lavoro

Le retribuzioni in Italia: in Lombardia un laureato guadagna oltre 17€ lordi all’ora, oltre 5€ in più rispetto a chi ha la licenza elementare. La retribuzione femminile rimane inferiore a quella maschile in tutta Italia.

La formazione universitaria e post-universitaria ripaga nel mondo del lavoro. Lo conferma uno studio condotto dal Centro Studi ImpresaLavoro, dell’imprenditore Massimo Blasoni, che, rielaborando le statistiche ISTAT sulle retribuzioni medie nelle regioni italiane, ha rilevato che lo stipendio lordo orario è nettamente superiore per chi ha completato un percorso universitario e post-universitario.

Il delta retributivo orario per i laureati rispetto ai non laureati varia notevolmente nel nostro Paese, da un minimo medio di 1,15 €/ora della Basilicata, fino a 5,33 €/ora della Lombardia.

Questo fenomeno è più significativo nelle regioni del Nord rispetto alle regioni del Sud e delle Isole dove le differenze degli stipendi sono inferiori.

Regioni italiane: retribuzione lorda oraria per titolo di studio

Dalla ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro su rielaborazione di dati ISTAT emerge che le tre regioni a pagare di più i dipendenti che possiedono solo la licenza di scuole elementare, sono la Provincia Autonoma di Bolzano (12,87 €/h), la Lombardia (11,67 €/h) e l’Emila Romagna (11,59 €/h).

Secondo la media nazionale, completare una formazione universitaria o post-universitaria significa migliorare la propria retribuzione di 2,42 €/h rispetto a chi possiede solo il diploma elementare e di 1,75 €/h rispetto a chi si è fermato alle scuole superiori.

La situazione, però, è molto eterogenea nelle varie regioni italiane. A registrare un maggior divario retributivo fra lavoratori senza titolo di studio e lavoratori con una formazione universitaria e post-universitaria sono la Lombardia, con un incremento di 5,33 €/h; la Provincia Autonoma di Bolzano, con 4,49 €/h e il Lazio, con 4,87 €/h. Differentemente, il delta retributivo orario per i laureati rispetto ai non laureati si colloca al di sotto dei 2 €/h in Basilicata (1,15 €/h), Molise (1,54 €/h), Marche (1,61 €/h) e Sardegna (1,65 €/h).

Si evince dalla ricerca (vedi i confronti riportati nella tabella sottostante) che il mercato del lavoro delle regioni del Nord apprezza maggiormente chi consegue titoli di studio più avanzati.

Uniche eccezioni rilevanti sono il Lazio e la Campania che, in netta controtendenza alle altre regioni del Centro e del Sud, hanno un mercato del lavoro che valorizza nettamente chi possiede titoli di studio più alti.

Titolo di studiolicenza di scuola elementare e mediadiplomalaurea e post-laureatotaledifferenza tra ” licenza di scuola elementare e media” e “diploma”differenza tra “diploma” e “laurea e post laurea”differenza tra ” licenza di scuola elementare e media” e “laurea e post laurea”
Territorio        
Italia 11,1111,9514,5711,700,842,623,46
    Piemonte 11,5612,5915,4712,251,032,883,91
    Valle d’Aosta / Vallée d’Aoste 11,1711,8513,2311,490,681,382,06
    Liguria 11,1612,1514,8011,870,992,653,64
    Lombardia 11,6713,0117,0012,601,343,995,33
    Provincia Autonoma Bolzano / Bozen 12,8714,4417,3613,411,572,924,49
    Provincia Autonoma Trento 11,2312,2813,9011,841,051,622,67
    Veneto 11,4712,3314,0711,950,861,742,60
    Friuli-Venezia Giulia 11,3212,2414,3111,920,922,072,99
    Emilia-Romagna 11,5912,5314,6012,170,942,073,01
    Toscana 11,2311,9514,0511,630,722,102,82
    Umbria 10,9611,3912,5511,310,431,161,59
    Marche 11,0511,4812,6611,340,431,181,61
    Lazio 10,7311,7515,6011,681,023,854,87
    Abruzzo 10,8311,2612,5811,160,431,321,75
    Molise 10,6411,1212,1811,010,481,061,54
    Campania 10,2110,7312,6610,590,521,932,45
    Puglia 10,2410,6712,1310,540,431,461,89
    Basilicata 10,9111,0912,0611,030,180,971,15
    Calabria 10,0710,5211,7810,420,451,261,71
    Sicilia 10,6010,9212,4810,860,321,561,88
    Sardegna 10,6311,1112,2810,960,481,171,65
       
       

Rielaborazione ImpresaLavoro su base dati ISTAT

Regioni italiane: retribuzione lorda oraria per genere

Un tema caldo degli ultimi anni è la differenza retributiva, a parità di titolo di studio e ruolo, fra uomini e donne.

A livello nazionale gli uomini guadagnano 0,87 €/h in più rispetto alle colleghe dell’altro sesso. In tutte le regioni italiane gli uomini guadagnano di più rispetto alle donne, ma con alcune differenze: le aree in cui questo fenomeno è più accentuato sono la Provincia Autonoma di Bolzano (con un delta di 1,23 €/h), la Liguria (1,22 €/h) e il Friuli-Venezia Giulia (1,21 €/h). Il divario è più sottile, invece, in Sardegna (0,45 €/h), in Calabria (0,47 €/h) e in Lazio (0,57 €/h) e in generale in tutte le regioni del Centro-Sud del Paese.

Sessomaschifemminetotaledelta per regione
Territorio     
Italia 12,0411,2711,700,77
    Piemonte 12,7911,6512,251,14
    Valle d’Aosta / Vallée d’Aoste 12,0810,9911,491,09
    Liguria 12,4611,2411,871,22
    Lombardia 12,9712,0412,600,93
    Provincia Autonoma Bolzano / Bozen 14,0412,8113,411,23
    Provincia Autonoma Trento 12,4611,2911,841,17
    Veneto 12,4811,3511,951,13
    Friuli-Venezia Giulia 12,5011,2911,921,21
    Emilia-Romagna 12,6811,6412,171,04
    Toscana 11,9911,2411,630,75
    Umbria 11,6510,8711,310,78
    Marche 11,6211,0311,340,59
    Lazio 11,9011,3311,680,57
    Abruzzo 11,5610,6311,160,93
    Molise 11,3610,5111,010,85
    Campania 10,8010,2110,590,59
    Puglia 10,8210,1210,540,70
    Basilicata 11,4710,2811,031,19
    Calabria 10,6010,1310,420,47
    Sicilia 11,0510,4710,860,58
    Sardegna 11,1510,7010,960,45
 

Rielaborazione ImpresaLavoro su base dati ISTAT

«Studiare è, tutto sommato, un buon affare» – dichiara Massimo Blasoni, Presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – «lo testimoniano i dati della ricerca svolta. Resta però rilevante nel Paese il tema della programmazione: non si trovano infermieri, medici, e tante altre professioni, mentre per alcuni profili il numero di laureati rimane troppo alto».

Crescono le Start-Up in Italia dopo la Pandemia. Si investe soprattutto in servizi alle imprese e tecnologia. Lombardia al primo posto in Italia con il 39,26% di Start-Up ogni 10.000 abitanti.

Premesse

I due anni di pandemia appena terminati sembrano non aver scoraggiato i nuovi imprenditori startupper. Essi, infatti, sono aumentati proprio durante il 2022, spinti dalle idee nuove e dalle nuove esigenze di un mercato radicalmente cambiato dall’esperienza del Covid. Non da ultimo, attratti dalla forma snella e agevolante della “Start up innovativa” così come prevista dal d.l. 179/2012.

Una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro dell’imprenditore Massimo Blasoni su elaborazione di dati Unioncamere, Ministero dello Sviluppo Economico e InfoCamere rappresenta, al 1 luglio 2022, una crescita delle Start up innovative in Italia dello 1,8% rispetto solo al trimestre precedente portando il numero complessivo delle stesse a 14.621.

I settori nei quali le Start up innovative operano prevalentemente sono per il 76% Servizi alle imprese (nello specifico sviluppo di software e consulenza informatica), per il 15,74% nell’attività Manifatturiera, Energetica e Mineraria e, a seguire, altri comparti come Agricoltura, Commercio e settori non classificati.

Start Up nelle regioni italiane

I dati consentono di analizzare la situazione delle varie regioni italiane andando a verificare il numero di start up avviate nel corso del 2022. Rapportando la quantità di start up alla popolazione, emerge che ad essere al primo posto sul podio è la Lombardia (con il 39,26% ogni 10000 abitanti). Un dato ragionevole se si pensa che Milano rimane ad oggi il più importante centro economico del nostro Paese. Alla Lombardia fanno seguito il Lazio (31,04% ogni 10000 abitanti), il Trentino-Alto Adige (29,81% ogni 10000 abitanti) e il Molise (28,41% ogni 10000 abitanti).  

Agli ultimi posti, invece: Calabria (14,71% ogni 10000 abitanti), Sardegna (14,55% ogni 10000 abitanti) e la Sicilia (14,26% ogni 10000 abitanti).

ClassificaRegioneN. StartupStartup per 10.000 abitanti
1LOMBARDIA390439,26%
2LAZIO177431,04%
3TRENTINO-ALTO ADIGE135029,81%
4MOLISE109628,41%
5BASILICATA109428,09%
6UMBRIA79028,06%
7MARCHE69326,49%
8EMILIA-ROMAGNA68924,72%
9CAMPANIA68624,00%
10ABRUZZO39423,36%
11FRIULI-VENEZIA GIULIA32022,85%
12VENETO29822,61%
13TOSCANA27318,92%
14VALLE D’AOSTA27318,64%
15PIEMONTE25418,56%
16PUGLIA24117,49%
17LIGURIA23116,83%
18CALABRIA15214,71%
19SARDEGNA8314,55%
20SICILIA2314,26%

Rielaborazione ImpresaLavoro su base Unioncamere, Ministero dello Sviluppo Economico e InfoCamere, 2022

L’equa distribuzione dello sviluppo di start up innovative tra Nord e Sud Italia è anche rappresentato dal numero di imprenditori innovativi nelle province italiane. Oltre Milano, ovviamente, tra i primi 10 posti si classificano ben 4 province del Sud: Roma, Napoli, Bari e Salerno.

Rielaborazione ImpresaLavoro su base Unioncamere, Ministero dello Sviluppo Economico e InfoCamere, 2022

Ma come lavorano le nostre start up?

Le start up italiane raggruppano un valore della produzione totale di 1,3Mld di Euro all’anno nonostante il reddito operativo medio sia negativo e solo il 47,22% delle stesse chiuda il bilancio in utile. Questo è un aspetto fisiologico della fase di start up di ogni impresa, fase che ingloba rischi di gestione, che sono accentuati da prodotti/servizi a tal punto innovativi che il mercato non è ancora in grado di assorbirli e spesso anticipano troppo i reali bisogni dei possibili consumatori.

Un dato significativo per il mercato del lavoro, invece, riguarda il volume occupazionale che le start up innovative creano nei primi anni di vita dalla costituzione. Dal rapporto in esame emerge che sono 21.477 i dipendenti totali delle start up italiane, con un valore medio di 3,75 dipendenti a start up.

«È incoraggiante sapere che in Italia nel solo 2022 sono state avviate oltre 14mila start up»  – dichiara Massimo Blasoni, Presidente del Centro studi ImpresaLavoro – «Per lo Stato italiano sostenere la diffusione della cultura d’impresa e favorire la nascita di nuove realtà deve essere una priorità, da tradursi con un sostegno concreto ai giovani imprenditori che per spirito d’indipendenza e desiderio di realizzazione fanno impresa».

Start Up nel resto l’Europa

I numeri italiani, sebbene possano sembrare incoraggianti e indicativi di un contesto imprenditoriale giovane e in fermento, sono ben poco significativi se paragonati ad altri paesi d’Europa.

Colpisce, tuttavia, nella ricerca, che tra le prime 10 regioni con il maggior numero di startup vi siano ben 5 regioni del Sud. A questo dato incoraggiante andrebbe però dato un concreto sostegno dalle istituzioni, soprattutto considerando che il prosperare delle giovani imprese di oggi rappresenta l’aumento dei posti di lavoro di domani.

I giovani e il mercato del lavoro: tanti giovani non cercano lavoro. Non hanno voglia di lavorare o i salari sono troppo bassi?

I giovani e il mercato del lavoro: tanti giovani non cercano lavoro. Non hanno voglia di lavorare o i salari sono troppo bassi?

La fascia d’età canonicamente considerata dall’Istat 15-34 anni, per rilevare la percentuale dei giovani occupati in Italia, sconta evidentemente il fatto che i minori al lavoro sono fortunatamente pochissimi. Tuttavia, la percentuale di occupati nella fascia 15-34 evidenzia profonde differenze tra le regioni italiane. Il basso numero di giovani occupati trova in parte spiegazione con il decremento del salario medio nel nostro Paese. Dai dati OCSE sulla variazione percentuale dei salari medi annui negli ultimi 30 anni, si rileva che l’Italia è l’unico Paese, tra quelli considerati, in cui il salario medio annuo è sceso: -2,9%. Per converso, nello stesso periodo, in Germania l’incremento è stato del 33,7% e in Francia del 31,1%.

Occupazione in Italia

Nel 2021 in Italia gli occupati tra i 15-64 anni sono 21.849.198 che equivalgono ad una percentuale piuttosto bassa (37,04%) se si considera il totale della popolazione italiana (58.983.169). Il maggior numero di lavoratori si riscontra nella fascia d’età tra i 35-49 anni (15,05%). A seguire coloro che hanno tra i 50-64 anni (13,63%) e per ultimi i giovani tra i 15-34 anni (8,36%). È da considerare che, secondo le rilevazioni OCSE, solo il 3,1% dei giovani tra i 15-19 anni lavora (4,2% uomini e 2,0% donne).

A livello regionale si conferma la stessa panoramica presentata per il contesto nazionale. Infatti, la fascia d’età con il minor numero di occupati rimane quella dei giovani tra i 15-34 anni in tutte le regioni d’Italia. Le regioni con il maggior numero di occupazione giovanile sono il Trentino-Alto Adige (11,74%) – Provincia Autonoma di Bolzano (12,60%) e Trento (10,89%) – la Lombardia (9,89%), il Veneto (9,87%), l’Emilia-Romagna (9,48%), il Friuli-Venezia Giulia (9,31%), e il Piemonte (9,14%). Al contrario, il minor numero di giovani occupati si riscontra in Sicilia (5,82%), Calabria (6,32%), Campania (6,69%), Puglia (6,92%) e Molise e Sardegna (7,02%).

Il divario Nord-Sud evidenzia che i giovani sono più occupati al Nord-Est (9,84%) e al Nord-Ovest (9,48%) rispetto al Sud (6,62%).

Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro dell’imprenditore Massimo Blasoni, realizzata su elaborazione di dati ISTAT e OCSE.

Elaborazione ImpresaLavoro su dati ISTAT

Il salario medio annuo

Sorge spontaneo chiedersi: perché i giovani non cercano lavoro in Italia? Non hanno voglia di lavorare o i salari sono troppo bassi? Hanno perso fiducia nelle loro prospettive di lavoro in Italia e stanno cercando altre opportunità all’estero?

Dai dati OCSE sulla variazione percentuale dei salari annuali medi tra il 1990 e il 2020 si evince che in alcuni Paesi come la Germania e la Francia il salario medio annuale è aumentato rispettivamente di +33,7% e +31,1%. L’Italia è l’unico Paese in cui negli ultimi 30 anni il salario medio annuo non è aumentato ma è, invece, diminuito (-2,9%).

«La ricerca evidenzia, da un lato, quanto sia elevato il numero dei giovani che non lavorano, ovvero che entrano nel mondo del lavoro dopo i 30 anni – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – dall’altro ci suggerisce che il problema dei salari bassi esiste: l’Italia è l’unico Paese OCSE in cui il salario medio annuo negli ultimi 30 anni non è aumentato».

Elaborazione ImpresaLavoro su OCSE

Centro Studi Impresa e Lavoro: “nel 2020 il 44% degli italiani ha acquistato online”

Centro Studi Impresa e Lavoro: “nel 2020 il 44% degli italiani ha acquistato online”

In Italia nel 2020 il 44% dei cittadini ha effettuato acquisti online di almeno un bene o servizio, a differenza del 2018 la cui percentuale di acquisti online era del 36%. Il nostro Paese si colloca così al quint’ultimo posto di questa particolare classifica europea, appena al di sotto del Portogallo (35%) e al di sopra di Romania (38%), Serbia (38%), Macedonia del Nord (34%) e Bulgaria (31%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro dell’imprenditore Massimo Blasoni, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat

In Italia i consumatori più attivi online risultano essere di età compresa tra i 25 e i 34 anni (il 62% ha acquistato beni o servizi online) e i giovanissimi di età compresa tra i 16 e i 24 anni (59%). Col progredire dell’età aumentano invece in proporzione la diffidenza e il digital divide, tanto che a comprare online sono stati soltanto il 31% dei cittadini di età tra i 55 e i 64 anni (in aumento rispetto al 22% del 2018), il 15% dei cittadini di età tra i 65 e i 74 anni (+10% rispetto al 2018) e solamente il 3% degli over75 (+2%).

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat

Analizzando le scelte di questi consumatori negli ultimi 3 mesi del 2020, si osserva come resti bassissima la frequenza degli acquisti, quasi sempre uno o due acquisti a testa, solo il 9% ne ha effettuati da 3 a 5.

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat

I beni più acquistati online dagli italiani sono stati vestiti e articoli sportivi (23%), film e musica (15%), viaggi e alloggi per vacanza (11%), attrezzatura elettronica (11%), articoli casalinghi (10%), cibo e generi alimentari (10%), libri e riviste (9%), biglietti per eventi (4%), servizi di telecomunicazioni (3%). Curiosamente, solo il 2% ha deciso di affidarsi alla Rete per l’acquisto di software per computer. Secondo una rielaborazione del Centro studi ImpresaLavoro, il 67% degli italiani ha acquistato online da siti esteri, principalmente tramite Amazon per il 94%, su eBay per il 52% e su Zalando per il 44%.

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat

Negli ultimi tre mesi del 2020 nelle regioni italiane si è riscontrata una maggiore propensione al Nord d’Italia per l’utilizzo dell’e-commerce. Lombardia e Trentino-Alto Adige al primo posto con 44.4%, seguiti da Valle d’Aosta (43.5%), Veneto (43.2%), Emilia-Romagna (42.7%), Friuli-Venezia Giulia (41.5%), e Piemonte (40.6%). In fondo alla classifica si trova la Puglia con 31.4%, seguita dalla Sicilia (27.4%), Campania (26.1%), e Calabria (24%).

Stranieri in Italia: 78,8 miliardi di euro di rimesse dal 2008 al 2020.

Stranieri in Italia: 78,8 miliardi di euro di rimesse dal 2008 al 2020.

Bangladesh, Romania e Filippine i principali Paesi di destinazione

Dal 2008 al 2020 (ultimo dato disponibile) le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno toccato la cifra 78,8 miliardi di euro. Lo rivela un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro, presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni, realizzata su elaborazione dei più recenti dati Banca d’Italia.  Le rimesse hanno avuto una crescita dal 2008 al 2011 toccando i 7.394,37 milioni di euro, per poi contrarsi fino ai 5.070,54 milioni di euro nel 2016. Da allora si è registrata una ripresa annuale costante del fenomeno, che nel 2020 ha toccato quota 6.766,6 milioni di euro. Le stime eseguite dalla Banca d’Italia, riportate nell’ultimo report disponibile, indicano che le rimesse avvengono tramite alcuni principali intermediari ufficiali (money transfer, poste e banche) ai quali vanno aggiunti i flussi in uscita attraverso i “canali informali” (tra il 10 e il 30% del totale). Con il passare degli anni l’incidenza dei canali informali sul totale appare comunque in sensibile diminuzione.

ANDAMENTO RIMESSE DEGLI STRANIERI VERSO I PAESI D’ORIGINE

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Banca D’Italia

Analizzando i dati dell’ultimo anno disponibile (2020), il Centro studi Impresa Lavoro ha osservato come i lavoratori stranieri che hanno effettuato la maggior parte delle rimesse siano quelli residenti in Lombardia (1 miliardo e 536,90 milioni, pari al 22,71% del totale), in Lazio (953,42 milioni, 14,09%), in Emilia-Romagna (706,63 milioni, 10,44%), in Veneto (587,21 milioni, 8,68%), in Toscana (521,46 milioni, 7,71%), in Campania (476,44 milioni, 7,04%) e in Piemonte (439,93 milioni, 6,50%).

LE REGIONI DI PROVENIENZA, ANNO 2020

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Banca d’Italia

Relativamente alle rimesse effettuate durante il 2020, i lavoratori stranieri che hanno inviato ai Paesi di origine il maggior quantitativo di denaro risultano essere stati i bengalesi (707,35 milioni, pari al 10,45% del totale), i romeni (604,47 milioni, 8,93%), i filippini (448,68 milioni, 6,63%), i pakistani (435,47 milioni, 6,44%) e i marocchini (428,80 milioni, 6,34%).

I PRINCIPALI PAESI DI DESTINAZIONE, ANNO 2020

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Banca d’Italia

Posti letto RSA: Ci sono ancora posti letto in Italia, si trovano principalmente al Nord

Posti letto RSA: Ci sono ancora posti letto in Italia, si trovano principalmente al Nord

I posti letto in Europa

La popolazione anziana è in netto aumento in comparazione con l’andamento demografico europeo, provocando una crescente domanda di assistenza sociosanitaria. Infatti, secondo le proiezioni demografiche future svolte da Eurostat, sarà considerevole non solo l’incremento della popolazione anziana ma anche di quella molto anziana, arrivando a toccare il 14.6% della popolazione totale europea. Di conseguenza, viene stimata una crescita dei posti letto entro i prossimi vent’anni da uno studio ISIMM nei seguenti Paesi: in Austria (+43%), in Svizzera (+75%), in Belgio (+33%), in Italia (+33%), in Spagna (+14%), in Francia (+5%), e in Germania (+29%). Inoltre, secondo gli ultimi dati completi del OECD (Health online database) 2019, si evince che l’Italia, rispetto ai principali Paesi Europei, risulta quart’ultima nella classifica con 18,8 posti letto ogni 1000 abitanti over 65 anni, in confronto con la media dei Paesi OCSE che si aggira intorno ai 39,3 posti letto.
I Paesi dove si nota una maggiore quantità di posti letto ogni 1000 residenti over 65 sono il Lussemburgo con 80,8 posti, l’Olanda con 72,1, il Belgio con 68,1, la Svizzera con 63,6, la Germania con 54,2 posti a pari merito con la Finlandia. Infine, dopo l’Italia seguono la Lettonia con 13,4 posti, la Polonia con 11,3 ed infine la Grecia con 1,8 posti ogni 1000 anziani.


Elaborazione ImpresaLavoro su dati OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), 2019

I posti letto in Italia.

La popolazione anziana è in netto aumento in comparazione con l’andamento demografico europeo, provocando una crescente domanda di assistenza sociosanitaria. L’Italia, oltre a trovarsi in fondo alla classifica Ocse con 18,8 posti letto nelle RSA ogni 1.000 residenti over 65, registra un’alta percentuale di popolazione anziana (più del 20%). Un rapporto dell’Health of Glance del 2019 prevede che una persona su 8 avrà in media 80 anni entro il 2050, determinando una crescita sempre maggiore della domanda socio-assistenziale. Secondo i dati del Ministero della Salute, i residenti in RSA durante il 2019 erano 329.142, pari al 2,4% in rapporto alla popolazione residente over 65.

Secondo gli ultimi dati Istat, i posti letto operativi nelle RSA sono al momento 125.340 nel Nord Ovest, 94.341 nel Nord Est, 45.125 nel Centro, 28.371 nel Sud e 19.480 nelle Isole. La scarsità di posti letto si evince principalmente al Sud. Il rapporto dei posti letto operativi sugli abitanti over 65 rileva una percentuale più alta al Nord Est (3,40%), seguito da Nord Ovest (3,24%), Centro (1,58%), Isole (1,33%) e Sud (0,84%). 

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Istat, 2018

In particolare, analizzando i dati di ogni regione italiana si nota come il Trentino-Alto Adige disponga della percentuale più elevata di posti letto operativi su over 65 (4,40%), seguito da Piemonte (3,89%), Friuli-Venezia Giulia (3,75%) e Valle d’Aosta (3,58%). In fondo a questa classifica si trovano invece Puglia (1,07%), Calabria (1,04%), Campania (0,56%) e Basilicata (0,49%).  

Lufthansa ritorna al posto di Delta per fare di Alitalia uno spezzatino

Lufthansa ritorna al posto di Delta per fare di Alitalia uno spezzatino

Questa settimana verrà ricordata come una delle più difficili per il mercato del lavoro italiano. In prima fila ci sono i problemi di Alitalia. Ieri piloti e assistenti hanno scioperato per 24 ore. La Fnta, federazione che riunisce i lavoratori aderenti ad Anpac, Anpav e Anp, ha indetto la manifestazione nella speranza che si trovi una soluzione per salvare l’ex compagnia di bandiera, una speranza arriverebbe da Lufthansa. Due giorni fa la compagnia tedesca avrebbe inviato una lettera a ministero dello Sviluppo economico e Ferrovie dello Stato nella quale si proporrebbe come alternativa all’americana Delta. Non si tratterebbe però di ingresso nel capitale azionario ma di una forte partnership commerciale. Il che lascerebbe pensare che il contraltare sarebbe un drastico taglio del personale e alla necessità di una nuova iniezione di capitale pubblico.

Eventualità che contribuisce ad alzare la tensione, se non bastassero gli altri scioperi come quello dei lavoratori della Embraco. Gli operai hanno manifestato bloccando la rotonda che da Riva di Chieri porta verso la fabbrica nella speranza di trovare un piano alterativo a quello della Venture che ha rilevato l’azienda. I cinoisraeliani della Venture non stanno infatti riuscendo a rispettare gli impegni presi e sembrano non avere le risorse finanziarie per dare corso al piano che prevede la produzione di robottini per pulire i pannelli solari, dispenser dell’acqua, e-bike e giocattoli, Non va meglio ai lavoratori della Whirlpool. Pochi giorni fa anche loro hanno protestato nella speranza di impedire la cessione dello stabilimento di Napoli, mentre ieri hanno incontrato il premier Giuseppe Conte. È chiaro dunque che il ministro Stefano Patuanelli che guida il dicastero dello Sviluppo economico al momento abbia diverse gatte da pelare e che dovrà comprendere che i sussidi sono destinati solo a prolungare l’agonia. «11 nostro mercato del lavoro», spiega l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro, «contiene difetti strutturali che possono essere risolti solo con politiche di medio-lungo periodo. Occorre favorire un processo di innovazione sul versante della contrattazione e della produttività, incoraggiando contratti di prossimità e un maggior rapporto tra salari e produttività. Va detto però che non è solo colpa delle politiche del Mise. Il vero problema è che il mercato del lavoro italiano è fermo al palo da troppi anni. A tracciare una fotografia di questa situazione che si protrae da tempo ci pensa un elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati contenuti nel recentissimo «Global competitiveness report 2019-2020» pubblicato dal World Economic Forum. Dall’indagine che misura l’efficienza del mercato del lavoro, emerge che l Italia è terz’ultima in classifica tra i 28 Paesi membri dell Unione europea e novantesima su 141 Paesi censiti nel mondo. L’indicatore dell’efficienza è un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro mercato del lavoro attraversa. Per quanto concerne, ad esempio, la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro siamo in cento quattordicesima posizione al mondo e penultimi tra i Paesi dell Europa a 28 {ai primi tre posti ci sono Danimarca, Paesi Bassi e Lussemburgo). Nella classifica Ue abbiamo dunque perso una posizione rispetto al 2018, Siamo invece al cento trentacinquesimo esimo posto al mondo e diventiamo penultimi in Europa (perdendo anche qui una posizione rispetto all’anno precedente} per flessibilità nella determinazione dei salari. In parole povere, ciò significa che spesso i nostri contratti sono spesso frutto di accordi di categoria e quasi mai sono il risultato di un dialogo tra impresa e lavoratore. Dove però l’Italia é particolarmente carente è nella capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Su questo punto siamo l’ultimo Paese tra i 28 dell Ue e alla posizione 130 al mondo. In pratica, i datori di lavoro non riescono a premiare i professionisti più produttivi. Non va meglio se si guarda all’effetto della pressione fiscale sul lavoro (facciamo molto peggio di Danimarca e Regno Unito). Su questo indicatore il peggioramento rispetto al 2018 è netto, in Europa scendiamo verso il basso di altre otto posizioni.
Anche la scarsa efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: per quanto riguarda questo aspetto siamo alla posizione 127 al mondo e perdiamo ben due posti in Europa (adesso siamo terzultimi). Infine, un altro indicatore da considerare e quello che riguarda l efficienza e l efficacia delle politiche attive per il lavoro, dove ci collochiamo addirittura all’ultimo posto in Europa (al mondo siamo alla posizione 99).

Il paradosso sul lavoro: cresce solo per gli stranieri

Il paradosso sul lavoro: cresce solo per gli stranieri

di Massimo Blasoni

L’argomento è spinoso e si presta a più interpretazioni, tuttavia i dati Istat e quelli pubblicati da Eurostat lo scorso marzo ci consegnano un dato emblematico: negli ultimi dieci anni gli occupati stranieri in Italia sono cresciuti di 765mila unità e hanno in parte «sostituito» quelli italiani, scesi nel frattempo di 640mila unità. Il tasso di occupazione nel nostro Paese, cioè la percentuale delle persone al lavoro sul totale degli adulti, è uno dei più bassi in Europa. Lavora il 57,7% degli italiani, un dato di quasi venti punti percentuali inferiore a quello tedesco e britannico. Se però consideriamo i soli stranieri presenti nel nostro Paese la percentuale sale sfiorando il 60%. L’Italia è tra i pochissimi Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono mediamente occupati in maggior numero rispetto ai cittadini nazionali. Certo, dobbiamo apprezzare che i posti di lavoro in Italia stiano, se pur lentamente, crescendo. Occorre però chiedersi se sia opportuno questo effetto di sostituzione, visto l’elevato livello di disoccupazione soprattutto giovanile e le difficoltà di reimpiego per gli ultracinquantenni che perdono un posto di lavoro: per molti trovare un’occupazione è un miraggio. Insomma, è ancora vero che gli stranieri vengono per fare i lavori rifiutati dagli italiani oppure contribuiscono ad accrescere la disoccupazione? Un dubbio amletico. Peraltro, dato che le statistiche si riferiscono al periodo 2008–2018, non si può nemmeno dire che la minor occupazione nazionale dipenda dal reddito di cittadinanza. Una misura, quest’ultima, che potrebbe favorire una minor propensione ad accettare lavori a bassa retribuzione ma i cui effetti eventualmente troveremo nei report del prossimo anno.

Servono gli investimenti, non i sussidi

Servono gli investimenti, non i sussidi

Massimo Blasoni, imprenditore nel settore della costruzione e gestione di residenze sanitarie per anziani con Sereni Orizzonti, uno dei gruppi nazionali leader di settore che occupa circa 3mila persone, cosa pensa della manovra?

«Premesso che non sempre bisogna essere remissivi in Europa – condivido infatti la posizione sui migranti di Salvini – relativamente alla manovra non solo occorre ridurre il deficit ipotizzato ma soprattutto sarebbe necessario spendere diversamente le risorse. Comprendo i motivi per i quali l’Ue giudichi negativamente misure come il reddito di cittadinanza che paiono alludere al fatto che i problemi non si risolvono con il lavoro. È sbagliato credere che una manovra in deficit migliori il rapporto debito/Pil perché il debito aumenta con certezza e lo stesso non si può dire del Pil vista la crescente propensione al risparmio degli italiani in questi mesi di incertezza».

Però esiste un problema povertà in Italia.

«Servono interventi, ma non a debito. Bisogna mettere l’accento sullo sviluppo delle imprese e sulla creazione di occupazione. Il maggior gettito sarebbe utile anche per le misure di contrasto alla povertà».

Cosa dovrebbe fare il governo secondo lei?

«Infrastrutture, sia fisiche che digitali. Nel 2009 lo Stato investiva 50 miliardi in opere pubbliche, oggi sono scesi a 30, mentre il Paese avrebbe bisogno di rendere più rapidi ed efficienti i trasporti e gli scambi. Resta poi il tema della burocrazia, vero macigno sullo sviluppo delle imprese. Secondo il report Doing Business, una concessione edilizia in Italia richiede in media 227 giorni, mentre in Germania ne bastano la metà. Avviata la progettazione nello stesso giorno, mentre mi starò ancora dibattendo tra bolli e permessi, il mio competitor tedesco starà già costruendo da mesi. Competere così non è facile, visti la diversa disponibilità e costo del denaro e il devastante peso delle tasse, tra le più alte d’Europa».

Il governo afferma di aver pensato alle imprese.

«Misure blande in confronto a reddito di cittadinanza e quota 100. Servirebbe, invece, un grande sforzo per innovare. Andiamo verso un mondo nel quale la metà delle professioni attuali potrebbe essere automatizzata e nel quale i nostri figli che oggi frequentano le elementari potrebbero svolgere un mestiere che ora neppure esiste. L’Italia investe poco in digitale e istruzione. Secondo l’indice Desi della Commissione Ue siamo tra gli ultimi in Europa».

Cosa non si dovrebbe fare?

«Non funziona l’irrigidimento del mercato del lavoro determinato dal decreto Dignità. Non si devono fermare le grandi opere come la Tav. Si dovrebbe evitare lo statalismo insito nelle ipotesi di salvataggio pubblico di Alitalia e di trasformazione di Cdp in una nuova Iri. Non funziona, infine, il reddito di cittadinanza. Mi spiace dirlo, ma tutto quello che M5s vorrebbe fare proprio non va».

Sul lavoro Italia ancora in ritardo

Sul lavoro Italia ancora in ritardo

di Massimo Blasoni

Il mercato del lavoro è in grande mutamento. L’innovazione tecnologica rende già oggi molte professioni automatizzabili e la rivoluzione digitale cambia molti dei modelli a cui eravamo abituati. Purtroppo da noi le regole sull’occupazione continuano invece a restare rigide. A sottolineare questo e altri aspetti sono i dati appena pubblicati nel report annuale del World Economic Forum.

Relativamente all’efficienza del mercato del lavoro, su 140 Paesi censiti risultiamo 79esimi al mondo e quart’ultimi in Europa. Per quanto riguarda la collaborazione tra impresa e lavoratore e il legame tra salari e produttività, il report ci attribuisce un ranking pessimo a livello europeo, inferiore a quello di Portogallo e Polonia. Ci collochiamo oltre il centesimo posto anche quanto alla facilità nelle pratiche di assunzione. I nostri contratti restano poi più parametrati alla quantità di tempo impiegata dal lavoratore che non al numero e all’efficienza delle prestazioni rese in quel medesimo tempo.

La scarsa flessibilità nella determinazione dei salari si accompagna inoltre a un’elevata tassazione del lavoro: il cuneo fiscale ci schiaccia al 100esimo posto su 140. Non dobbiamo quindi sorprenderci se non riusciamo a trattenere i nostri talenti né tantomeno a attrarne di nuovi.

Si potrebbe sospettare che l’autorevole studio del WEF sia troppo severo ma la bassa crescita dell’occupazione in Italia rispetto al 2007 (ultimo anno pre-crisi) conferma purtroppo le sue analisi. È vero che rispetto ad allora abbiamo 130mila occupati in più ma questo dato impallidisce di fronte all’aumento, nello stesso periodo di tempo, dei lavoratori in Germania (+2 milioni e 300 mila) e in Gran Bretagna (+1 milione e 600 mila).

Possiamo consolarci osservando come rispetto all’anno scorso il nostro mercato del lavoro abbia scalato, in termini di efficienza ed efficacia, 37 posizioni nella graduatoria internazionale e 3 in quella europea. È senz’altro una nota positiva, ma molto resta ancora da fare.