lavoratori

I senza tutela lasciati fuori dal sindacato inossidabile

I senza tutela lasciati fuori dal sindacato inossidabile

Oscar Giannino – Il Messaggero

Raffaele Bonanni anticipa la sua successione alla guida della Cisl nel culmine della battaglia sull’articolo 18. E dà in questo un epilogo a una vita di passione sindacale che l’ha visto spesso impegnato in battaglie molto difficili. Se Pierre Carniti l’ha rimproverato di aver troppo rimarcato la “differenza” riformista della Cisl, rispetto all’antagonismo spesso risorgente nella Cgil e nella Fiom, al contrario è per il senso di responsabilità di Bonanni e di chi lha sostenuto alla Cisl su molti accordi innovativi – una per tutte la vicenda Fiat- che, ancora recentemente, purtroppo la confederazione si è trovata ad avere sedi vandalizzate e dirigenti minacciati.

Ora che l’addio di Bonanni è nelle cose, molti argomentano che il punto centrale è la distanza o la vicinanza del sindacato rispetto a questo o quel governo, a quelli Berlusconi un tempo, a quello Renzi oggi. Ma il nodo più essenziale non è il rapporto con la politica, se vogliamo interrogarci sul rilievo e sull’apporto che il sindacato può dare a un Paese che ha molto perduto – in termini di reddito, lavoro e prodotto – ma che al contempo sente di potersi battere per difendere il suo posto sui mercati mondiali.

È invece il suo rapporto con il mondo del lavoro, la sua vicinanza o distanza rispetto a come il lavoro è diventato concretamente in Italia. In Italia i fatti non sono andati come si poteva immaginare ai tempi di Carniti o di Lama. Non siamo diventati un Paese in cui la stragrande maggioranza degli occupati sarebbe stata ineluttabilmente a tempo indeterminato e in imprese sempre più grandi. Quelle attese erano maturate negli anni Cinquanta e Sessanta, scambiando il salto che l’Italia compiva, agganciando in soli 15 anni le economie industriali da una realtà postbellica che era ancora agro-pastorale, come un anticipo di una tendenza volta a confermarsi nei decenni.

Non è andata così. Contiamo nelle graduatorie internazionali meno grandi e grandissime imprese italiane di quante erano 20 anni fa. Restiamo un Paese in cui il tessuto d’impresa, anche nel settore manifatturiero, ha visto le piccole e piccolissime aziende resistere accanitamente. Tra i Paesi a forte componente di valore aggiunto manifatturiero sul Pil, siamo quelli con il più alto numero in milioni di lavoratori autonomi, artigiani e commercianti, partite Iva e freelance. E a tutto questo, negli ultimi 15 anni, abbiamo aggiunto un esercito di milioni di lavoratori più giovani a tempo determinato, a bassissimo e incerto reddito, estranei alle tutele immaginate solo ai tempi eroici per i dipendenti a tempo indeterminato delle aziende medio-grandi, a singhiozzante continuità contributiva, e ciò malgrado proprio coloro che più contribuiscono in positivo, oggi, a pagare le ricche pensioni retributive degli ipertutelati di un tempo, pensioni retributive che i più giovani non avranno.

È in questo mondo – un mondo maggioritario tra i 22,4 milioni di lavoratori italiani, cassintegrati compresi – che il sindacato oggi, anzi da un po’ di anni, semplicemente non c’è. Malgrado, per esempio, le intese degli anni più recenti sui criteri di rappresentanza sui posti di lavoro, è ancora più regola che eccezione che i precari non possano votare per le rappresentanze sindacali. Ma per il resto, e per fare un solo esempio, a favore di Daniela Fregosi che, da lavoratrice autonoma malata di cancro, ha coraggiosamente fatto del suo caso personale una battaglia pubblica, perché per il welfare italiano attuale un’autonoma malata non ha diritto alle tutele salariali e contributive dei dipendenti, si batte l’Acta, l’Associazione dei freelance del terziario avanzato, non certo il sindacato.

È questa la più grande lacuna della rappresentanza del mondo del lavoro italiano. E le risposte date in questi anni dalle confederazioni, la nascita di articolazioni come la Nidil (nuove identità di lavoro) in Cgil, o le analoghe rappresentanze dei lavori a tempo e in somministrazione da parte di Cisl e Uil, o gli inseguimenti tra confederali e molteplici sindacati di base nella rappresentanza dei precari della PA e in particolare della scuola, sono stati sin qui tentativi troppo parziali e insoddisfacenti. Volti a organizzare proteste per l’assunzione a tempo indeterminato nel pubblico come nel privato, non a cambiare identità, regole e struttura del sindacato. Accettando pienamente l’idea che i contratti a tempo esistono ed esisteranno comunque, qualunque sia la riforma o meno dell’articolo 18, perché assecondano esigenze dell’offerta di beni e servizi che devono rispondere a una domanda interna ed estera che muta in tempi rapidi, e perché l’esternalizzazione di funzioni e processi dall’unità d’impresa non è solo una furbata per star sotto la soglia dei 15 dipendenti, ma una necessità dovuta all’ottimizzazione dei risultati.

Per tutte questa ragioni, è ovvio che da una parte verrebbe da dire a Bonanni che se un compito dovrebbe avere il suo successore, è quello per esempio di lavorare a unificare Cisl e Uil, la cui persistenza in vita come confederazioni distinte assolve più alla ragione di tenere in piedi organi territoriali e nazionali e quadri e dirigenti doppi, che alla perdurante irriducibilità culturale di due ispirazioni, quella cattolica e quella socialdemocratica, che appartengono irrimediabilmente all’Ottocento e al Novecento.

Ma, dall’altra parte, l’appello vero da rivolgere alla Cisl, alla Uil e alla Cgil, è molto più ampio di una mera riconsiderazione delle proprie distinzioni, o dell’appello alla mitica “unità” delle confederazioni. Dovrebbero capire che è tempo di non maturare più successioni alla leadership a vantaggio di chi ha già passato decenni nelle segreterie nazionali di categoria e confederali, ma invece di chi viene dalla contrattazione decentrata che è il futuro. Si è appena sottoscritto l’ennesimo contratto aziendale – alla Ducati, del gruppo Volkswagen – fortemente innovativo su turni, festività, orari, salari, investimenti dell’azienda e nuove assunzioni. Ma ancora oggi, in Italia, noi non abbiamo neanche una banca dati centralizzata sulle intese aziendali, perché i sindacati temono che realizzarla significhi dare un colpo al sistema che continuano a difendere, quello dei contratti nazionali di lavoro che fissano oltre il 95% del salario: mentre solo accettando che quelli aziendali siano prevalenti su quello nazionale anche per i salari, davvero il sindacato riconquista il proprio ruolo di motore a difesa del lavoro e del suo reddito, a fianco dell’impresa e meglio potendo anche osservarne dall’interno andamenti e investimenti. E soprattutto compartecipando gli effetti positivi di quell’aumento di produttività in assenza del quale, dopo 15 anni di stagnazione, ci sarà sempre meno impresa e meno lavoro.

Non è un problema di età, e neanche di genere, anche se ovviamente più sindacaliste in posizioni di responsabilità è meno scandaloso di una rappresentanza maschile a senso unico. È un problema di testa: accettare l’idea che rappresentare gli autonomi significa sposare l’idea che è ingiusto che la contribuzione a carico degli iscritti al fondo speciale Inps sia maggiore di quella dei lavoratori dipendenti, battersi per un welfare che non è più incentrato sull’idea novecentesca della maggior tutela ai dipendenti, chiedere un fisco che non discrimini la percezione per reddito a seconda della fonte. Per lungo tempo, in Italia, il problema del sindacato è stato quello di non concepire l’impresa come nemica. Oggi, è diventato quello di non considerare milioni di lavoratori come estranei.

Tutti precari nell’azienda di Renzi

Tutti precari nell’azienda di Renzi

Bonifacio Borruso – Italia Oggi

Come Matteo Renzi ha annunciato di voler davvero riformare lo Statuto dei lavoratori, «per smettere di discriminare i non garanti», è scattata la corsa a usare le attività dei genitori per dimostrare l’incoerenza pratica del premier: nelle piccole aziende «renziane» non c’è tutta questa voglia di tutelare i giovani. Non c’entra qui l’inchiesta della procura di Genova che, a sei mesi dalla relazione di un perito del tribunale fallimentare, si è ricordata di indagare Tiziano Renzi, padre del segretario Pd, con l’ipotesi di bancarotta fraudolenta per un’azienda operante nel genovese: coincidenza singolare ma comunque coincidenza.
L’attacco s’è concentrato sulla tipologia dell’attività in questione nella società, la Chil, di cui peraltro Renzi è un dirigente in aspettativa, regolarizzato, si osserva, poco prima di diventare presidente della Provincia, così da trasferire l’onere dei contributi previdenziali all’ente pubblico.

Il Fatto quotidiano, domenica scorsa, ha titolato prontamente: «Tiziano Renzi, nella sua azienda tutti precari. Tranne il figlio Matteo». Davide Vecchi, l’autore dell’articolo, parla di un marchio di fabbrica, in quanto anche le due sorelle del premier, che lavorano in un’altra azienda di famiglia, la Eventi 6, sarebbero inquadrate come co.co.co., cioè come collaboratrici coordinate e continuative. Il giornalista del foglio padellarian-travaglian-gomeziano definisce ironicamente questa tipicità contrattuale come «Tiziano Act», che si contrappone, nei fatti e nel privato familiare di Renzi, al Jobs Act del premier. Un modo per dire che Renzi predica bene dal pulpito di Palazzo Chigi e razzola male negli uffici paterni di Rignano sull’Arno (Fi).

Eppure il pezzo di Vecchi cita, correttamente e nel dettaglio, che attività svolgessero e svolgano le società di Renzi senior, della mamma e delle sorelle: la diffusione di giornali, di volantini e di prodotti editoriali. Un’attività che, per definizione, deve svolgersi con contratti a termine. E infatti, come racconta il giornalista, a impegnarvisi erano soprattutto studenti universitari che arrivavano a mettere insieme 400 euro al mese. «Era faticoso perché ci svegliavamo all’alba», racconta al Fatto un ex-lavoratore Chil, dietro richiesta dell’anonimato (sic), «ma per il resto era il classico lavoro da studenti e ci ripagavamo sigarette e qualche uscita di sera». Il contratto «era atipico», insisteva l’intervistatore cercando l’indignazione postuma, e l’altro, di rimando: «Ma era regolare, cioè potevano farlo e fra l’altro devo dire che era onesto perché, oltre al fisso, ci riconosceva una percentuale, seppur minima, su ogni copia che riuscivamo a vendere».

In pratica, secondo il Fatto, babbo Renzi avrebbe dovuto assumere a tempo indeterminato torme di studenti universitari nelle città in cui lavorava. Un nuovo profilo professionale: gli strilloni-impiegati di concetto In questo, però, anche l’Editoriale Il Fatto Spa, di cui è presidente il direttore Antonio Padellaro, e nel cui consiglio di amministrazione siedono Marco Travaglio e Peter Gomez, potrebbe aprire una strada: assumendo a tempo indeterminato, ovunque siano e ovunque scrivano, carta o web, i collaboratori del giornale.

Una sfida ancora lunga

Una sfida ancora lunga

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

La bandiera dell’art. 18 e della riforma del lavoro sventola anche sull’altra sponda dell’Atlantico. Il premier Renzi l’ha mostrata al Council on Foreign Relations e il messaggio politico è stato chiaro per tutti. Per gli americani la determinazione dell’ospite italiano e il suo inedito dinamismo sono di certo una piacevole sorpresa. Per chi invece vede le cose dalla vecchia Europa la bandiera renziana non ha segreti da tempo. È un metodo con una logica precisa. L’articolo 18 da abolire è un simbolo che ovviamente il presidente del Consiglio non può né vuole ammainare. E la connessa riforma del lavoro è anche una grande operazione di “marketing” volta a imporre all’estero l’immagine della “nuova Italia”.

In Italia infuria il dibattito sulla reale consistenza del personaggio Renzi, sulla sua capacità di trasformare le declamazioni in fatti concreti, e l’editoriale del direttore del “Corriere della Sera” ha fatto clamore. Ma intanto lui, il diretto interessato, gioca un’altra partita e in America usa il linguaggio ed evoca gli scenari che i suoi interlocutori d’oltreoceano apprezzano di più. È un altro aspetto dell’arabesco che egli sta ricamando con l’opinione pubblica interna e internazionale. Di conseguenza i suoi oppositori nel Pd, quelli che frenano sull’articolo 18, sembrano muoversi in un universo parallelo. E un po’ è vero. A Roma c’è chi ragiona ancora di vecchi partiti e di sindacati, di emendamenti e mediazioni. Ma dagli Stati Uniti la risposta è perentoria: sul piano formale non vengono evocati scenari elettorali, tuttavia le minacce politiche sono implicite e provengono da un uomo che quando è sotto pressione rilancia con spavalderia.

Ora è chiaro che il «gruppo Bersani» non ha interesse a spezzare il ramo su cui tutti sono seduti. In altri termini, i “conservatori” non puntano oggi alla crisi di governo. Però anch’essi, come Renzi, hanno un obiettivo politico: dimostrare che il premier si è spostato a destra ed è prigioniero di Berlusconi. Quei sette emendamenti che la minoranza ha presentato e che il premier respingerà per non apparire sconfitto servono a dimostrare che in un segmento del Pd sopravvive una diversa identità e un’altra idea della sinistra. È possibile che sia solo un’operazione di palazzo e che nel paese non esista sufficiente consenso per queste posizioni. Ma gli anti-Renzi lavorano su tempi medi senza pensare a scissioni.

Intanto lasciano a Renzi la responsabilità di spaccare lui il Pd. Nemmeno questo avverrà: forse, lontano dalle telecamere, si troverà persino un compromesso su qualche aspetto non centrale della legge. Ma il prossimo passaggio della contesa riguarderà la riforma elettorale. Se Renzi otterrà l'”Italicum” in tempi brevi, avrà vinto la sua partita. Se non lo otterrà, dovrà continuare a governare, a meno di non rischiare le urne con la legge proporzionale scaturita dalla Consulta. Facile capire che la minoranza del Pd aspetta il premier al varco quando si tratterà di eleggere il nuovo capo dello Stato, forse nella prossima primavera. Se sarà questo Parlamento a caricarsi della delicata incombenza, le armi di Renzi potrebbero rivelarsi spuntate. I casi di Violante e Bruno sono lì a dimostrare come le attuali assemblee siano difficilmente gestibili e non c’è patto del Nazareno che tenga.

Se si voterà il successore di Napolitano con queste Camere, e non con le prossime, la minoranza Pd, quella che si mantiene prudente, è in grado di impedire il successo del candidato di Renzi, chiunque egli sia. Ed è qui la vera partita. A meno che il premier non riesca a rivolgersi prima al corpo elettorale, il che oggi non sembra probabile.

Articolo 18, l’atto di fede nelle virtù del licenziamento

Articolo 18, l’atto di fede nelle virtù del licenziamento

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Il punto non è se è giusto abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ma come decidiamo se è giusto o sbagliato. Le imprese non assumono perché temono di non poter licenziare? Restano nane, sotto i 15 dipendenti, per evitare la soglia che fa scattare l’obbligo di reintegro del lavoratore cacciato senza giusta causa? Ha ragione Renzi o la Cgil?

Per rispondere bisognerebbe avere dei dati che permettano di fare una scelta motivata e non ideologica. In teoria questa volta dovremmo averli. Perché a gennaio è stato pubblicato il monitoraggio della riforma Fornero del 2012 che ha modificato, tra l’altro, l’articolo 18: la novità è che in caso di licenziamento disciplinare o per ragioni economiche giudicato illegittimo (ma non discriminatorio, che è nullo), il giudice può decidere se applicare il reintegro del lavoratore o un risarcimento tra le 12 e le 24 mensilità. Qualcosa è cambiato: l’indice Ocse che misura la difficoltà dei licenziamenti in Italia è passato dal 4,5 del 2008 al 3,5 del 2013 e, come sottolinea il ministero del Lavoro nel documento, è la prima volta che la flessibilità del mercato aumenta grazie alla maggiore facilità di licenziamento di chi ha un contratto a tempo indeterminato (anche se il 75 per cento dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo avviene nelle aziende con meno di 15 dipendenti, e dunque senza articolo 18). Le assunzioni sono aumentate grazie alla modifica dell’articolo 18? La risposta, semplicemente, è che non lo sappiamo. Questo nel rapporto del ministero non c’è scritto. Sappiamo solo che forse un po’ di super precari (tipo lavoro a chiamata) hanno brevi contratti a tempo determinato, leggero miglioramento. Ma cambiare la disciplina del mercato del lavoro in piena recessione non permette di misurarne bene gli effetti.

Qualche economista vi dirà che licenziamenti un po’ più facili rendono anche le assunzioni un po’ più facili, altri sosterranno che o si cancella il reintegro dalle sanzioni o niente cambia, altri ancora vi spiegheranno che è irrilevante l’articolo 18. Ma di solito si tratta di convinzioni personali, viene richiesto un atto di fede più che di comprensione. Tutti i precari italiani scambierebbero il loro co.co.co., co.co.pro. o partita Iva con un contratto a tempo indeterminato e a tutele crescenti. Perché la loro condizione di sicuro non peggiorerebbe. Se invece chiedete loro: “Volete essere facilmente licenziabili il giorno (lontano) che sarete assunti?”, saranno meno entusiasti. Eppure il dibattito sul lavoro parte sempre dalla facilità di licenziamento, anche se non vi è proprio alcuna prova numerica che sia la variabile decisiva.

La battaglia a sinistra e lo spettro del nemico

La battaglia a sinistra e lo spettro del nemico

Alessandro Campi – Il Messaggero

Ora o mai più. La minoranza di sinistra del Pd, che era rimasta come tramortita dalla trionfale vittoria riportata da Renzi alle elezioni europee, dopo un periodo di smarrimento e confusione ha trovato nella difesa dell’articolo 18 e nell’opposizione al Jobs Act proposto dal governo la sua ultima ed estrema frontiera di lotta. Se vince, tornerà ad essere condizionante e potrà prendersi la rivincita su chi ne aveva auspicato l’estinzione. Se perde, sarà per sempre e in Italia, bene o male che sia, si imporrà una sinistra diversa da quella conosciuta per decenni. La battaglia che essa ha deciso di combattere presenta una valenza duplice: strategica e tattica. Lo scontro sul lavoro è culturale in senso nobile e politico-parlamentare nel suo significato più contingente. L’esito, fallimentare o vincente, sarà il frutto convergente di queste due linee d’azione.

Partiamo dal primo aspetto. All’inizio quella di Renzi è parsa una propaganda tutta giocata sul tema del ricambio generazionale fine a se stesso: dentro i giovani, fuori i politici di lungo corso. Ma presto si è capito che erano in ballo altre prospettive e tematiche. La rottura renziana rispetto alla sinistra che governava il Pd, di matrice post-comunista e post-democristiana, riguardava anche il linguaggio, l’estetica e la visione della società. Renzi è un rappresentante dell’era televiso-digitale, ha introiettato i valori dell’individualismo, vive la politica come scontro tra leadership, non sente il peso delle appartenenze ideologiche. Renzi è intellettualmente un semplificatore, ha una cultura di governo che inclina al pragmatismo, non considera la società come una realtà da disciplinare o da indirizzare secondo modelli pedagogici dall’alto, nutre un’istintiva insofferenza per tutto ciò che è apparato o burocrazia, coltiva il mito giovanilistico della velocità e dell’immediatezza. Tutto ciò lo ha messo in urto con la sinistra storica italiana, le sue strutture organizzative, i suoi schemi mentali e i suoi valori di riferimento: il partito come luogo di discussione e confronto tra anime, correnti e gruppi, ma anche come “casa comune” alla quale subordinare la propria personalità; l’ideologia di appartenenza come fattore identitario e strumento privilegiato di analisi della realtà; una tradizione culturale intrisa di pauperismo e avversione per la ricchezza; la subordinazione dell’individuo (e delle sue aspirazioni) alla dimensione collettiva del vivere associato; il moralismo portato al limite dell’intransigenza nel rapporto con gli avversari; una visione socialmente statica e stratificata della società; una relazione sentimentale-emotiva con la propria base elettorale di riferimento vissuta come strutturalmente stabile; la complessità dei ragionamenti e delle analisi sino a sconfinare nell’intellettualismo e nell’astrattezza.

Quella di Renzi, proprio per queste differenze, è stata spesso definita dai suoi critici interni una sinistra, per così dire, troppo di destra, aliena rispetto alla visione convenzionale che si ha di una politica orientata in senso progressista e riformistico. Ma a spazzare i dubbi sull’autenticità e, al tempo stesso, sulla novità della sua proposta ci hanno pensato prima i militanti dello stesso Pd, che lo hanno incoronato segretario attraverso le primarie, poi gli elettori, che gli hanno consegnato percentuali di consenso mai toccate prima da quel mondo e dai suoi rappresentanti. Ma sul nodo del lavoro – che rappresenta in effetti il dna storico-ideologico della sinistra in tutto il mondo, sin dalle origini – si è pensato di poter nuovamente riproporre l’idea che Renzi, con la sua ansia innovatrice, sia in realtà prigioniero di pregiudizi ideologici e di una visione dei rapporti sociali che lo imparenterebbero addirittura con la signora Thatcher, l’esponente del liberismo più nerboruto e aggressivo. Bloccare il Jobs Act, in Parlamento o addirittura ricorrendo ad un referendum tra gli iscritti al partito, è diventato a questo punto un modo – l’ultimo e definitivo – per dimostrare l’eccentricità di Renzi rispetto alla tradizione della sinistra su una tematica che per quest’ultima riveste un valore simbolico prima che politico. Facile vantarsi di essere riformisti quando si combattono gli sprechi della pubblica amministrazione. Ma il bluff ideologico viene a galla quando si tolgono ai lavoratori i loro diritti costituzionali.

Oltre quella identitaria e ideale, c’è poi la battaglia tattica e strumentale. Renzi pensava, dopo essersi impossessato del partito, di poter indirizzare anche il voto dei gruppi parlamentari: scelti quanto Bersani era segretario, ma tenuti per disciplina ad un atteggiamento di lealtà verso il nuovo leader. Si è scoperto che così non è. Per aver gruppi politicamente disciplinati e culturalmente allineati, Renzi dovrà aspettare le prossime elezioni. Nel frattempo deve accettare una guerriglia parlamentare che – alla luce di ciò che è successo ieri: quaranta senatori del Pd hanno firmato gli emendamenti che puntano a bloccare la riforma dell’articolo 18 – potrebbe costringerlo, se vuole tirare dritto sul suo progetto di riforma, ad accettare i voti in aula di Forza Italia. Nascerebbe a quel punto una nuova maggioranza de facto. Ciò autorizzerebbe i suoi avversari interni – che alle pulsioni antiberlusconiane non hanno mai rinunciato, essendosi politicamente formati col mito negativo del Cavaliere nero – a trarne le ovvie conseguenze: una crisi di governo che nei loro piani non dovrebbe però preludere ad elezioni anticipate (del resto esclude dallo stesso Capo dello Stato). L’obiettivo è quello di liberarsi di Renzi, da sostituire magari con l’ennesimo tecnico, non offrirgli l’occasione per un referendum sulla sua persona che, anche senza cambiare l’attuale legge elettorale, vincerebbe a mani basse.

Da un lato, sottraendogli in Parlamento i voti del suo partito, si vuole spingere Renzi tra le braccia di Berlusconi. Dall’altro – come sembra mostrare la vicenda delle votazioni a vuoto sui giudici costituzionali – si vuole fare saltare l’accordo politico tra i due, che la sinistra interna non ha mai digerito ritenendolo innaturale. Sembrano prospettive contrastanti, si tratta in realtà di due strade finalizzate allo stesso traguardo: porre fine al disegno egemonico di Renzi, impedire che un fenomeno politico-culturale che gode di largo credito nel Paese ma ancora in via di strutturazione possa radicarsi alla stregua di un progetto organico. Resta naturalmente da chiedersi quanto in questo disegno demolitore, che unisce spinte ideali a un manifesto cinismo, risponda ad un calcolo politico razionale, che gli elettori progressisti, una volta uscito Renzi di scena, potranno persino apprezzare, o più semplicemente ad una pulsione fratricida, suicida e nichilista, che è la vocazione più autentica della sinistra italiana.

L’articolo 18 sul piatto della bilancia

L’articolo 18 sul piatto della bilancia

Tiziano Treu – Europa

È da anni (troppi) che ci interroghiamo sulle regole del mercato del lavoro. Ho sempre sostenuto, che l’obiettivo da raggiungere, e indicato dall’Europa è una vera flexicurity. Quella attuata nei paesi più virtuosi implica, da una parte, una maggiore flessibilità nel lavoro per rispondere alle nuove realtà delle imprese e alle nuove esigenze delle persone, e dall’altra parte una maggiore sicurezza nel mercato del lavoro, per gestire le sue continue trasformazioni. Servono entrambe. Purtroppo in Italia si sono introdotte negli ultimi anni nuove flessibilità, sia in entrata, da ultimo facilitando il ricorso al contratto a termine, sia in uscita riducendo le rigidità delle regole sul licenziamento. Ma non si è prevista una adeguata rete di sicurezza.

Nonostante le modifiche da ultimo della legge 92/2012 sono ancora quasi un milione i dipendenti che sono privi di indennità di disoccupazione. Ne sono privi tutti i collaboratori e partite Iva, che inoltre non hanno quasi nessuna tutela propria dei lavoratori dipendenti. Anche le Cig e le Cigs lasciano fuori oggi oltre 5 milioni di lavoratori, che potrebbero scendere a 2,5 se ci fosse un grande sviluppo dei fondi di solidarietà (non facile). Questi ammortizzatori sono non solo squilibrati per entità e durata, ma anche privi di strumenti di sostegno e accompagnamento per disoccupati e cassaintegrati. Cosicché si traducono in misure assistenziali, costose e poco utili all’occupazione. Sono queste le vere e proprie ingiustizie che vanno corrette. Esse sono state troppo a lungo tollerate anche dai sindacati, preoccupati soprattutto di proteggere gli insider, cioè i lavoratori “storici”. È su questo che insiste Renzi, per cambiare.

È un impegno difficile, perché estendere gli ammortizzatori costa. Anche senza pensare di emulare quelli danesi o tedeschi servono almeno 2 miliardi secondo le stime iniziali. Inoltre, per correggere l’assistenzialismo degli ammortizzatori tradizionali, occorre uno sforzo organizzativo capace di far migliorare i servizi all’impiego pubblici e privati, mettendoli in concorrenza e dando ai lavoratori la possibilità di scegliere da chi farsi aiutare. A questo mira la delega, con indicazioni abbastanza chiare, se si vogliono prendere sul serio.

Mi auguro che sia la volta buona e che su tale fronte si impegnino tutti, con indicazioni abbastanza chiare, dai parlamentari che devono votarle, alle regioni, che finora sono andate troppo in ordine sparso, agli operatori dei servizi che vanno motivati e qualificati professionalmente e aumentati di numero (anche qui senza pensare di emulare i 110.000 addetti della Germania). Realizzare un sistema universale di sicurezze e di aiuti effettivi sul mercato del lavoro ed estendere le tutele a chi non ce le ha, compresi i lavoratori atipici, dovrebbe sdrammatizzare la questione dell’articolo 18 e dei rimedi contro i licenziamenti ingiusti, come avviene nei paesi della vera flexicurity. Sostengo questa tesi da anni, ma senza esito, anche perché è mancata la verifica, cioè una vera sicurezza sul mercato del lavoro, nonché una crescita sufficiente a sostenere l’occupazione.

L’offerta del governo di attuare finalmente un sistema di sicurezze sul mercato del lavoro è importante. Può servire a milioni di giovani e di lavoratori disoccupati e inattivi. E questo va messo sul piatto della bilancia nel valutare le proposte di modifica dell’art. 18 (che riguarderebbero peraltro solo i nuovi assunti) e nel ridimensionarne la portata. Le modifiche della legge Fornero, pur avendo modificato l’art. 18, con l’intento di ridurre l’ambito della possibile reintegra, non hanno dato certezze perché scritte in modo troppo complicato, aperto a interpretazioni diverse da parte dei giudici. La mancanza di certezze circa la decisione del giudice continua a pesare non solo su questo aspetto del nostro mercato del lavoro.

In altri paesi non è così, sia in quelli in cui la reintegra non è prevista dalla legge, (Spagna, Portogallo, UK, ma anche Danimarca), sia dove è prevista, ma di fatto è usata come extrema ratio (salvo naturalmente i casi di discriminazione). Anche per questo in tali paesi il problema non è stato oggetto di discussioni così estremizzate come da noi, e si è potuto risolvere con soluzioni condivise, più semplici e con maggiore discrezionalità dei giudici. Io stesso avevo proposto nel 2001 un ddl con indicazioni simili; che sono state scartate per un contesto politico e sindacale ostile.

Si poteva non arrivare a questo punto? Forse. Ma occorreva un’altra lungimiranza riformatrice, da parte di tutti, partiti e sindacati. Al punto in cui siamo l’incertezza non può continuare. Anche per questo Renzi ha chiesto di voltare pagina. Ma la nuova pagina va letta tutta. Può essere più europea e più equa, anche cambiando l’art. 18, purché si attui tutto il disegno della legge delega e si varino efficaci misure per la crescita e per l’occupazione, anche forzando l’Europa.

Allargare i diritti, ma quali?

Allargare i diritti, ma quali?

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Non c’è stato nessuno, nei media, che abbia chiesto a qualche esponente della minoranza del Pd: «Quali diritti intendeste allargare? Sostenete che invece di toccare l’art. 18 dobbiamo allargare l’area dei diritti dei lavoratori, spiegateci in cosa consiste la vostra proposta». Secondo me, l’interpellato farfuglierebbe qualche parola in puro politichese. Infatti, si tratta di una bugia bella e buona, annunciata con aria pensosa, proprio per confondere le acque di una discussione che, in realtà, è abbastanza semplice e riguarda l’allentamento delle rigidità dello statuto dei lavoratori, che impediscono all’imprenditore di avere fiducia e di assumere.

I diritti dei lavoratori sono diritti di libertà (sindacale e politica), di sicurezza sociale (assenze pagate), di retribuzione. Tutti, proprio tutti comportano costi per le aziende. «Allargare i diritti dei lavoratori», quindi, significa aggravare i costi del lavoro. Punto. Basterebbe questa constatazione per tappare la bocca ai confusi esponenti delle varie minoranze del Pd, in concorrenza tra loro, pronte, in alcuni casi, a ingrossare le file del vincitore. Alle loro spalle c’è il colosso d’argilla, l’organizzazione che da condizionata dal partito, ne è diventata la condizionatrice: la Cigl. Essa, è il riferimento politico e organizzativo di gran parte della minoranza del Pd, legata mani e piedi al sindacato e alla congerie di soggetti che fanno capo a esso, compresa la cooperazione. Come dimostra la posizione del «riformista d’un mese» Giuliano Poletti, ministro del lavoro e delle politiche sociali.

L’allargamento dei diritti, in un periodo di drammatica crisi come l’attuale, allontanerebbe ogni idea di ripresa, a meno che, scartellando da ogni impegno europeo lo Stato non si desse ad assumere, caricando, ulteriormente, sulla collettività i costi del disastro. Del resto, lo stolido Cofferati si dichiara in questi giorni neokeynesiano e propone un vasto piano di investimenti per recuperare posti di lavoro e rilanciare l’economia. Non lo sfiora il dubbio che i soldi non ci sono; se ci fossero mancano i progetti; e se tutto fosse pronto e disponibile dovremmo muoverci negli angusti spazi concessici dall’Unione europea.

A nessuno al mondo che abbia avuto esperienze produttive, in qualsiasi posizione, verrebbe in mente di rendere ancora più problematiche le assunzioni, lasciando a spasso, senza speranze, per le nostre piazze i giovani, poco qualificati dalla scuola, che vi soggiornano. A nessuno, sano di mente, verrebbe in mente di allargare il ruolo dell’autorità giudiziaria (che è il garante dei diritti) dandole ulteriori facoltà di intervenire nelle gestioni aziendali. Se, quindi, è così intuitivo che «allargare i diritti» è una formula senza costrutto, una follia comunicazionale, perché gente che, per altri versi, conosciamo come ragionevole e posata, la adotta come una bandiera?

Pensiamo a Bersani, solido, spietato burocrate dell’ex Pci, dotato di una naturale bonarietà. Pensiamo al raziocinante Cuperlo, prezioso consigliere alla presidenza del consiglio in anni non lontani, e a tanti altri che si prodigano su questo terreno dichiarando a destra e a manca che il problema non è l’abolizione dell’art. 18, ma, appunto, l’allargamento dei diritti. Se questo accade, non accade per caso. Dalle parti della sinistra Pd, si è capito che quella sull’art. 18 è la madre di tutte le battaglie del renzismo. La sua vittoria determinerebbe la fine di quel poco o tanto di potere che la Cgil esercita ancora nelle aziende, e, per li rami, le possibili influenze che gli eredi di quella che fu una grande armata, il Pci, riescono ancora ad avere sul mondo produttivo nazionale. Probabilmente, lo sa anche la massa dei disoccupati che l’«allargamento dei diritti» è una bugia che può solo prolungare il loro tragico stato rendendolo permanente. Meglio spazzarla via dalla scena il prima possibile.

Sorpassati dalla storia

Sorpassati dalla storia

Giuseppe Turani – La Nazione

Mentre prosegue il braccio di ferro sull’articolo 18, in giro per l’Italia sindacati e lavoratori firmano per lavorare anche alla domenica. È difficile non notare un contrasto stridente: il mondo va in una direzione, a dispetto di sindacati, minoranza Pd e di quelli saliti sulla barricata dell’articolo 18. Qualche tempo fa persino un uomo certamente di sinistra (anche se un po’ disastroso) come Fausto Bertinotti ha detto che la Cgil, ad esempio, aveva sbagliato nel non ritirare volontariamente i suoi dirigenti che risultavano in permesso sindacale, ma che erano pagati dalla pubblica amministrazione: in tempi di austerità e di difficoltà il sindacato avrebbe dovuto farsi avanti per primo. Invece ha aspettato che Renzi lo imponesse, e poi ha pure protestato.

La battaglia intorno all’articolo 18 ha un po’ lo stesso sapore di grave ritardo rispetto alla storia. E comunque la si pensi, non è il vero problema e nemmeno la minaccia più grande per il sindacato. La minaccia grave per il sindacato è quello che sta avvenendo a Bologna e altrove: lasciando perdere tutti i grandi dibattiti nazionali, politici e quasi filosofici, i lavoratori (dove c’è lavoro) puntano a prenderselo senza fare tante storie e a farsi pagare. Com’è giusto che sia. Poiché stiamo andando (anzi ci siamo già) verso un’economia che presenterà profonde differenze da settore a settore, da area geografica a area geografica, se il sindacato non cambia strada in fretta rischia di vedere che ‘sotto di lui’ il mondo del lavoro si organizzerà e contratterà le proprie retribuzioni. E rischia, quindi come in parte sta già accadendo, e come Renzi sembra aver capito benissimo, l’irrilevanza.

I tempi in cui i governi non usavano emanare nemmeno un decreto sul prezzo del pesce senza consultare prima i sindacati sono finiti. E quindi anche il tempo dei sindacati ‘quasi partiti’. Adesso, bisogna ritornare sul territorio e cercare, dove si può, di strappare condizioni di vita e salari migliori. Altrimenti la gente farà per conto proprio, città per città, fabbrica per fabbrica.

I lavoratori meritano molto di più

I lavoratori meritano molto di più

Gaetano Pedullà – La Notizia

Ora o mai più. Per il sindacato italiano oggi c’è la più grande occasione per lasciarsi alle spalle una cultura ottocentesca nella tutela del lavoro. Ieri a sorpresa Raffaele Bonanni ha annunciato l’addio alla segreteria della Cisl. La guidava dal 2006. Il 21 novembre prossimo, dopo 14 anni, toglierà il disturbo anche il leader della Uil, Luigi Angeletti. Una penosa storia di fondi sottratti al sindacato ha fatto fuori invece l’ex numero uno dell’Ugl, Giovanni Centrella. Resta al suo posto, al comando della Cgil, solo Susanna Camusso. Rieletta segretario generale con una maggioranza bulgara, appena qualche mese fa, qui non è la sua poltrona che traballa ma l’intera organizzazione, riuscita a perdersi per strada persino il suo storico partito di riferimento.

Questo giornale dal primo giorno – quando dedicammo un’inchiesta agli affari della Cisl Spa – denuncia l’arretratezza del sindacato italiano. La Camusso per questo ci ha querelato e se i giudici le daranno ragione dovremo chiudere e mandare a casa tutti i giornalisti. Altri posti di lavoro inceneriti da chi dovrebbe sostenere l’occupazione e invece ha una responsabilità storica del disastro in cui viviamo.

Tutelare il lavoro è però un compito nobile e necessario. Soprattutto in un mercato che sta cambiando profondamente. Di questo, un sindacato moderno deve prima di tutto rendersi conto. Continuare a difendere i privilegi di chi un posto fisso ce l’ha, a costo di chiudere la strada ai tanti che potrebbero trovare un lavoro solo a patto di accettare nuove forme di impiego – precario, a progetto, interinale, autoimprenditoriale, ecc. – significa non capire che il passato è passato e il futuro non può più aspettare. Il sindacato italiano saprà diventare più moderno? Le premesse non sono buone. Ma la speranza è l’ultima a morire.

L’anagrafe che divide

L’anagrafe che divide

Michele Ainis – Corriere della Sera

L’Italia è unita, gli italiani no. Si dividono per tifoserie politiche, per sigle sindacali, per corporazioni. Li separa la geografia economica, dato che il Pil del Mezzogiorno vale la metà rispetto al Settentrione. Sui temi etici restano in campo guelfi e ghibellini. Ma adesso s’alza un altro muro, il più invalicabile: l’anagrafe. Quella delle idee, con la crociata indetta dal premier contro ogni concezione ereditata dal passato. Dimenticando la massima di Giordano Bruno: «Non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova». E quella, ahimè, delle persone. Distinte per i capelli bianchi, anche nel loro patrimonio di diritti.

Da qui la trovata che illumina il Jobs act : via la tutela dell’art. 18, ma solo per i nuovi assunti. Per i vecchi (6 milioni e mezzo di lavoratori) non si può: diritti quesiti, come ha precisato il leader della Uil. Curiosa, questa riforma che taglia in due il popolo della stessa azienda, mezzo di qua, mezzo di là. Riforma parziale, un po’ come una donna parzialmente incinta. Doppiamente curioso, l’appello ai diritti quesiti. A prenderlo sul serio, quando entrò in vigore la Carta repubblicana avremmo dovuto mantenere lo Statuto albertino per tutti i maggiorenni.

E a proposito della Costituzione. Nel 1970 lo Statuto dei lavoratori – di cui l’art. 18 rappresenta un caposaldo – fu salutato come il figlio legittimo dei principi costituzionali. Così, d’altronde, viene ancora definito nella letteratura giuridica corrente. Poi, certo, non ha senso discutere di garanzie quando manca il garantito: il diritto al lavoro esiste soltanto se c’è il lavoro. E a sua volta ogni Costituzione può essere applicata in varia guisa. Anche riconoscendo ai lavoratori licenziati un indennizzo, anziché il reintegro nel posto di lavoro. Ciò che tuttavia non si può fare è d’applicare contemporaneamente la stessa norma costituzionale in due direzioni opposte. Lo vieta la logica, prima ancora del diritto. Tanto più se il criterio distintivo deriva dall’età, di cui nessuno ha colpe, però neppure meriti.

Ma il Jobs act non è che l’ultimo episodio della serie. Le discriminazioni anagrafiche condiscono sempre più frequentemente la pietanza delle nostre leggi, ora a danno dei più giovani, ora degli anziani. Così, nel giugno 2013 il governo Letta decise incentivi per l’assunzione degli under 30. E i cinquantenni che perdono il lavoro? Perdono anche il voto, o quantomeno lo dimezzano, secondo la proposta di legge depositata da Tremonti nel 2012: voto doppio per chi è sotto i quarant’anni. Invece nella primavera scorsa la ministra Madia ha tirato fuori la staffetta generazionale nella Pubblica amministrazione: tre dirigenti in pensione anticipata, un giovanotto assunto. Dagli esodati agli staffettati. Tanto peggio per i vegliardi, cui si rivolgono però in altre circostanze i favori della legge, dalle promozioni automatiche all’assegnazione degli alloggi popolari, dalle pensioni sociali al ruolo di coordinatore nell’ufficio del giudice di pace (spetta al «più anziano di età»: legge n. 374 del 1991).

No, non è con queste medicine che possiamo curare i nostri mali. Occorrerebbe semmai una medicina contro ogni discriminazione basata sul certificato di nascita. Gli americani ne sono provvisti dal 1967 (con l’Employment act), gli inglesi dal 2006. Mentre dal 2000 una direttiva europea vieta le discriminazioni anagrafiche nel mercato del lavoro. In attesa d’adeguarci, non resta che il soccorso d’una (vecchia) massima: i diritti sono di tutti o di nessuno, perché in caso contrario diventano altrettanti privilegi.