipendenti ufficialmente in sciopero e un diluvio di certificati medici», accusano a loro volta la società di «fare i soldi» con la «nuova» Air Italy (per la proprietà «più moderna, più competitiva, meno costosa») basata a Malpensa e di scaricare le perdite sulla «vecchia» Meridiana e sui lavoratori . Peggio: i vertici del gruppo si sarebbero arroccati al punto di «blindare la palazzina con filo spinato e lastre di acciaio». Uno scontro frontale. Sul quale stanno mediando la Regione Sardegna e i ministri del Lavoro e dei Trasporti, Giuliano Poletti e Maurizio Lupi. Che hanno strappato la revoca per 1.600 dipendenti della mobilità prevista a ottobre. Per ora. Poi si vedrà.

Va da sé che, in momenti così, ogni dettaglio dello scontro assume un valore decuplicato. Come, appunto, la causa giudiziaria di cui dicevamo. Partiamo dall’inizio. Maria e Donato, chiamiamoli così, vengono assunti da Eurofly, oggi Meridiana Fly, nel 1998. Ruolo: assistenti di volo. Dopo un po’ diventano rappresentanti dell’Usb, una delle dieci (dieci!) sigle sindacali della compagnia aerea. Nel giugno 2011, coi bilanci a picco, Meridiana, governo e sindacati (tranne l’Usb e i piloti) siglano un accordo che concede la Cigs, cioè la Cassa integrazione guadagni straordinaria, a zero ore volontaria. Maria e Donato, come scriveranno nel ricorso, accettano. Lei dal gennaio 2012, lui dall’aprile. Fino al 2015. Solo che qualche mese dopo i due, moglie e marito, «venivano richiamati in servizio (…) mentre si trovavano negli Usa alla ricerca di una nuova occupazione lavorativa, dopo aver ottenuto la Green Card all’esito di un dispendioso e snervante iter burocratico che ha coinvolto l’intera famiglia composta dagli stessi, quali coniugi, e dai tre figli minori». Convinti di esser stati richiamati a lavorare «senza alcuna reale e concreta necessità e solo per carattere punitivo, ritorsivo e illegittimo», i due erano dunque tornati ma, si legge nel ricorso, «al loro rientro in Italia si sono recati dal medico di base e successivamente presso il Policlinico Umberto I di Roma ove è stata loro diagnosticata una “sindrome depressivo ansiosa reattiva” alla quale è seguita la sospensione delle licenze di volo da parte dell’Istituto di medicina legale, con blocco lavorativo di quattro mesi, oltre al mese prescritto dal medico di base». Non bastasse, insisteva il ricorso, l’azienda aveva mandato per tre volte il medico fiscale a controllare il loro stato di salute. Chiedevano dunque al magistrato di dichiarare «la natura discriminatoria dei comportamenti descritti attuati dalla compagnia aerea nei loro confronti, con ordine di cessazione dei comportamenti antisindacali, discriminatori e vessatori» e il ritorno, «a chiusura della malattia», in cassa integrazione. Pari all’80% dell’ultimo stipendio. Che a volte, nei periodi di punta, grazie al numero di ore di volo, può schizzare fino a 4.000 euro.

Il giudice avrebbe dovuto dunque condannare l’azienda «al pagamento delle differenze retributive» pari per quei mesi a «4.000 euro e 4.800 euro, oltre a interessi legali» nonché «del danno biologico e da riduzione della capacità lavorativa sofferti rispettivamente per complessive 92.715,97 euro e 94.363,38 euro, o altra somma, tenuto conto del diniego di rinnovo della licenza di volo». Che loro stessi, peraltro, avevano forzato con la «sindrome depressiva ansiosa reattiva». Macché: il giudice del lavoro Francesca La Russa ha dato loro torto. Su tutto. Non solo era «legittimo il richiamo» al lavoro anche per le «positive ripercussioni sul piano sociale per i minori costi ricadenti sulla collettività», cioè per i cittadini italiani che stavano pagando alla famigliola il soggiorno in America. Non solo era insensata la lagna su questo ritorno al lavoro perché «semmai dovrebbero dolersi i lavoratori il cui rapporto di lavoro non viene ripristinato». Ma erano «pienamente legittime» le visite del medico fiscale «per la verifica della comune malattia dei ricorrenti». Risultato finale: ricorso respinto. Resta, a tutti gli italiani, una curiosità: esiste un altro Paese al mondo dove dei lavoratori possano pretendere di restare in cassa integrazione e chiedano i danni per il rientro al lavoro? O c’è, da noi, qualche regoletta eccentricamente mostruosa?

Ogni anno 17mila licenziamenti, solo un quarto torna in azienda

Ogni anno 17mila licenziamenti, solo un quarto torna in azienda

Roberto Giovannini – La Stampa

«L’articolo 18? Stiamo discutendo di un tema che riguarda 3mila persone l’anno in un Paese che ha 60 milioni di abitanti», ha detto nei giorni scorsi il premier Matteo Renzi. Si sbaglia: secondo i dati ufficiali del ministero del Lavoro, solo nel gennaio-giugno 2014 ha riguardato 8537 persone. Potrebbero essere 15-16 mila per l’intero anno in corso.

Pochi, tanti? Noi abbiamo cercato di rispondere alla seguente domanda: quante persone vengono effettivamente licenziate per «giustificato motivo oggettivo» (sono i cosiddetti «licenziamenti economici» di cui si sta discutendo) nelle aziende con oltre 15 dipendenti? La risposta esatta a questa domanda è impossibile darla, per una serie di paradossi legislativi, amministrativi e statistici. Consultando gli unici dati disponibili, quelli del ministero del Lavoro, possiamo dire soltanto che dall’agosto del 2012 (data di entrata in vigore della riforma Fornero del mercato del lavoro) fino al giugno 2014, 39.405 lavoratori sono passati per i meccanismi giudiziari previsti dalla legge. Tanti sono i lavoratori che hanno ricevuto la comunicazione del loro datore di lavoro di volerli licenziare. Non siamo in grado di dire esattamente quanti di costoro abbiano perso il posto: ragionevolmente, si può stimare che almeno tre su quattro (dunque 30 mila circa) alla fine abbiano lasciato la vecchia azienda in cambio di una somma di danaro.

Facciamo un passo indietro. La riforma Fornero del 2012 ha già intaccato in modo significativo l’articolo 18, rendendo possibile (ad alcune condizioni) il licenziamento individuale in una azienda con più di 15 dipendenti. Ricordiamo anche che il licenziamento senza reintegro è possibile anche per «giusta causa» (se il dipendente ruba) e per «giustificato motivo soggettivo (se non lavora). E ci sono i licenziamenti collettivi in caso di crisi aziendale. Quando un datore di lavoro vuole fare un «licenziamento economico», in base alla legge deve avviare una procedura obbligatoria di conciliazione presso la direzione provinciale del Lavoro. Se l’ufficio non risponde in sette giorni il licenziamento è valido (è successo a 490 persone nel primo semestre 2014). Questo tentativo di conciliazione può sfociare in una causa giudiziaria se le parti non si mettono d’accordo (2563 su 8047 sempre nel primo semestre). Oppure in un accordo (4310 situazioni): il lavoratore accetta dei soldi e se ne va (la stragrande maggioranza dei casi) o l’azienda rinuncia al licenziamento (solo 428 casi). In conclusione, certamente degli 8537 lavoratori «pre-licenziati» nei primi sei mesi dell’anno, 4372 hanno finito per perdere il posto. A parte 1174 casi indicati misteriosamente come «altro», del destino dei 2563 andati in tribunale non sapremo mai esattamente nulla. Perché, come spiegano gli esperti, per una strana dimenticanza non è stato assegnato un «codice amministrativo» a questo tipo di cause. Che dunque non sono rilevate statisticamente. Secondo le rilevazioni della Cgil, considerate attendibili, nel 2013 nell’80-90% il giudice avrebbe dato ragione al lavoratore, reintegrandolo nel posto di lavoro. Ma due terzi dei lavoratori reintegrati avrebbe scelto comunque di lasciare il vecchio posto in cambio di un’indennità, maggiore di quella che avrebbe spuntato inizialmente.

Gli scarni dati disponibili consentono di sviluppare alcune considerazioni. Si conferma che in testa alla classifica delle «comunicazioni obbligatorie» ci sono le Regioni dove maggiore è l’attività economica, come la Lombardia, il Lazio e il Veneto. Come fa notare l’ex sindacalista e parlamentare Giuliano Cazzola – sulla base di un recentissimo documento dell’Isfol – «appena approvata la riforma Fornero c’è stata da parte dei datori di lavoro più fortemente motivati a licenziare una immediata attivazione. Questo, insieme alla forte crisi congiunturale a cavallo tra 2012 e inizio 2013, ha fatto sì che inizialmente i numeri dei licenziamenti economici siano stati più importanti».

Alla fine quasi 40 mila casi di avviato licenziamento nelle imprese con più di 15 dipendenti in 24 mesi (se il trend sarà costante, potrebbero essere 17 mila nel 2014) non sono obiettivamente moltissimi. Ma neanche così pochi, dicono in casa Cgil. Primo, perché non sarà mai possibile misurare (finiranno nell’elenco delle «dimissioni volontarie») tutte le situazioni in cui il lavoratore, informato più o meno garbatamente della volontà del suo datore di lavoro di licenziarlo in cambio di soldi, accetta l’assegno e si licenzia. Dunque, dicono i sindacalisti, anche con l’articolo 18 riveduto e corretto da Elsa Fornero, i licenziamenti individuali con indennizzo (tra quelli «nascosti» e quelli ufficializzati con la comunicazione) esistono eccome. Togliere il potere deterrente dell’articolo 18 servirà solo a diminuire l’importo dell’assegno per il lavoratore che perde il suo impiego. E a favorire la cacciata dalle aziende dei lavoratori che verranno considerati, caso per caso, «problematici».

Lavorare a fatica

Lavorare a fatica

Giuseppe De Filippi – Il Foglio

Le tutele crescenti funzionano, ci viene spiegato, perché rendono graduale, con gli anni di lavoro, il raggiungimento della piena protezione del lavoratore contro i licenziamenti. Si parte leggeri, senza troppo impegno da parte del datore di lavoro, e si arriva via via alla situazione oggi garantita dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, con il reintegro dell’impiego sancito dal tribunale. All’inizio ci sara più disponibilità ad assumere, perché c’è meno rigidità in uscita e poi, di contro, si proteggeranno i lavoratori più maturi, per garantire che le aziende non ricorrano a licenziamenti spietatamente legati alla maggiore produttività e al minor costo associati ad un lavoratore più giovane. L’uovo di Colombo sta in piedi? Non è detto.

C’è subito il problema di stabilire quando le tutele crescono. Si ragiona su varie soglie in questi giorni, Ad esempio tre anni di lavoro dipendente per arrivare al primo gradino di protezione rafforzata (con anche l’obbligo, foriero di quintali di carta bollata, che si vorrebbe imporre alle aziende di “restituire gli incentivi” ricevuti in caso di licenziamento del lavoratore in tempi troppo brevi) e dieci anni per arrivare al traguardo dell’articolo 18 o simile strumento. Tutto troppo logico, troppo perfettino. Assomiglia al meccanismo che, sempre con ottime intenzioni in ogni caso specifico, ha portato, nel campo fiscale, a creare la più intricata giungla di esenzioni, detrazioni, deduzioni, ricorsi alle commissioni, mai vista al mondo. Il rischio è simile nel mercato del lavoro e creerebbe un dramma. Con la segmentazione dell’offerta e il permanere della tribunalizzazione dei rapporti lavorativi. I mitici neoassunti contro quelli con tre anni e un giorno di anzianità lavorativa, i prossimi alla pensione contro tutti, quelli che entrano nel nono anno, e quindi sono nell’ultimo anno di licenziabilità (a prendere per buona la soglia dei dieci anni) e possiamo immaginare con che ansia vedrebbero passare i giorni. Proviamo a fermarci qui e a fare un esercizio da antiche scuole di retorica.

Vediamo gli argomenti a favore del meccanismo esattamente rovesciato e scopriamo che, a tavolino, nel mondo logico e perfettino, anche le tutele decrescenti (nostra invenzione) sembrano funzionare. Ecco perché. Nel sistema rovesciato il giovane lavoratore per i primi tre anni non sarà licenziabile, e potra perciò ottenere il reintegro dal tribunale (così si risparmia anche sulle liti giudiziarie tra stato e aziende sugli incentivi da restituire). Poi, dopo tre anni, comincerà a uscire dalla protezione totale. Sarà quindi licenziabile, ma con una compensazione economica. E nel corso degli anni il costo del licenziamento (pagando il risarcimento) diventerà comunque più rilevante, perché saranno minori gli anni residui di lavoro e soprattutto perché le aziende, malgrado ciò che si dice, non hanno alcun interesse a privarsi di lavoratori esperti, che conoscono i meccanismi produttivi, che possono trasferire conoscenze.

Un piccolo ragionamento a rovescio, insomma, e si vede che nell’idea delle tutele crescenti (come nelle tutele decrescenti) c’è un eccesso di interventismo. E c’è il retaggio del modo di funzionare dell’attuale mercato del lavoro. È come se avessimo interiorizzato l’idea che all’avvio del percorso lavorativo si debba soffrire. E quindi l’inizio deve essere precarizzato e via via ci si stabilizza. Ma questa segmentazione, penalizzante per chi entra, non è ineluttabile, anzi. Il sistema diventa efficiente solo quando non distingue più tra chi entra e chi è già dentro. Quando semplifica, quando esce dalla tribunalizzazione ed entra nella realtà.

Articolo 18, le tante (facili) illusioni sugli altri modelli

Articolo 18, le tante (facili) illusioni sugli altri modelli

Dario Di Vico – Corriere della Sera

In materia di articolo 18 il dibattito di questi giorni si sta focalizzando attorno al modello tedesco e in particolare sulla possibilità che ha il giudice del lavoro di ordinare il reintegro del dipendente licenziato. Questa disposizione della legge tedesca, come spesso accade in Italia, è diventata quasi simbolica: una sorta di diga politico-culturale eretta da ampi settori del mondo sindacale e da una parte della minoranza pd per stoppare i provvedimenti del governo. Ma proviamo a capirne il perché.

L’orientamento della magistratura tedesca è rimasto abbastanza coerente nel tempo e porta nella stragrande maggioranza dei casi a ordinare il risarcimento monetario del licenziamento. Solo in pochi casi di palese discriminazione i giudici del lavoro sanciscono il reintegro in azienda. In questo modo in Germania si concilia la presenza nella norma di un diritto in più e un’applicazione, quasi quotidiana, che favorisce la flessibilità (in uscita) del rapporto di lavoro.

Da noi, in base alle norme vigenti adesso e quindi non prendendo a riferimento le novità contenute nel Jobs act governativo, la prassi giurisprudenziale risulta molto difforme da tribunale a tribunale e si arriva per casi simili anche a sentenze molto diverse tra loro, se non opposte. La causa, secondo il parere dei giuslavoristi, risiede nel dispositivo introdotto dalla legge Fornero che produce massima incertezza e concede un’eccessiva discrezionalità al magistrato. Più in generale si può aggiungere che la cultura economica prevalente tra i magistrati del lavoro li porta a concepire il diritto come uno strumento di riequilibrio democratico rispetto al rapporto di forza asimmetrico tra datore di lavoro e dipendente. Per l’insieme di questi motivi i sindacalisti sono portati a sostenere la bontà del modello tedesco e sarà bene quindi scrivere bene la formulazione della nuova legge, o avremo una nuova Babele del diritto.

Quando la sinistra “rivoluzionaria” voleva licenziamenti più facili

Quando la sinistra “rivoluzionaria” voleva licenziamenti più facili

Carlantonio Solimene – Il Tempo

Una premessa è doverosa: cambiare idea non è un peccato mortale. Anzi, talvolta è sintomo di intelligenza e umiltà. Tuttavia, di fronte a giravolte clamorose come quelle di tanti leader della sinistra sulla riforma dello Statuto del lavoro, è fondato il sospetto che più che trattarsi di sincera convinzione ci si trovi di fronte a un mero calcolo di opportunità politica. Il tema è sempre lo stesso: l’ormai famigerato articolo 18. Che di volta in volta cambia natura. È il totem di una sinistra che vuole difenderlo a ogni costo se a metterlo in discussione è l’«altro». Oppure è il retaggio di un mondo del lavoro che non esiste più e va abolito quando si vuole trasmettere l’idea di una sinistra più moderna, «blairiana», e magari sfidare la vecchia guardia del partito.

La vendetta di Ichino
Della giravolta di D’Alema ha già reso conto Pietro De Leo su Il Tempo. Ma ad andare oltre ci ha pensato Pietro Ichino, il giuslavorista ex piddino che, proprio per le sue idee troppo «aperte» sul welfare, alla vigilia delle scorse elezioni fu costretto a traslocare sotto le insegne montiane. Ora, com’è ovvio che sia, Ichino ha sposato in toto il progetto di Matteo Renzi – anche se lui direbbe che è stato Renzi a ispirarsi alle sue idee – e dal suo sito internet si è divertito a stanare uno per uno i vari esponenti Democratici che, tra il 2005 e il 2010, invocavano una riforma decisa del mercato del lavoro in chiave più «flessibile». E che, guarda caso, sono gli stessi che ora vorrebbero osteggiare in ogni modo i progetti del premier. I primi a essere inchiodati sono Cesare Damiano e Tiziano Treu. La fonte è quanto di più autorevole ci possa essere per la sinistra: un articolo de l’Unità risalente al 2005: «È la Danimarca a essere depositaria del “modello vincente”. È questo il parere di Tiziano Treu, Cesare Damiano e Paolo Ferrero nei giorni scorsi a Copenhagen in una sorta di “missione studio”». Segue una dichiarazione di Damiano: «L’entrata e uscita dal mondo del lavoro in Danimarca non è un problema perché esiste una forte protezione sociale». «La mobilità del lavoro investe circa 800mila persone su 4 milioni “ma non fa paura – continua l’esponente diessino – perché l’accesso a un altro impiego è garantito, anche grazie al ruolo attivo del sindacato nella gestione del sistema di orientamento e formazione”».

Viva la Danimarca. Anzi no
Si parla di «flexsecurity». Quel modello, cioè, che prevede minori tutele per il lavoratore – che di fatto non è protetto in alcun modo dal licenziamento – accompagnate però da maggiore attenzione nel momento della disoccupazione. Con sussidi superiori e la quasi sicurezza di potersi ricollocare in breve nel mondo occupazionale. Un modello, quello che ha visto le migliori realizzazioni in Danimarca e Svezia, che sembra piacere anche all’ex segretario piddino Pier Luigi Bersani. Stavolta la fonte citata da Ichino è un’intervista al Sole 24 Ore rilasciata da Bersani nel giugno 2009: «Non va mica bene che c’è una parte di protetti e la metà che è senza tutele. Anche perché i “tutelati” stanno andando man mano in pensione e sul mercato ci resteranno solo gli altri». L’intervistare si stupisce: «Scusi ma lei propone quel contratto unico di cui parlano anche Pietro Ichino e Tito Boeri?». Bersani risponde deciso: «Non è che mi vada bene al cento per cento. Ma la direzione è quella. Questo doppio regime nel lavoro non funziona più. E sono pronto alla battaglia con i sindacati. Perché, pure loro, si dimostrano miopi. E quando tutti i protetti andranno in pensione? Cosa rimane? Rimane il far west». Come si può leggere, colui che sarebbe diventato segretario del Pd appena quattro mesi dopo, non aveva problemi a dichiarare guerra ai sindacati su un tema così delicato. Si nasce incendiari e si finisce pompieri, recita un antico adagio, che potrebbe valere anche per Vannino Chiti, un altro degli esponenti Pd che conducono contro Renzi una lotta senza quartiere. Sulla riforma del Senato così come su quella del Lavoro. Proprio con Chiti Ichino è particolarmente velenoso: «Oggi dichiara “Rivolgo un invito al presidente del Consiglio: sulla delega per il lavoro eviti forzature e diktat (…) È senza fondamento e non accettabile per la sinistra rimettere in discussione ciò che resta dell’articolo 18″. Ma è lo stesso che nel 2009 figurava come terzo firmatario, insieme a Emma Bonino e a me, del ddl n. 1873, contenente la I edizione del Codice semplificato del lavoro con la riscrittura integrale dello Statuto dei Lavoratori (e ovviamente anche dell’art. 18)».

Il sindacato renziano
Solo gli stupidi non cambiano mai idea, va ribadito. Anche perché la «flexsecurity» non è accolta come oro colato neanche nel mondo degli economisti. C’è chi, ad esempio, sostiene che in periodi di crisi il sistema dei licenziamenti facili fa impennare il tasso di disoccupazione e indebolire la catena che porta al ricollocamento. Causando una diminuzione dei consumi e innestando la spirale della recessione. Pareri diversi, come quelli espressi da Luigi Angeletti a distanza di soli quattro anni. È il segretario della Uil l’ultima vittima della velenosa antologia di Ichino: «Oggi si affianca a Susanna Camusso accusando Renzi di “togliere protezioni a chi ce le ha”, ma è lo stesso che sul Corriere della Sera del 9 febbraio 2010, dichiara di condividere il progetto flexsecurity, ritenendolo una “soluzione intelligente e praticabile” e un’idea “moderna, che rende più efficiente il mercato e difende sul serio le persone». Considerazioni che fanno il paio con una lettera del novembre 2011 spedita a tutti gli iscritti, in cui Angeletti approva l’impostazione della legge 1.873/2009 e invita il sindacato a sostenerla. Sembra un’altra era, un altro Paese. Invece sono passati meno di tre anni.

Il problema è un altro

Il problema è un altro

Il Foglio

Quello dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori “è un problema minore rispetto ai problemi drammatici di questo paese”. Lo ha detto due giorni fa il presidente dell’Espresso, Carlo De Benedetti, con discreta eco sulla carta stampata. D’altronde un imprenditore che dica che c’è “ben altro da fare”, proprio quando si vede all’orizzonte un governo finalmente pronto a cambiare una norma vecchia di 44 anni, in Italia lo troviamo sempre. Ieri, per esempio la Cgil rilanciava prontamente su Twitter l’intervista rilasciata a Ballarò da un “imprenditore” che sosteneva: “A noi dell’articolo 18 non interessa niente”. Lo stesso “imprenditore”, in realtà ai vertici di una cooperativa, che trenta secondi prima spiegava cosa s’attende dallo stato: “Meno tasse e più incentivi, più risorse”. Perché no? A Napoli hanno appena scoperto la più grande stamperia d’Europa di banconote false. Qualcuno ne metterà su un’altra e allora potremo realizzare l’originale proposta: meno entrate per lo stato e, allo stesso tempo, più uscite.

Ma De Benedetti non è un imprenditore qualunque. Eppure insiste: “L’articolo 18 è un problema minore”. Nell’articolo 18, per 44 anni, si è cristalizzata una legge dell’economia che vige soltanto in Italia: sui licenziamenti individuali, per ragioni economiche o disciplinari che sia, è più titolato a decidere un magistrato che un datore di lavoro. Problema minore, quello dei licenziamenti, per chi per esempio, come De Benedetti, si è dovuto sudare contratti e accordi con un carrozzone statale e politicizzato come l’Iri. Problema minore quando gli organici si tagliano in grandi quantità, come fu per Olivetti, e addirittura si è nella posizione di intavolare trattative (raccontate anche su Rep. degli anni 90) per paracadutare i licenziati nel settore pubblico. Problema minore, quello dell’articolo 18, se la Sorgenia può avvalersi di sussidi pubblici (per carità, in buona compagnia). Problema minore, quello dell’articolo 18, se tanto per i propri dipendenti c’è sempre la cassa integrazione e per l’indotto c’è perfino quella in deroga. Poco importa se il Welfare attuale, tutt’altro che universale, è figlio diretto della divisione dei lavoratori italiani tra insider garantiti e outsider senza protezioni. Poco importa se 90 assunti su 100, nel 2013, l’articolo 18 nemmeno l’hanno visto, spesso vittime di quella che il giuslavorista chiama “fuga dal diritto del lavoro”. La tessera numero uno del (vecchio) Pd vuole parlar d’altro. E purtroppo in Italia non è il solo.