lavoratori

Massimo Blasoni a “Fatti e Misfatti” – TgCom24

Massimo Blasoni a “Fatti e Misfatti” – TgCom24

Il presidente di ImpresaLavoro interviene nella rubrica “Fatti e Misfatti” del TgCom24, condotta dal giornalista Paolo Liguori. Partecipano anche il senatore Pietro Ichino, Francesca Re David (Comitato Centrale Fiom) e il segretario generale della CISL Raffaele Bonanni.

 

Semplificare le regole per muovere il mercato

Semplificare le regole per muovere il mercato

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

I primi dati (ancora parziali) raccolti da Isfol e ministero del Lavoro sugli effetti delle nuove regole sui licenziamenti introdotte dalla riforma del 2012 dimostrano che l’allentamento delle tutele ha mosso un po’ il mercato. Le imprese fortemente motivate a ridurre il personale lo hanno fatto contando sulla possibilità maggiore di evitare la reintegra. Certo, la recessione ha pesato moltissimo. Ma è un fatto che nei mesi successivi al varo della riforma Fornero (ottobre-dicembre 2012) i licenziamenti collettivi e individuali sono aumentati in termini tendenziali del 48,3% e del 18,2 per cento. Un flusso rimasto in crescita per i licenziamenti collettivi fino al termine del 2013 e in lieve calo per quelli individuali fino al primo trimestre di quest’anno. Nello stesso intervallo temporale sono esplose le richieste di conciliazione sui licenziamenti per giustificato motivo oggettivo: dalle 1.885 comunicazioni del primo semestre del 2012 s’è passati a oltre 11mila nel primo semestre del 2013, per poi stabilizzarsi attorno a quota 9mila nei due semestri successivi. Conciliazioni che si sono concluse con un esito positivo in meno della metà dei casi: 3.621 nel 2° semestre del 2012 e 4.310 nel 1° semestre di quest’anno, a fronte di 8.537 comunicazioni.
Che conclusioni si possono trarre da queste parziali indicazioni? La prima è che semplificare serve: procedure più semplici produrrebbero maggiori esiti positivi nelle conciliazioni. La seconda è che l’impatto delle nuove regole sui licenziamenti individuali resta parziale finché non garantisce una piena certezza del diritto. Gli avvocati del lavoro che hanno visto sul campo come sono andate le cose negli ultimi due anni dicono che si è passati dalla quasi certezza della reintegra in casi di licenziamento illegittimo alla possibilità (rischio) di reintegra dopo la riforma Fornero. Il passo ulteriore potrebbe essere la certezza del solo indennizzo in caso di impugnazione. Con le dovute politiche passive e attive per i lavoratori, che devono poter passare da un impiego vecchio a uno nuovo con la stessa semplicità con cui lo fanno oggi i loro colleghi tedeschi o danesi.

I NUMERI

8.537
Le conciliazioni
Le richieste di conciliazione su licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo nel primo semestre dell’anno. Nel primo semestre del 2012 (prima della legge 92) si fermarono a 1.885. Solo 4.310 di quelle richieste del 2014 hanno avuto un esito positivo.

36,3%
I licenziamenti individuali
Dopo la legge 92, nel IV trimestre del 2012 i licenziamenti individuali sono passati al 36,3% del totale delle cessazioni di rapporti di lavoro; erano al 33% nel I trimestre dello stesso anno.

Articolo 18, chi vince e chi no

Articolo 18, chi vince e chi no

Giuliano Cazzola – Il Garantista

Diciamoci la verità sul Jobs Act n. 2. Nell’emendamento presentato dal governo in sostituzione dell’art.4, ci si possono riconoscere tutti: da Maurizio Sacconi a Cesare Damiano, passando per Pietro Ichino. La norma di delega emendata è certamente meno generica e più articolata rispetto ai testi precedenti, anche se, a mio avviso, resta inadeguata rispetto a quanto dispone l’articolo 75 della Costituzione. Ma la politica ha le sue esigenze che finiscono sempre per prevalere. E in questo caso occorreva fare in modo che avessero vinto tutti e perso nessuno. Poi si vedrà nel corso dell’iter legislativo e soprattutto al momento della predisposizione degli schemi dei decreti legislativi che dovranno raccogliere i pareri di Commissioni validamente presieduto da due dei protagonisti della mediazione di ieri: Sacconi e Damiano, appunto.

Analizziamo gli aspetti più importanti del nuovo testo. Innanzi tutto, le parole che mancano. Non si parla mai di Statuto dei lavoratori né tanto meno di articolo 18 e di disciplina del licenziamento individuale. Vengono però indicate delle materie che necessariamente richiederanno delle modifiche ad ambedue i santuari della gauche: le norme riguardanti il cosiddetto demansionamento (ovvero la possibilità – ora preclusa – di inquadrare i lavoratori in mansioni inferiori se ciò comporta la salvaguardia del posto di lavoro) e il controllo a distanza, essendo le disposizioni assunte nel 1970 completamente superate dalle nuove tecnologie.

Oddio: non è che i criteri di intervento siano ben definiti, dal momento che essi si limitano a raccomandare al legislatore delegato di tener presenti sia gli interessi dei datori che quelli dei lavoratori. Poi si arriva alla ciliegina sulla torta: «la previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio». Alcune questioni rimangono indefinite. Innanzi tutto, non è detto che dal novero delle tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio sia da escludere la sanzione della reintegra per lasciare il posto soltanto al risarcimento economico. In secondo luogo, noi interpretiamo che i nuovi assunti non coincidano obbligatoriamente con i nuovi occupati, ma che il contratto di nuovo conio si applichi anche a chi cambi lavoro e venga assunto ex novo da un altro datore. Se tali soggetti conservassero, infatti, una sorta di status ad personam (una disciplina del licenziamento “d’annata”), una volta usciti da un impiego stenterebbero a rientrare nel mercato del lavoro per ovvi motivi. Ma avverrà davvero così?

In ogni caso, pare indubbio che dovrà esserci un cambiamento importante: quanto meno la tutela reale – anche se continuerà a essere contemplata e non solo come sanzione del licenziamento nullo o discriminatorio – interverrà a rapporto di lavoro inoltrato (in nome, appunto, della logica della protezione crescente «in relazione all’anzianità di servizio»). Per capire, dunque, come finirà questa vicenda bisogna aspettare.

Nel frattempo però sarebbe consigliabile non cantare anticipatamente vittoria. E fare tesoro della prima riforma Poletti. Il contratto a termine ”liberalizzato” rimane ancora la modalità di assunzione più conveniente. E, a nostro avviso, lo rimarrà anche in seguito. La delega emendata prevede, poi, un giro di vite sui contratti flessibili (non era così nell’emendamento Ichino). Questo è certamente un successo di principio della sinistra. Al centro destra è già capitato – ai tempi della legge Fornero – di sopravvalutare qualche giro di valzer (poi rivelatosi inadeguato) intorno al totem dell’articolo 18 e di non accorgersi che gli stavano sottraendo la cosiddetta flessibilità in entrata.

Renzi s’è proprio stancato delle manfrine sindacali

Renzi s’è proprio stancato delle manfrine sindacali

Sergio Soave – Italia Oggi

Il discorso che Matteo Renzi ha voluto pronunciare per illustrare il programma di legislatura del suo governo aveva lo scopo di rintuzzare le critiche di chi, non senza ragioni in Italia e in Europa, contrappone l’ampiezza degli impegni assunti alla miseria dei risultati raggiunti, ma, soprattutto, serviva a lanciare un messaggio chiaro ai settori riottosi della sua maggioranza e del suo partito. Rimettere in testa all’agenda la riforma elettorale, che era finita nelle sabbie mobili dopo l’approvazione ottenuta alla Camera, significa rendere possibile la via d’uscita di elezioni anticipate nel caso in cui la maggioranza si squagli sui temi più controversi. Ai suoi gruppi parlamentari Renzi deve far digerire la riforma del mercato del lavoro che sostituisce indennizzi all’obbligo di riassunzione previsto dall’articolo 18 e all’alla giustizialista un avvio di riorganizzazione del sistema giudiziario che parta dal settore apparentemente meno minato della giustizia civile. Agli alleati centristi, soprattutto a quelli che insistono sulla loro ispirazione cristiana, invece deve far digerire una qualche forma di riconoscimento delle unioni di fatto.

Su questi temi cruciali il premier è stato abbastanza chiaro, anche se non è entrato nei dettagli, il che consente ai suoi sostenitori di esibirsi in lodi per la concretezza del messaggio, ai dissenzienti (che non coincidono con gli oppositori al suo governo) di lamentare che si tratta sempre e solo di parole. Un punto però è stato affrontato con decisione: se ci saranno ostacoli all’applicazione della delega sulla riforma del mercato del lavoro, il governo agirà per decreto. È un modo per far intendere a sindacati e oppositori interni che non saranno tollerate più altre manovre dilatorie, che su questa questione, quella della flessibilità in uscita del mercato del lavoro, che viene peraltro messa al primo posto come priorità dalle indicazioni di tutte le autorità sovranazionali a cominciare dalla Bce di Mario Draghi, il governo vuole arrivare a una decisione, più o meno nelle direzioni indicate da Maurizio Sacconi e da Pietro Ichino, che pare siano diventate convergenti. Molti diranno che è poco, il che si può sempre dire, ma se Renzi riuscirà davvero ad archiviare i due elementi di subalternità storica della sinistra italiana, al sindacalismo radicale sul mercato del lavoro, al giustizialismo sulle garanzie, avrà cambiato e nella direzione giusta anche se forse impopolare tratti essenziali della tradizionale imballatura ideologica che rende da decenni sterile il ventre del riformismo italiano.

Articolo 18, banco di prova di una nuova fase

Articolo 18, banco di prova di una nuova fase

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

È stato un Matteo Renzi più misurato del solito. Non il guascone che alcuni annunciavano. Ma un presidente del Consiglio consapevole del momento, che ha rinunciato – forse ben consigliato – ai toni spavaldi verso l’Europa e ha illustrato con inedito ordine il suo piano di riforme per trasformare – come è necessario – l’Italia. Sarà stata la presa d’atto del drammatico stallo dell’economia, con una crescita che il Centro studi Confindustria ieri ha confermato ben sotto lo zero; sarà stato il pressing dell’Europa, che considera scaduto il tempo delle promesse: fatto sta che Renzi ha dimostrato nel suo discorso alle Camere di avere una nuova cognizione del cambio di fase necessario e dell’obbligo di affrontare con maggior sistematicità i nodi cruciali di un rilancio economico che continua drammaticamente a slittare.

Ci si poteva aspettare di più sui tempi delle singole riforme e sul merito dei nodi politici che vanno sciolti per trasformare il riformismo d’impeto in riformismo dei fatti. Troppe poche parole, poi, sono state dedicate alla legge di stabilità. Ma la vera novità della giornata si chiama articolo 18, ovvero superamento della reintegra obbligatoria del lavoratore. Renzi ieri ha rotto gli indugi sull’ultimo dei tabù della sinistra e del mondo del lavoro. Il premier sa che su questo, su una maggiore flessibilità in uscita per i contratti a tempo indeterminato, si gioca una partita decisiva per la credibilità in Europa del suo governo e, sul fronte interno, per archiviare definitivamente ogni conservatorismo nel suo Pd.

Una partita difficile. Tutta ancora da giocare. Ma con i tempi stretti che l’emergenza lavoro, oltre che le attese dell’Europa, impone. Perciò ieri Renzi ha scelto di portare il suo affondo proprio sul Jobs Act, evocando anche la possibilità di un decreto. Sulla questione cruciale dell’articolo 18, però, in Parlamento si è tenuto ancora al di qua delle colonne d’Ercole. Ha incalzato sulla necessità di superare il dualismo nel mondo del lavoro, ma non ha parlato, ancora, di superamento della reintegra obbligatoria. Il dado però era lanciato. Così in serata alla direzione del partito il superamento dell’articolo 18 è stato evocato direttamente. Renzi illustrerà il suo piano a una direzione appositamente convocata per fine mese. Ma ieri sera raccontava così il progetto: «Lo Statuto del lavoro va riscritto e il dualismo tra “garantiti e non” va superato anche con una maggiore flessibilità nei contratti a tempo indeterminato, cioè con il superamento della reintegra obbligatoria prevista dall’articolo 18». Ovviamente questo deve avvenire, nel piano di Renzi, con un contestuale rafforzamento delle tutele economiche per chi perde il posto di lavoro. E qui il premier inserisce l’altra parte del discorso: «Con la legge di stabilità metteremo le risorse necessarie a rafforzare gli ammortizzatori, in questo modo anche i più scettici potranno convincersi sull’abolizione della reintegra obbligatoria».

È evidente che a questo punto un passaggio decisivo sarà proprio quello delle coperture da trovare nella legge di stabilità. Una “finanziaria” che diventa sempre più complessa, per la quantità di risorse che dovrà mobilitare. Eppure Renzi ieri alle Camere ha sorprendentemente eluso il tema della manovra di bilancio e dei tagli da 20 miliardi che serviranno in gran parte (16 miliardi) a coprire misure esistenti. Tra queste il sempre più contestato bonus da 80 euro, che da solo vale 10 miliardi. Il premier ha ribadito che non tornerà indietro. Comprensibile. Per il governo, come ha ammesso lo stesso ministro Padoan, è «una priorità politica» prima che una scelta economica. Ma con questa zavorra si riuscirà a liberare le risorse necessarie a ridurre le imposte sulle imprese e sul lavoro, vera priorità riconosciuta anche dall’Eurogruppo a Milano la settimana scorsa? E ora anche a trovare i fondi per la riforma degli ammortizzatori sociali?

Nessuno può credere seriamente che si potranno risparmiare 20 miliardi senza incidere sui grandi capitoli del bilancio pubblico, che sono le pensioni (254 miliardi, il 35% della spesa al netto degli interessi), la sanità (110 miliardi, il 14%), il pubblico impiego (164 miliardi, il 22,9%). Ma di tutto questo nel discorso di Renzi non c’è traccia. È vero che il tema dell’intervento alle Camere era il cosiddetto “piano dei mille giorni”. Ma è possibile parlare di un piano dei mille giorni senza entrare nella carne viva delle risorse necessarie a sostenere quelle riforme? È credibile un progetto di rilancio dell’economia senza delineare l’infrastruttura finanziaria necessaria a sostenerlo? Tanto più che si avvicinano le scadenze che contano. Quella della legge di stabilità, appunto, prevista tra il 10 e il 15 ottobre, ma anche quella del Consiglio europeo di fine ottobre. Per quella data l’Italia, se vorrà davvero accedere a una maggiore flessibilità sui conti pubblici, dovrà aver dimostrato di aver fatto passi avanti molto concreti sulle riforme. E su una in particolare, proprio quella del lavoro.

Perciò è davvero venuto il momento per Renzi di rompere l’ultimo dei tabù. Un’ennesima riforma del mercato del lavoro annacquata dalle tante resistenze conservatrici non serve a nessuno. Non serve certamente per dare il segnale di credibilità necessario in Europa, ma soprattutto non serve a dare all’Italia un mercato del lavoro più efficiente e più giusto. La svolta del riformismo dei fatti deve passare anche da qui.

Tre strade per cambiare

Tre strade per cambiare

Tito Boeri – La Repubblica

Ieri alla Camera Renzi ha detto che il suo governo intende varare la riforma del lavoro prima della fine dell’anno se necessario ricorrendo ad un decreto. Bene in effetti decidere in fretta prima che ci tolgano quel poco di sovranità limitata che ci è restata. Fondamentale dare segnali forti, che possano essere percepiti dai giovani che stanno decidendo se e dove emigrare e da chi guarda al nostro Paese da molto lontano e ha soldi da investire.

Questa settimana dovrebbe concludersi l’esame in Commissione al Senato della legge delega sulla riforma del lavoro. Una legge delega dovrebbe fissare principi generali e affidare al governo il compito di tradurli in norme specifiche. Invece l’impressione è che sin qui si sia discusso di tanti dettagli (mansioni, controlli a distanza, scambi di ferie, etc.) perdendo la visione d’insieme e con questa il senso delle sfide che stanno di fronte alle politiche del lavoro in Italia.

Il problema centrale è quello della bassa produttività. Come ricordava ieri Federico Fubini su queste colonne, il divario nel prodotto per addetto fra il nostro Paese e la Germania continua ad aumentare. Non va molto meglio se ci compariamo al Regno Unito e alla stessa Spagna. Questi andamenti sono tutt’altro che accidentali, per certi aspetti sono ricercati. Da ormai vent’anni abbiamo deciso di puntare tutto sui lavori e i lavoratori temporanei, a bassa produttività e bassi salari. Nelle parole di Maurizio Sacconi, che più a lungo di tutti ha gestito le politiche del lavoro in Italia, il futuro è nei “lavori umili” e i giovani devono “rivalutare il lavoro manuale”. E’ stato accontentato: nella disoccupazione giovanile al 43 per cento spicca il fatto che i laureati tra i 25 e i 29 anni faticano più dei diplomati a trovare lavoro. Non ci sono posti per loro. Eppure accettano di tutto, non sono “choosy”, schizzinosi, come lamentava Elsa Fornero: un terzo dei giovani che lavorano, lo fanno per meno di 5 euro all’ora, in più del 50 per cento dei casi si tratta di lavori non solo temporanei, ma anche con orari più corti di quelli che si vorrebbe (l’80% dei giovani che lavorano part-time vorrebbe un impiego a tempo pieno). I lavoratori potenzialmente più produttivi, sono in genere coloro che hanno livelli di istruzione più elevati, se ne vanno all’estero dove i tassi di disoccupazione giovanile arrivano a malapena alle due cifre. Se ne vanno perché la segregazione cui ha accennato ieri Renzi alla Camera diventa sempre più forte, purtroppo grazie anche alle politiche varate sin qui dal suo governo. Da quando è entrato in vigore il decreto Poletti, è infatti ulteriormente aumentata la quota di assunzioni e licenziamenti su contratti temporanei (è diminuita quella su contratti a tempo indeterminato), mentre sono diminuite le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Il turnover avviene ormai tutto in questo segmento nettamente separato dal resto del mercato del lavoro. Non dà un futuro, non dà speranze.

Se la riforma del lavoro vuole davvero lasciare il segno, dovrebbe investire nella creazione di posti di lavoro che non siano nati con una data di scadenza e che offrano vere opportunità di miglioramento di salari e produttività nel corso della carriera. Sono posti in cui conta la qualità dell’incontro fra domanda e offerta e l’investimento in formazione sul posto di lavoro. Il contratto a tutele crescenti permette di sperimentare se un rapporto di lavoro a tempo indeterminato funziona o no dando modo al datore di lavoro, nel caso in cui la risposta fosse negativa, di interromperlo almeno in una fase iniziale con costi certi e relativamente contenuti. Imporre a chi dà lavoro di pagare per il licenziamento di un neoassunto quanto paga per il licenziamento di un lavoratore con vent’anni o più di anzianità aziendale è una negazione della sperimentazione. Impedisce di creare posti a tempo indeterminato su mansioni in cui la qualità dell’offerente non può essere valutata con un semplice colloquio di lavoro, ma richiede mesi di compresenze in azienda. Offrire un compenso monetario al lavoratore in caso di licenziamento, che sia crescente con la durata dell’impiego, incentiva il lavoratore a investire nella durata del rapporto di lavoro, dunque nella formazione. Permettere i licenziamenti individuali e non solo quelli collettivi, lasciando al datore di lavoro facoltà di scegliere chi licenziare e chi no, stimola fortemente gli investimenti in produttività, di entrambe le parti, lavoratori e imprese.

Il problema della produttività è particolarmente acuto da noi perché il regime di contrattazione non permette di legare salari e produttività. Per le imprese che devono creare lavoro quel che conta è il rapporto fra quanto il lavoro produce e quanto costa, fra produttività del lavoro e salari. Stranamente in Commissione a Palazzo Madama si è parlato di tutto tranne che di salari, come se non avessero nulla a che vedere con il mercato del lavoro. Può ovviare a questa grave dimenticanza un accordo tra le parti che sancisca che, come in Spagna e in Germania, nelle aziende dove si svolge la contrattazione aziendale, le decisioni prese in questi accordi devono poter prevalere su quanto stabilito dai contratti nazionali, fatte salve ovviamente le leggi dello Stato. Sarebbe un modo per stimolare la contrattazione decentrata, azienda per azienda, prendendo atto del fatto che gli incentivi fiscali introdotti in questi anni, con la detassazione dei premi di produttività, non sono serviti a nulla: da quando ci sono, è diminuita la quota di aziende in cui si fa la cosiddetta contrattazione di secondo livello. Potremmo cancellare gli incentivi fiscali, risparmiando quasi un miliardo, da destinare ad allargare la platea dei beneficiari del bonus di 80 euro.

Per investire nei nuovi lavori bisogna affinare il passaggio dalla scuola al lavoro. Qui possiamo trasformare un fallimento in una grande opportunità, una cocente delusione in una riforma pilota anche per l’Europa. Il fallimento è quello, peraltro annunciato, della cosiddetta Garanzia giovani. A fronte dei quasi 200.000 giovani che si sono iscritti, i centri dell’impiego hanno identificato 103 opportunità d’impiego. Nove giovani su dieci iscritti su www.garanziagiovani.gov.it non hanno neanche ricevuto il primo colloquio di orientamento. E’ l’ennesima delusione, dopo il rapimento dei 200.000 posti di lavoro promessi dal pacchetto sul lavoro del Governo Letta. Chi li ha visti? Mentre chiediamo maggiori investimenti all’Europa non possiamo permetterci di far affondare l’unico investimento che ha fatto in questi anni nel nostro mercato del lavoro. Perché allora non permettere ai giovani di spendere la dote loro concessa dall’Europa in corsi avanzati di formazione-lavoro organizzati da università sul territorio in contatto con le aziende? Perché lasciare che questi soldi vengano buttati via presso qualche centro dell’impiego o finiscano per arricchire unicamente gli intermediari privati, anziché favorire i giovani? L’apparato normativo c’è già. Le università possono già oggi istituire corsi brevi di formazione a contatto con le aziende, in cui i frequentanti passano metà del tempo nelle aule universitarie e l’altra metà in azienda. La partecipazione e il lavoro dei giovani potrebbe essere in gran parte remunerata con la dote. Questi corsi non offrono garanzie di trovare lavoro, ma trasferiscono capitale umano, competenze che sono davvero utili alle aziende, che ci mettono del proprio nel formare il potenziale dipendente e che hanno tutto l’interesse ad assicurarsi che l’università faccia bene il suo mestiere.

Una riforma del lavoro che riesca a incidere su questi tre aspetti, regimi contrattuali, contrattazione salariale e formazione tecnica avanzata, darebbe un segnale forte ai giovani, all’Europa e a chi guarda anche da lontano al nostro Paese. Saremmo i primi a introdurre un contratto di lavoro che serve a unificare il mercato del lavoro, riducendo la segregazione dei lavoratori temporanei. Saremmo i primi a utilizzare i miliardi della garanzia giovani per introdurre un sistema di formazione duale come in Germania, Austria e Svizzera, i Paesi dove la disoccupazione giovanile è più bassa. E non spingeremmo più chi ha soldi da spendere e vuole creare posti da lavoro ad andare altrove perché ritiene che da noi comunque non conterebbe nulla. Bisogna offrire a questi investitori la possibilità di negoziare su tutto, orari, organizzazione del lavoro e salari. Lo farà con le organizzazioni dei lavoratori nell’azienda in cui vuole investire senza vederselo imposto dall’alto.

Occupazione, il mercato italiano 136esimo per efficienza

Occupazione, il mercato italiano 136esimo per efficienza

Il Mattino

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 136esimo su 144censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del «Centro studi ImpresaLavoro» sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni. L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011. Tra i Paesi delI’Europa a 27 siamo ultimi per la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). E siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario.

Un piano per salvare i rassegnati

Un piano per salvare i rassegnati

Walter Passerini – La Stampa

Negli ultimi dati Istat relativi al secondo trimestre dell’anno, un’attenta analisi può condurre a focalizzare meglio i target di una nuova strategia. Esaminando con una lente di ingrandimento alcuni particolari, si scopre, per esempio, che sullo stock dei 3,2 milioni di disoccupati, l’aumento dei disoccupati è alimentato soltanto dalle persone in cerca di lavoro da almeno 12 mesi, che nel secondo trimestre 2014 arrivano a 1 milione 952mila unità (+13,9% pari a 238.000 unità).

L’incidenza della disoccupazione di lunga durata (12 mesi o più) sale così al 62,1%, dal 55,7% del secondo trimestre 2013. Chi resta senza lavoro rischia di rimanere in un girone infernale da cui non riesce a uscire. Se poi si mettono sotto la lente gli inattivi, si scopre un esercito di rassegnati e sfiduciati. Coloro che cercano lavoro anche se non attivamente sono quasi 1,8 milioni; coloro che non cercano lavoro ma sono disponibili a lavorare sono 1,5 milioni. Si tratta di 3,3 milioni di individui, un numero superiore ai disoccupati ufficiali (3,2). Se ancora si vanno a vedere i motivi della mancata ricerca del lavoro, si trovano 2 milioni di individui che non cercano più il lavoro perché ritengono di non riuscire a trovarlo. È questo uno zoccolo duro di rassegnati che, sommati a disoccupati, contrattisti a termine, cassintegrati e in mobilità, finti collaboratori, part timer involontari, fotografa l’esercito della sfiducia che va riportato al lavoro.

Jobs Act, al pettine il nodo dell’articolo 18. Efficienza mercato del lavoro, Italia ultima in Europa

Jobs Act, al pettine il nodo dell’articolo 18. Efficienza mercato del lavoro, Italia ultima in Europa

ilsole24ore.com

Presto al pettine il nodo del Jobs Act, la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Martedì la commissione Lavoro del Senato esaminerà le proposte di modifica dell’articolo 4, che riguarda lo Statuto e che delega al Governo il riordino delle forme contrattuali. I partiti centristi della maggioranza (e Renzi) vorrebbero inserire le modifiche sui licenziamenti per le imprese che superano i 15 dipendenti, mentre la sinistra Pd chiede di non modificare il perimetro della delega. Obiettivo del Jobs Act, in Aula a palazzo Madama del 23 settembre, è modernizzare il mercato del lavoro, che secondo un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati del World Economic Forum è ultimo per efficienza in Europa (e in particolare nelle modalità di assunzione e licenziamento) e 136mo su 144 censiti nel mondo.

Donne e lavoro, confermato il 93° posto (su 144) 
Nella classifica dell’efficienza il nostro mercato del lavoro si piazza infatti poco sopra a Zimbabwe e Yemen, e viene superato da Sri Lanka e Uruguay. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale, e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore, così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni (hiring and firing process). L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011.

Efficacia, Italia fanalino di coda in Europa 
La performance del nostro mercato del lavoro è negativa anche per i parametri relativi all’efficacia, che ci vedono tra gli ultimi nel mondo e, quasi sempre, all’ultimo posto in Europa. Tra i Paesi dell’Europa a 27, ad esempio, rileva ImpresaLavoro, «siamo ultimi per quanto concerne la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). Siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario (contrattazione nazionale prevalente su quella decentrata). Siamo anche il peggior Paese europeo per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività e per l’alto livello di tassazione sul lavoro.

Mercato del Lavoro, Italia tra gli ultimi nel mondo

Mercato del Lavoro, Italia tra gli ultimi nel mondo

RaiNews.it

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 136mo su 144censiti nel mondo a un livello appena superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a Sri Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati di World Economic Forum. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore.