lavoratori

Il semaforo ideologico

Il semaforo ideologico

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Le riforme vanno fatte osservando i problemi concreti della società e non i semafori delle ideologie. E in politica chi strilla di più non merita necessariamente di ricevere maggiore attenzione. Queste celebri affermazioni di Tony Blair forniscono un’utile bussola per valutare ciò che sta accadendo in Italia sul fronte del lavoro. Giovedì scorso il Senato ha approvato in Commissione il disegno di legge delega noto come Jobs act . Gli obiettivi sono molteplici e ambiziosi: estensione e rafforzamento degli ammortizzatori sociali e delle politiche per l’impiego, misure per l’occupazione femminile e la conciliazione vita-lavoro, semplificazioni di norme e adempimenti, anche al fine di attirare investimenti esteri. Il testo contiene inoltre una delega al governo per introdurre un nuovo «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti» che superi l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Su quest’ultimo punto si è scatenata l’opposizione dei sindacati, Cgil in testa, e di una parte del Pd. In base a un riflesso quasi automatico, il semaforo ideologico della vecchia sinistra ha subito acceso la luce rossa. L’idea di ricalibrare le tutele per i nuovi assunti (senza toccare, si badi bene, i contratti in essere) è stata bollata come un inaccettabile attacco ai diritti fondamentali e alla stessa dignità dei lavoratori. I sistemi europei che non prevedono il reintegro in caso di licenziamento sono forse delle giungle? Tutti hanno ovviamente il diritto di esprimere (anche «strillando») la propria opinione. Per chi è interessato alle buone riforme, la domanda da porre è però molto semplice: il Jobs act affronta in modo serio i problemi concreti dell’economia e della società italiana di oggi? E fornisce risposte promettenti?

Com’è tristemente noto, il dramma del nostro mercato del lavoro riguarda soprattutto i giovani: due milioni e 300 mila senza occupazione e altrettanti «precari». Su cento fortunati che trovano un lavoro subordinato, meno di 50 hanno un contratto a tempo indeterminato: in Francia e Germania sono più di 60, nei Paesi nordici e in Gran Bretagna (dove ha governato la Thatcher) sono più di 70. La stragrande maggioranza del mondo giovanile non conosce né l’articolo 18 né la cassa integrazione. I contratti atipici hanno scarsissime tutele in caso di mancato rinnovo e conseguente disoccupazione. Meno di un quarto di chi ha un lavoro dipendente riceve formazione professionale: in Germania e in Gran Bretagna almeno la metà, in Danimarca il 75%. Non v’è da stupirsi se i sondaggi internazionali rivelano che i nostri giovani (soprattutto le donne) sono i più insicuri, i più scoraggiati e pessimisti rispetto alle chance di carriera, i più angosciati dal timore di perdere il posto e non trovarne un altro.

È a questi problemi concreti che guarda il Jobs act , con un duplice intento. Da un lato, fare in modo che le imprese tornino ad assumere con contratti «buoni», a tempo indeterminato, investendo sulla formazione dei giovani. Dall’altro lato, assicurare a tutti un pacchetto di sostegni in denaro e in servizi per far fronte agli eventuali periodi di disoccupazione. La sequenza virtuosa su cui scommette il Jobs act è questa: con un sistema di regole più semplici e flessibili, le imprese assumeranno di più, e con contratti molto più stabili di quelli attuali. Le tutele saranno estese e rafforzate, ma in forme compatibili con la flessibilità, anche in uscita: non riguarderanno più il singolo posto di lavoro, bensì la transizione da un posto ad un altro, come avviene in tutti i Paesi Ue. Se la sequenza si attiva, la riforma contribuirà a risolvere il problema economico-sociale più drammatico che il nostro Paese si trova ad affrontare dopo la ricostruzione post-bellica e la crisi degli anni Settanta.

Il Jobs act che andrà preso in votazione al Senato è lungi dall’essere perfetto. Per superare l’articolo 18 basta una norma, mentre per allargare le tutele occorre un lavoro difficile e paziente di progettazione istituzionale, finanziaria, organizzativa. Una sinistra pragmatica e responsabile incalzerebbe il governo su questo fronte, invece di arroccarsi a difesa dello status quo. D’altro canto, un mondo imprenditoriale che ha molto da guadagnare dalla riforma potrebbe ben dare qualche segnale positivo: ad esempio confermando pubblicamente che la scommessa del Jobs act non è un azzardo, che le imprese sono pronte a fare la loro parte. Ci aspettano settimane di turbolenza politica e sociale. Il governo ascolti tutti, anche chi strilla, e non esasperi lo scontro. Ma vada avanti per la sua strada: il semaforo che conta è quello delle buone soluzioni ai problemi reali degli italiani, non quello delle vecchie sirene ideologiche.

Il nuovo che spaventa un sindacato vecchio e la sinistra immatura

Il nuovo che spaventa un sindacato vecchio e la sinistra immatura

Pietro Reichlin – Il Mattino

L’opposizione della sinistra del Pd al contratto a tutele crescenti è la prova definitiva che sul lavoro si gioca una battaglia politica che ha poco a che fare con l’obiettivo di portare il nostro paese fuori dal ristagno economico. Tutti sanno che l’articolo 18 non crea e non conserva neanche un posto di lavoro, soprattutto per i giovani e nelle aree del paese dove esiste una vasta economia sommersa. Poche imprese sono oggi disposte a offrire un contratto a tempo indeterminato a chi entra sul mercato del lavoro. Pesano le incertezze legate all’inserimento e alle capacità dei nuovi assunti, la difficoltà di dimostrare la giusta causa nel caso di risoluzione del contratto per motivi economici e, soprattutto, i costi fiscali e contributivi che gravano sui contratti a tempo indeterminato. La conseguenza è che i giovani si devono accontentare di contratti a termine o a progetto o sono costretti ad aprire una partita IVA sopportando costi esorbitanti. Il contratto a tutele crescenti potrebbe contribuire a facilitare un’assunzione regolare, eliminare il percorso a ostacoli del rinnovo sequenziale di contratti a termine, portare il rapporto tra giovani e datori di lavoro su un sentiero di stabilità e reciproca fiducia, rendere più conveniente l’addestramento professionale. La via giudiziaria alla difesa del posto di lavoro, viceversa, non fa che incrementare il sommerso e scoraggiare la creazione di nuove imprese, soprattutto dove è già difficile essere competitivi, come nel Mezzogiorno. Tutto ciò determina nuove iniquità e una spaccatura crescente tra le diverse aree del paese.

Naturalmente, ciò non significa che il contratto a tutele crescenti sia una panacea. Basterà ad eliminare l’abuso dei contratti atipici? Il recente decreto Poletti che semplifica l’uso dei contratti a termine è coerente con l’ipotesi di fare del contratto a tutele crescenti la strada maestra per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro? Non è detto che tutto funzionerebbe come promesso dagli estensori del progetto. Non bisogna dimenticare che la chiave di volta del successo della Germania sul versante della ripresa economica e dell’occupazione è stata principalmente il decentramento della contrattazione e la flessibilità invece, di agitare lo spettro dell’articolo 18. Un atteggiamento speculare a quello del Centrodestra, che vede, invece, nell’articolo 18, un’occasione per aprire nuove ferite a sinistra. Ma quale sarebbe la lesione dei diritti che il contratto a tutele crescenti verrebbe a creare? Si crede veramente che la preoccupazione di non essere adeguatamente protetti da un giudice in caso di licenziamento per ragioni disciplinari immotivate, o per discriminazione sindacale, sia in cima ai pensieri di un giovane interessato a un rapporto di lavoro stabile e duraturo? È forse meglio rinunciare a ogni cambiamento e rimanere con un vero precariato senza neanche un indennizzo monetario per chi perde il lavoro?

Si può comprendere che il sindacato veda nel contratto a tutele crescenti il pericolo di indebolire la propria forza contrattuale. Si tratta di una reazione poco lungimirante ma, tuttavia, tipica di un’organizzazione che rappresenta principalmente gli interessi di lavoratori stabilizzati. Viceversa, il fatto che la sinistra del Pd sposi in pieno la visione del sindacato su tale questione è frutto di una mancanza di maturità politica. Chi si oppone a Renzi all’interno del Pd ha scelto di farlo sulla base di una divisione ideologica e astratta tra destra e sinistra. Ma una sinistra lontana dai problemi veri del paese rischia di apparire conservatrice e minoritaria di fronte ad un’opinione pubblica sempre più consapevole che il lavoro non si crea con avvocati e carta bollata e che le riforme strutturali sono ormai ineludibili.

L’articolo 18 è un simbolo da abrogare: non crea occupazione

L’articolo 18 è un simbolo da abrogare: non crea occupazione

Fabrizio Rondolino – Europa

L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori va abrogato non perché la sua eliminazione basterà da sola a riformare un mercato del lavoro nemico dei lavoratori, e neppure perché creerà magicamente nuova occupazione (l’occupazione la creano le imprese, non i governi o le leggi). L’articolo 18 va abrogato perché è un simbolo: delle diseguaglianze del mondo del lavoro e dello strapotere di una burocrazia sindacale interessata all’autoconservazione. È per questo che Matteo Renzi non intende recedere e, se necessario, farà un decreto, ed è per questo che Susanna Camusso estrae aglio e crocifisso e lo accusa nientemeno che di avere in mente la Thatcher (come se fosse un insulto).

Nella prospettiva dei mille giorni – e non c’è motivo di dubitare che il presidente del consiglio preferisca la certezza del governo all’incertezza di una nuova campagna elettorale – Renzi ha bisogno, preliminarmente, di sottrarre il potere di veto alle corporazioni più forti. Per fare le riforme radicali che le classi dirigenti passate hanno sempre promesso e mai realizzato, non c’è bisogno soltanto di una maggioranza parlamentare coesa e di una pubblica amministrazione efficiente: è altresì necessario che i gruppi di potere non legittimati dal voto rientrino nell’alveo loro proprio. Che è quello della rappresentanza legittima di interessi particolari, non della cogestione feudale della cosa pubblica. La magistratura è uno di questi poteri. Il sindacato un altro. I dipendenti a tempo indeterminato che godono della protezione dell’articolo 18 (perché le loro imprese hanno più di 15 impiegati) sono circa 6,5 milioni. I lavoratori in Italia sono 22,5 milioni, cui se ne aggiungono almeno altri tre in nero. Dunque l’articolo 18 protegge soltanto un quarto dei lavoratori, e nessun disoccupato: non è un diritto, ma un privilegio.

Se la Cgil sceglie la strada del muro contro muro, non è perché abbia a cuore gli interessi dei lavoratori – i quali da tempo, con l’eccezione dei metalmeccanici e del pubblico impiego, non sono più rappresentati da nessuno – né tantomeno perché voglia creare nuova occupazione. L’interesse dominante della Cgil – l’unico che ne definisca oggi la ragione sociale – è conservare un potere di veto, di condizionamento e di ricatto a spese dei lavoratori. La visione del mondo della Cgil prevede un padrone cattivo, un dipendente sempre e comunque intoccabile e uno Stato grande elemosiniere: non c’è merito, non c’è qualità, non c’è libertà d’impresa, non c’è valore del lavoro. Ci sono invece molte tasse, burocrazie immense, sprechi e clientelismi, consociazione e stagnazione.

Questa visione del mondo è oggi intollerabile: perché è sbagliata, perché è profondamente ingiusta, e perché sono finiti tanto i soldi quanto i posti di lavoro. La pretesa della Cgil (e della minoranza del Pd, che ancora una volta cede al richiamo della foresta) di difendere e conservare la stratificazione castale e l’ingiustizia stridente del sistema che ha soffocato il Paese, è un ostacolo oggettivo alla ripresa economica. E come tale va rimosso. La Cgil forse non se ne è accorta, ma l’Italia si sta giocando l’osso del collo: e non può essere una burocrazia sindacale a bloccare il paese.

Proprio perché si combatte intorno ad un simbolo, la battaglia contro l’articolo 18 è politicamente cruciale. Perché ridimensiona lo strapotere sindacale, chiude una volta per tutte la partita truccata della concertazione, e rovescia le priorità: non più gli apparati e il posto fisso, ma i lavoratori e il lavoro. È un peccato che in questo scontro la Cgil scelga la trincea della conservazione e del privilegio: perderà la battaglia e anche la guerra, e a rifare il sindacato dovrà pensarci qualcun altro.

Quell’articolo 18 è il simbolo di un’anomalia

Quell’articolo 18 è il simbolo di un’anomalia

Bruno Vespa – Il Mattino

Matteo Renzi ha un obiettivo chiave. Dire ai rappresentanti europei riuniti l’8 ottobre a Milano per il vertice sul lavoro che l’Italia sta facendo finalmente i compiti a casa. Per questo vuole che il Senato approvi la delega sulla riforma dello Statuto dei lavoratori. Approvare una legge delega non significa tuttavia aver tolto le garanzie dell’articolo 18 della vecchia legge per i nuovi assunti e per un periodo limitato. Dice infatti l’emendamento del governo a un vecchio testo ancora più generico: “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio”. Che significa? Tutto e niente. È solo una cornice, com’è appunto una legge delega. I contenuti dovranno esservi inseriti dal governo con un provvedimento autonomo che non dovrà essere approvato dal Parlamento, ma solo inviato per un parere non vincolante.

Il cuore dell’articolo 18 è il reintegro nelle stesse funzioni del lavoratore licenziato senza giusta causa. La volontà del governo è di sostituire il reintegro con un indennizzo economico proporzionato agli anni di lavoro, garantendo al lavoratore un’assistenza e una possibilità di reimpiego assai più efficaci della vecchia cassa integrazione. Ma questa per ora è soltanto una intenzione. Le polemiche degli ultimi due giorni stanno montando per evitare che l’intenzione venga attuata. Maurizio Sacconi, presidente della commissione Lavoro del Senato per il NCD e già ministro del Welfare di Berlusconi, sostiene che l’abolizione dell’articolo 18 per i nuovi assunti e per tre anni è cosa fatta. Cesare Damiano, già ministro del Welfare di Prodi, e leader dell’ala CGIL del Pd dice che non se ne parla. Giuliano Poletti, ministro del Welfare di Renzi, dice che c’è tempo per parlarne. E ieri Deborah Serracchiani, vice segretario del Pd, ha dichiarato: “Nel testo attuale, il contratto a tutele crescenti non contiene la previsione della reintegra, ma questo non vuol dire che non possa contenerla nelle prossime versioni”. Come dire: non preoccupatevi, abbiamo scherzato.

Dinanzi a questo scenario, Matteo Renzi non può pretendere che i suoi colleghi europei si fidino delle promesse italiane. Siamo convinti che lui voglia portare a compimento l’opera in modo davvero innovativo. È vero che il reintegro forzoso nel posto di lavoro riguarda ogni anno soltanto qualche migliaio di lavoratori. Ma è un simbolo: e la politica, nel bene o nel male, vive anche di simboli. Il reintegro è sostituito in tutti i principali paesi europei da una compensazione economica. E nessuno dei tecnici che hanno scritto le leggi è stato ammazzato come Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi, né vive scortato da anni come Pietro Ichino e Maurizio Sacconi, che di Biagi fu la sponda politica.

Un’anomalia italiana dovrà pur finire un giorno se vogliamo passare dall’inferno al purgatorio. Renzi ha detto che se entro la fine di ottobre la legge delega non sarà approvata, il governo procederà con un decreto legge. Ma il decreto è peggio della de lega, perché dovrà essere convertito dalle Camere, mentre per 1 attuazione della delega è sufficiente un atto del governo. È possibile perciò che si arrivi a un nuovo voto di fiducia, perché Renzi non può permettersi di far passare la legge con il voto decisivo di Forza Italia. Ma poi che cosa si scrive dentro la delega? La confusione è grande sotto il cielo. E noi abbiamo un disperato bisogno di chiarezza. Renzi pure. Anche a costo di affrontare uno sciopero generale.

L’unilateralità sindacale, fucina di infiniti privilegi

L’unilateralità sindacale, fucina di infiniti privilegi

Sergio Soave – Italia Oggi

Ancora una volta la questione del diritto del lavoro si presenta come quella più ostica da governare per la sinistra italiana. L’onda lunga del ’68 italiano ha prodotto una saldatura tra i settori radicali del sindacalismo (non necessariamente sempre della Cgil, se ci si ricorda dell’egualitarismo originario di Pierre Carniti) e i giovani magistrati del lavoro, che hanno applicato per decenni in modo unilaterale e creativo le norme dello Statuto in base al principio, proclamato apertamente, che il dipendente ha sempre ragione e se la legge non lo dice bisogna interpretarla in modo da farglielo dire.

Naturalmente alla base c’era l’idea di un risarcimento per decenni di discriminazione antisindacale e anticomunista nelle fabbriche, ma la risposta a una esigenza giusta si è trasformata in una nuova gabbia che ha portato a una stratificazione straordinaria del lavoro, minando alla base lo stesso principio di solidarietà sociale che è alla base del sindacalismo confederale.

La difesa dello status quo del mercato del lavoro è passata per diverse fasi, compresa quella degli attentati terroristici contro le agenzie di collocamento non più pubbliche (dopo che una vertenza europea contro il monopolio statale del collocamento era stata vinta da Pietro Ichino, che si era fatto le ossa nell’ufficio legale della Cgil milanese). I tentativi successivi, quello di Massimo D’Antona sostenuto da Antonio Bassolino ministro del lavoro di Massimo D’Alema e di Marco Biagi, sostenuto da Roberto Maroni nel governo di Silvio Berlusconi, come è noto, provocarono tragici crimini terroristici. Di tutt’altra natura, naturalmente, la risposta di massa della Cgil di Sergio Cofferati, pacifica e democratica ma connotata dall’idea di fondo del riformismo novecentesco, secondo cui c’è una freccia della storia che segna il progresso nelle condizioni di lavoro, il che implica che le differenziazioni rappresentano solo le conquiste già ottenute da alcuni destinate a essere estese a tutti. La realtà ha dimostrato che le cose non stanno così, che i vantaggi di alcuni vengono pagati da altri e così diventano privilegi, ma è proprio su questo giudizio di fondo che la sinistra italiana non riesce a concordare, come quella francese sull’inutilità della riduzione dell’orario a 35 ore, il che finisce col costruire steccati ideologici che rendono o inefficace l’azione dei governi o irrilevante la protesta dei sindacati o riescono nel capolavoro di mettere insieme l’insuccesso di ambedue le parti in causa.

L’articolo 18 non vale per l’80% dei nuovi contratti

L’articolo 18 non vale per l’80% dei nuovi contratti

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

«Attenzione, l’articolo 18 riguarda 9 milioni di rapporti di lavoro dipendente su 18 milioni, quindi è una protezione che riguarda meno della metà dei dipendenti italiani» ha affermato ieri mattina ai microfoni di Radio24 il giuslavorista e senatore di Scelta Civica, Pietro Ichino. Un dato incontrovertibile. Ma che fotografa un “mondo immobile”, per usare un’espressione cara a Robert Lucas, teorico assertore della capacità della politica economica di mutare quadri apparentemente immutabili.

Se dai dati di stock volgiamo lo sguardo ai flussi, quelli che fotografano mese dopo mese con quali contratti si entra nel mercato del lavoro, scopriamo che i rapporti sono molto diversi. E che anche se le cose non cambiassero a lungo andare quei 9 milioni sono destinati a ridursi molto velocemente. Vediamo i dati relativi alle comunicazioni obbligatorie del secondo trimestre dell’anno. Dati buoni nonostante la crisi perché, come ha segnalato l’Isfol a fine agosto, segnalano un aumento delle assunzioni (+3,1% su base annua con circa 2.651.000 avviamenti), centrando il il miglior dato dal secondo trimestre del 2012. Ebbene quelle nuove assunzioni sono avvenute per oltre l’80% con contratti flessibili, per i quali non si applica l’articolo 18. Le assunzioni con contratto a tempo indeterminato sfiorano appena il 15%, gli apprendistati il 3,1%, tutto il resto è flessibile. Per capire il decrescente peso relativo dell’articolo 18 bisogna poi considerare che solo una parte di quel 15% di assunzioni standard è avvenuta in un’azienda con più di 15 dipendenti, unico ambito in cui oggi vale la tutela reale contro i licenziamenti senza giusta causa. Insomma se oggi l’articolo 18 vale per meno la metà dei dipendenti la sua prospettiva sembra ancor peggiore, a dimostrazione di come il dibattito politico nazionale sia sempre inversamente proporzionale agli effetti pratici che una norma ha sulla vita delle persone.

Detto che il superamento dell’articolo 18 riguarda dunque una minoranza di lavoratori c’è ora da chiedersi se servirà a migliorare la qualità del lavoro, ovvero se il Governo vincerà la scommessa che si è dato con la “strategia Poletti”. Come hanno ben riassunto in un loro scritto su lavoce.info gli analisti Isfol Emiliano Mandrone, Manuel Marocco e Debora Radicchia, la strategia prevede «una prima liberalizzazione del rapporto di lavoro a termine (più quantità) e poi una complessiva semplificazione, con l’introduzione del contratto unico a tutele progressive (più qualità), sperando che la prima tamponi l’emergenza e la seconda sia sostenuta dalla ripresa economica». Prima è arrivato il decreto che ha cancellato le causali e ora dobbiamo aspettare il decreto legislativo che attuerà l’articolo 4 del Jobs Act.

Per sapere se funzionerà bisognerà aspettare e leggere i futuri andamenti del mercato del lavoro, le comunicazioni obbligatorie e, soprattutto, la lettura longitudinale del panel Isfol-Plus che seguirà. I tecnici dicono che già nel primo trimestre di applicazione delle nuove norme si potranno intravvedere segnali concreti, anche se non ancora molto significativi. Dopo 12 mesi si capirà invece meglio se la strategia ha funzionato. In questo caso non vedremo solo più assunzioni con contratto a tempo indeterminato, incoraggiate dal superamento dell’articolo 18. Vedremo anche un rafforzamento del “ruolo di ponte” svolto dai contratti non standard, quando essi assicurano poi una trasformazione a contratti standard. Quel “ponte”, come dimostrano gli analisti Isfol, è stato colpito dalla crisi: se tra il 2005 e il 2006 il 37,5% dei contratti flessibili si trasformava in contratti a tempo indeterminato, tra il 2010 e il 2011 quella percentuale è scesa di 5 punti, al 32,8%.

Il contesto sarà più difficile, perché il mercato del lavoro è diventato in generale più freddo sulle nuove assunzioni, avendo cumulato un calo degli occupati del 4,2% tra il 2008 e il 2013, l’equivalente di un milione di posti in meno. Ma se la “strategia Poletti” riuscirà a centrare l’obiettivo con la «certezza delle non reintegra in caso di licenziamento illegittimo», allora più contratti flessibili potranno essere trasformati in standard e il “ponte” tra quantità e qualità verrà ricostruito.

Una tutela (e un sindacato) che non convince più

Una tutela (e un sindacato) che non convince più

Paolo Natale – Europa

I più attempati tra noi ricorderanno certamente il vecchio slogan degli anni settanta: Lama non l’ama nessuno. Quando il segretario della Cgil si presentava ai comizi, quando faceva capolino nelle università occupate, quando andava nelle fabbriche per calmare gli operai più bellicosi, si sentiva apostrofare così dai gruppi di contestatori più creativi. Allora il sindacato pareva essere, peraltro, una delle poche realtà cui fare riferimento per cambiare il mondo, per cambiare la politica, per riannodare le lotte di fabbrica con il territorio.

Oggi, si sa, non è più così. Ed il sindacato, nelle sue diverse sigle oppure nella sua totalità, non sembra essere apprezzato che da pochi. Se i partiti godono di una fiducia, da parte degli italiani, poco superiore al 10 per cento, le confederazioni sindacali non stanno molto meglio, con giudizi positivi che si fermano intorno a 20-21 punti percentuali. Se gli iscritti, tra lavoratori e pensionati, sono circa 15-16 milioni, pari al 30 per cento dei maggiorenni, questo significa che, paradossalmente, molte delle valutazioni negative arrivano addirittura tra chi aderisce ad uno dei sindacati. E non sono soltanto gli elettori di centro, di destra o non schierati (come molti dei pentastellati) a valutarli male, ma anche quelli che si definiscono di centrosinistra o di sinistra: chi dichiara che voterà Rifondazione o Sel fornisce valutazioni sufficienti ai sindacati soltanto per il 30 per cento, chi voterà Pd per il 25 per cento. Mentre tra gli astensionisti la fiducia è simile a quella per i partiti, un ridotto 5-6 per cento. Una specie di disastro li accomuna nella percezione diffusa della popolazione.

Il giudizio di fondo è evidente: i sindacati si occupano solamente dei propri iscritti, di chi il lavoro ce l’ha ed è occupato nelle aziende medio-grandi. Per tutti gli altri, per chi non ha lavoro, per chi è precario, per chi è in nero e cerca qualcosa di meno provvisorio, le loro azioni paiono inesistenti. Se non contro-producenti. Inutile dire cosa ne pensa la popolazione italiana della strenua difesa dell’articolo 18. Non che piaccia venir licenziati senza giusta causa, è ovvio, ma la percezione generale è che le disposizioni contenute in quell’articolo siano qualcosa di talmente antiquato che oggi non se ne vedono più le ragioni, che allora apparivano al contrario fondamentali per la salvaguardia del proprio impiego.

La stragrande maggioranza dei cittadini è d’accordo che venga dunque riformulato, alla luce delle mutate condizioni di lavoro, dell’attuale stato dell’occupazione, della mobilità reale che sempre più spesso appartiene alla storia personale della vita lavorativa. Quando c’è. Certo non è vero che la colpa della crisi occupazionale è dell’articolo 18, ma è vero che il dibattito che ruota intorno a quell’articolo appare oggi svuotato di senso, tra gli italiani. E anche tra gli stessi elettori del Pd, che ne vedrebbero volentieri un superamento alla luce delle mutate condizioni di lavoro. Una quota vicina al 70 per cento dei votanti Pd vorrebbe una nuova legge sul lavoro, che dopo aver fatto il punto sullo stato attuale, cerchi di diventare un nuovo punto di riferimento per gli anni futuri. Tra la flessibilità e la sicurezza, al passo con i tempi così diversi dagli anni settanta.

7 a 0 per Renzi

7 a 0 per Renzi

Enrico Cisnetto – Il Foglio

«Uno scalpo per i falchi della Ue». Susanna Camusso credeva di colpire al cuore Renzi sottolineando che l’abolizione dell’articolo 18 rappresenta un prezzo pagato dal governo alle aspettative di Ue, Bce e Germania, ma in realtà gli ha fatto un grande favore. Sì, l’emendamento all’articolo 4 della legge delega sul mercato del lavoro, che di fatto supera la disciplina dei licenziamenti senza giusta causa – per cui le nuove assunzioni a tempo indeterminato verranno fatte con contratti a tutele crescenti in base all’anzianità di servizio – e più in generale il “jobs act” che consente al governo di scrivere un testo unico semplificato che “pensiona” il vecchio (e superato) Statuto dei lavoratori, sono riforme (tardive) che servono al paese ma, soprattutto, rappresentano agli occhi dell’Europa quella certificazione di credibilità politica che serve al premier per evitare che gli venga chiesta entro fine anno una manovra correttiva dei conti.

Non che la riforma del lavoro comporti riduzioni del deficit, ma proprio perché il governo riuscirà, forse, a rimanere sotto il 3 per cento (diciamo 2,99 per cento per capirci) ma certo non entro quel 2.6 per cento per il quale era stato assunto un impegno formale certificato nel Def – sosterremo la tesi che la recessione ci esenta da quella riduzione – ecco che Renzi e Padoan cercheranno di barattare l’una cosa con l’altra. Della serie: vedete che stiamo facendo sul serio realizzando una riforma del lavoro di cui si parla inutilmente da 15 anni e che è carica di significati politici. Ora, questa è la migliore delle garanzie che proseguiremo con il risanamento finanziario e le riforme, perciò non penalizzateci proprio adesso che stiamo facendo questo sforzo. Ecco perché gli strepiti dei sindacati – a proposito, dispiace vedere che nel coro ci siano anche quelli moderati – fanno il gioco del governo, e tanto più i decibel sono alti, tanto maggiore è il valore politico della riforma agli occhi di Bruxelles, Berlino e Francoforte.

Non solo. Siccome nel corteo di chi si straccia le vesti per il tabù infranto dell’articolo 18 ci sono i diversi gruppi interni al Pd – più o meno gli stessi che in questi giorni stanno impedendo la fumata bianca per la Corte costituzionale – anche a costoro non dovrebbe essere difficile capire che il loro ostruzionismo è un grande regalo a Renzi. Perché se è vero, come molti dicono e come è lecito e sensato pensare, che il premier intende andare al più presto alle elezioni anticipate (marzo), ecco che la riforma bloccata dai rigurgiti ideologici della sinistra old style rappresenta la più ghiotta delle occasioni per far saltare il banco e andare alle urne, per di più potendo dire agli italiani, e in particolare a quelli moderati che hanno assicurato a Renzi il balzo al 41 per cento alle scorse europee, che la sua testa è stata fatta saltare dai comunisti e dai rottamati contrari ai suoi progetti di modernizzazione del paese. Viceversa, se la riforma passa e Renzi prosegue nel suo percorso di “mille giorni” – magari anche perché Napolitano gli preclude la strada delle elezioni anticipate, eventualmente dimettendosi a inizio anno (dopo la fine del semestre europeo a presidenza italiana) – ecco che ugualmente questo governo segnerebbe un punto pesante a suo favore, sia per aver dimostrato in Europa che è credibile sia perché metterebbe a tacere, almeno in parte, coloro che in questi mesi si sono lamentati dei tanti annunci e delle poche decisioni prese e portate fino in fondo.

Insomma, per come si è messa la partita, Renzi, piaccia o non piaccia, vince 7-0 come l’Inter con il Sassuolo. Con un doppio warning per lui, però. Entrambi in nome degli interessi generali (cioè i nostri). Il primo è: occhio alle elezioni anticipate. Anche ammesso e non concesso) che il Quirinale dia il via libera, e pur partendo dal presupposto, fondato, che Renzi le vincerebbe alla grande, esse rappresenterebbero un ulteriore rinvio di quella svolta in economia di cui l’Italia ha assoluto bisogno e che, alla fine, sarebbe la vera garanzia di successo per l’ambizione politica di Renzi. Il secondo “avviso di pericolo” è: se la riforma del lavoro passa e il governo prosegue – cioè se elezioni anticipate non ci sono – occhio che non basta abolire l’articolo 18 per far ripartire l’economia. Intanto perché la situazione è così deteriorata che il rilancio non puo che passare da un concorso di circostanze, anche abbastanza ampio. Per il mercato del lavoro, per esempio, occorrerebbe superare anche lo strumento della cassa integrazione – che salva posti di lavoro nella maggior parte dei casi non piu esistenti – e arrivare a una forma di salario di sostegno per i disoccupati che consenta una ristrutturazione del sistema produttivo più profonda e più virtuosa di quella prodotta dalla crisi. E poi perché, nello specifico, l’abolizione dei vincoli contrattuali in uscita ha più un valore simbolico che pratico. Infatti, come ha dimostrato uno studio della Cgia di Mestre, l’articolo 18 interessa solo il 2,4 per cento delle aziende (anche se il 57,6 per cento dei lavoratori dipendenti del settore privato), perche solo 105.500 di esse, su circa 4.426.000 in totale, hanno più di 15 addetti.

Prima o poi ci arrivano

Prima o poi ci arrivano

Raffaele Marmo – La Nazione

«Prima o poi ci arrivano, magari ma ci arrivano. Il problema è che non si guardano mai indietro e non contano mai i danni fatti nel frattempo». La chiosa è di un vecchio sindacalista che ne ha viste tante, quando parla della Cgil e dell’attuale sinistra Pd. È stato così proprio con lo Statuto dei lavoratori, non votato dall’allora Pci e mal visto dalla stessa Cgil e oggi difeso come fosse il frutto migliore della loro storica azione. Ma è stato cosi anche con il decreto di San Valentino sul taglio della scala mobile, contrastato sempre da Pci e Cgil-tendenza Botteghe Oscure fino a giungere al referendum dell’85 (clamorosamente perso, per inciso): salvo poi sostenere che la politica dei redditi, con annessa concertazione, aveva salvato l’Italia dalla bancarotta. Manca ancora un po’ e analoga sorte toccherà alla Legge Biagi, quando magari verrà messa pragmaticamente in discussione perché superata o superabile.

Ma fermiamoci qui. Sarebbe lungo l’elenco degli appuntamenti con la storia rispetto ai quali la sinistra-sinistra politico-sindacale, è arrivata con decenni di ritardo. E, dunque, non poteva che essere così anche nel passaggio cruciale di questi giorni nei quali vengono poste le premesse per il superamento dell’articolo 18. Senonché, a fare oggi la differenza, è che il presunto «attacco» ai diritti dei lavoratori non viene dalla «destra» sostanziale o formale (Craxi, Berlusconi) o dai «padroni», ma da colui che, fino a prova contraria, è il leader del loro partito. Da qui il disorientamento, la complicazione del quadro di riferimento, anche l’incapacità del «che fare» che attanaglia la sinistra di estrazione Ds-Cgil.

È saltato, insomma, il vecchio modello, all’interno del quale era agevole distinguere «buoni» e «cattivi», salvo accorgersi poi, a distanza, che i «cattivi» magari avevano avuto ragione. Questo è sicuramente un merito – il più importante a oggi – di Matteo Renzi: aver fatto saltare il comodo e confortevole schema di gioco che ha permesso alla sinistra poco riformista e tanto massimalista di non dover fare i conti con i propri errori. Non a caso è il primo vero atto blairiano del suo governo, all’insegna di quel passaggio – la rottura con la sinistra interna – che segnò la nascita del New Labour, perché, come avvisò Tony Blair nel 1995, «values don ‘t change, but times do», i valori non cambiano, ma i tempi sì.

Una norma nata per caso che ha resistito 45 anni

Una norma nata per caso che ha resistito 45 anni

Enrico Marro – Corriere della Sera

Comparso quasi per caso 45 anni fa, l’articolo 18 ha resistito a tutti gli attacchi, compresi due tentativi di referendum: nel 2000, promosso dai Radicali per abrogarlo, e nel 2003 da Rifondazione comunista per estenderlo alle piccole imprese (entrambi falliti per mancato quorum dei votanti). Solo nel 2012, con l’Italia sull’orlo del commissariamento, la riforma Fornero ne ha attenuato il grado di protezione. Un tira e molla ultradecennale. Tra destra e sinistra, imprese e sindacati. E pensare che nel testo originale dello Statuto dei lavoratori l’articolo 18 neppure c’era.

La norma che vieta i licenziamenti senza giusta causa o giustificato motivo, non faceva parte del disegno di legge presentato il 24 giugno 1969 dall’allora ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, socialista, già vicesegretario della Cgil di Giuseppe Di Vittorio. Il provvedimento sulle «Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell?attività sindacale nei luoghi di lavoro» fu messo a punto dal giovane e brillante capo dell’ufficio legislativo di Brodolini, il giuslavorista Gino Giugni, di provata fede socialista anche lui. Il governo era guidato dal democristiano Mariano Rumor. In materia di reintegro nel posto di lavoro lo Statuto prevedeva solo l’articolo 10 che, richiamando l’articolo 4 della legge 604 del 1966 che stabiliva la nullità dei licenziamenti discriminatori (per ragioni di credo politico o fede religiosa, o per l’appartenenza al sindacato), aggiungeva «l’obbligo del datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro».

L’estensione del diritto al reintegro ai casi di licenziamento senza giusta causa e giustificato motivo fu invece il frutto dei lavori in Senato e della pressione degli avvenimenti sociali, con l’escalation degli scioperi, spesso spontanei, cioè non controllati dalle centrali sindacali. Tanto che nella seduta di giovedì 11 dicembre 1969, nell’Aula di Palazzo Madama, il sottosegretario al Lavoro, Leandro Rampa, democristiano, dichiarava: «Il governo ha ritenuto di dovere presentare un emendamento sostitutivo dell’importante articolo 10, dopo aver riconsiderato, sulla scorta anche di indicazioni già emerse in commissione, alcune esigenze che ci sembravano essenziali allo scopo di garantire ulteriormente i diritti dei lavoratori nell’eventualità del licenziamento». In realtà il grosso del lavoro era stato fatto nella commissione presieduta da un altro socialista, Gaetano Mancini. Il diritto al reintegro (significa che il licenziamento è nullo dall’inizio) prendeva il posto della precedente disciplina (legge 604) che dava facoltà al datore di lavoro di riassumere il lavoratore (non gli paga però il dovuto per il periodo in cui è stato senza lavoro) o di versargli un’indennità.

La conquista era solo una delle tante e non apparve neppure tra le più importanti ai sindacati e ai lavoratori, che con lo Statuto ottenevano «l’effettivo ingresso nelle fabbriche dei diritti fondamentali della persona sanciti dalla Costituzione» (rappresentanze sindacali, diritto di opinione, di assemblea, permessi). Definizione questa che – molti si stupiranno – è di Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro del Pdl quando presentò il progetto di legge di «Statuto dei lavori», il progetto di riforma che si rifaceva ai documenti del giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Brigate rosse nel 2002. Altri due socialisti di formazione, Sacconi e Biagi, convinti però che lo Statuto, e in particolare l’articolo 18, non fosse più utile né alle imprese né ai lavoratori di un’Italia che non era più quella delle grandi fabbriche del Nord, ma un’economia postindustriale e globalizzata.

Lo Statuto dei lavoratori giungeva al termine dell’autunno caldo del 1969, stagione di lotte sindacali, ma fuori dai cancelli delle fabbriche perché fino ad allora ai sindacati era impedito di entrarvi. Il conflitto imperversava. Quello sociale era sano, segno di crescita. Purtroppo era anche il tempo delle trame oscure: il 12 dicembre, il giorno dopo il via libera del Senato allo Statuto, l’Italia viveva una delle pagine più buie con la strage di piazza Fontana. Nei mesi successivi, alla Camera, l’articolo 18 non fu messo in discussione e lo Statuto, la legge 300 del 1970 passò il 14 maggio con 217 voti favorevoli (Dc, Psu, Pri, Pli), 10 contrari e 125 astensioni: Msi, ma anche il Pci e il Psiup. I comunisti ritenevano il testo squilibrato a favore delle imprese. La legge entrò in vigore il 20 maggio. A condurla in porto era stato un nuovo ministro del Lavoro, Carlo Donat Cattin, democristiano della sinistra sociale. Brodolini, già gravemente malato quando presentò il disegno di legge, morì poco dopo. Negli ultimi giorni, preoccupato per la piega che stava prendendo il dibattito, affidò a Giugni questo messaggio: «Fa in modo che lo Statuto dei lavoratori non diventi lo Statuto dei lavativi».