lavoro

Italia al penultimo posto in Europa per crescita della produttività del lavoro: +0,14% medio annuo tra il 2010 e il 2016

Italia al penultimo posto in Europa per crescita della produttività del lavoro: +0,14% medio annuo tra il 2010 e il 2016

Tra il 2010 e il 2016 la produttività del lavoro in Italia è aumentata solamente dello 0,14% medio annuo, il dato peggiore in assoluto dopo quello della Grecia (-1,09%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione dei dati Ocse contenuti nel report Compendium of productivity indicators 2018.

Va detto che in questo periodo di tempo la crescita della produttività del lavoro, misurata come Pil per ora lavorata, è stata debole in Italia così come in molti altri Paesi europei. Incrementi superiori al 2% medio annuo si sono registrati solamente in Lituania (2,03%), Slovacchia (2,12%), Polonia (2,23%), Lettonia (2,73%) e Irlanda (6,12%). Nel Regno Unito la crescita del Pil per ora lavorata è stata solamente dello 0,23% medio annuo, in Francia dello 0,84%, in Spagna dell’1,03% e in Germania dell’1,04%.

Dal 2001 al 2007 l’Italia era addirittura ultima in questa particolare classifica con una flessione pari a -0,01% medio annuo, l’unico segno meno tra tutti i Paesi considerati. Il Pil per ora lavorata cresceva invece molto di più in Lettonia (8,14% medio annuo), Lituania (6,36%) ed Estonia (6,01%). Sotto all’1,5% invece la Germania (1,33% medio annuo), la Francia (1,21%) e la Spagna (0,49%).

I Paesi che hanno quindi perso più posizioni tra la classifica del 2001-2007 e quella del 2010-2016 sono l’Ungheria (-15 posizioni) e la Grecia (-13), seguite a ruota dal Regno Unito (-10). Hanno invece scalato la classifica la Spagna (+15 posizioni), la Germania (+12) e la Francia (+7). L’Italia è invece salita di una sola posizione, più precisamente dall’ultimo al penultimo posto.

Nel Regno Unito, così come in Italia e Spagna, la crescita del Pil per ora lavorata negli ultimi anni è stata sostenuta principalmente dall’aumento dell’occupazione. Basti pensare che nell’ultimo quinquennio l’incremento di posti di lavoro in attività con produttività inferiore alla media è stato da 2 a 4 volte più alto di quello in comparti con produttività superiore alla media.

In molti Paesi europei la produttività stenta quindi a decollare. Tra le determinanti si annovera ad esempio la bassa quota di investimenti in prodotti di proprietà intellettuale. Nel 2016 (ultimo dato disponibile) in Italia quest’ultimi erano pari solamente al 16,6% del totale mentre in Danimarca e Svezia erano superiori al 26% e in Irlanda oltrepassavano addirittura il 56%. Sempre nello stesso anno in Francia si investiva per questa voce una quota pari al 24,3% del totale, in Regno Unito il 19%. In fondo alla classifica Lettonia, Polonia e Slovacchia con valori di poco superiori al 7%.

Per quanto riguarda invece gli investimenti in attività di Ricerca e Sviluppo, altra importante determinante della crescita della produttività, l’Irlanda nel 2016 contava investimenti per questa voce pari al 38,7% del totale, contro il 3% di alcuni Paesi dell’Est Europa, il 7,3% dell’Italia, l’8,2% della Grecia e il 9,8% del Regno Unito. La Svezia (18,1%) si situava al secondo posto in classifica, sebbene con 20 punti percentuali di distacco rispetto all’Irlanda. A seguire Danimarca (14,8%) e Germania (13,8).

«Se durante gli anni Novanta la produttività in Italia cresceva a un tasso medio annuo paragonabile a quello delle principali economie europee, nel decennio successivo è cresciuta di meno con una contrazione ulteriore a partire dal 2008» spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «I motivi di questa scarsa crescita sono legati alla formazione, all’innovazione tecnologica ma anche all’intensità dell’impegno al lavoro. Non vanno inoltre dimenticati i rapporti economici non sempre limpidi tra Stato e sistema produttivo. Talvolta l’aiuto statale si è rivelato più un salvagente di situazioni di per sé già critiche che un incentivo all’innovazione o alla crescita dimensionale».

Efficienza del mercato del lavoro: Italia ancora ultima in Europa

Efficienza del mercato del lavoro: Italia ancora ultima in Europa

Nonostante l’impatto positivo del Jobs Act, il mercato del lavoro italiano resta ultimo per efficienza tra i 28 membri dell’Unione europea e 116esimo su 137 censiti nel mondo. Pur guadagnando nell’ultimo anno 3 posizioni nella graduatoria internazionale, in termini di efficienza ed efficacia si colloca ancora dietro a quello di Paesi come Sierra Leone, Zimbabwe e Isola di Capo Verde. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati contenuti nel “The Global Competitiveness Report 2017-2018” pubblicato dal World Economic Forum.

L’indicatore dell’efficienza è un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro mercato del lavoro attraversa, nonostante il miglioramento registrato negli ultimi due anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, nelle retrovie della classifica europea.

Per quanto concerne ad esempio la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro siamo al 102mo posto al mondo e quart’ultimi tra i Paesi dell’Europa a 28 (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Olanda e Svezia). Restiamo invece al 131esimo posto al mondo e terz’ultimi in Europa per flessibilità nella determinazione dei salari, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo (nonché 125esimo nel mondo) per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: in Europa siamo 21esimi (e 127esimi nel mondo) per quanto riguarda l’effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro (facciamo peggio di Paesi come Lettonia, Lituania e Portogallo). Anche la scarsa efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: per quanto riguarda questo aspetto perdiamo tre posizioni nel mondo (adesso siamo 127esimi) e restiamo quart’ultimi in Europa, mentre recuperiamo appena una posizione con riferimento alla capacità di trattenere talenti (106esimi nel mondo e 20esimi in Europa) e di attrarre talenti (104esimi nel mondo e 18esimi in Europa).

«Il nostro mercato del lavoro – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – contiene difetti strutturali che possono essere risolti solo con politiche di medio-lungo periodo. Invertendo la tendenza all’irrigidimento delle regole che si era verificata con la cosiddetta Riforma Fornero, il Jobs Act è stato un primo passo nella giusta direzione ma non è stato sufficiente a risolvere da solo i problemi di competitività del nostro sistema. Adesso occorre favorire un processo di innovazione anche sul versante della contrattazione e della produttività, incoraggiando contratti di prossimità e un maggior rapporto tra salari e produttività, anche e soprattutto attraverso regimi fiscali di favore nei confronti di accordi che premiano risultati ed efficienza».

Lavoro: in Italia i cittadini extracomunitari trovano lavoro più facilmente dei nostri connazionali

I Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali si contano sulle punte delle dita di una mano. E l’Italia è uno tra questi. Secondo una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati Eurostat 2016, il tasso di occupazione dei cittadini italiani tra i 15 e i 64 anni residenti nel nostro Paese è del 57,0%, un dato che ci accomuna alla Croazia e che risulta nettamente inferiore alla media sia dell’Unione a 28 membri (67,1%) sia dell’area Euro (66,1%). In tutta Europa soltanto la Grecia (52,0%) ha un mercato del lavoro meno efficiente del nostro. In questa particolare classifica siamo quindi nettamente superati da tutti i nostri principali competitor: Svizzera (82,5%), Germania (76,5%), Olanda (75,6%), Regno Unito (73,8%), Portogallo (65,3%), Francia (65,2%), Irlanda (64,7%) e Spagna (59,9%).

Se si prende in considerazione la percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, la posizione in classifica del nostro Paese vola invece verso l’alto, dal penultimo al sedicesimo posto: il nostro 57,8% risulta infatti largamente superiore alla media sia dell’Unione a 28 membri (53,7%) sia dell’area Euro (52,5%).

Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Oltre all’Italia, solo altri tre Paesi europei hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta di Repubblica Ceca (-3,8 punti percentuali), Slovenia (-0,9) e Grecia (-0,3). Un dato che stride con la media sia dell’Unione a 28 membri (+13,4 punti percentuali) sia dell’area Euro (+13,6). In tutto il resto d’Europa la differenza, espressa sempre in punti percentuali, risulta infatti a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame: Portogallo (+1,0), Spagna (+6,2), Irlanda (+7,2), Regno Unito (+12,5), Svizzera (+17,8), Francia (+20,9), Germania (+24,8) e Olanda (+26,3).

«La cosa che veramente stupisce è il basso tasso d’occupazione dei nostri lavoratori» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro. «Non è immaginabile una grande potenza industriale con numeri di questo livello. Ma in quadro economico così fragile e con una ripresa tanto debole, è anche sorprendente riscontrare che il tasso d’occupazione dei residenti extracomunitari sia addirittura superiore a quello dei nostri connazionali. Un’anomalia che, almeno in parte, dipende dalla disponibilità di questi lavoratori ad accettare occupazioni che ormai gli italiani si rifiutano di prendere in considerazione. Ma questo non spiega tutto. Il nostro mercato del lavoro sconta un disallineamento strutturale tra offerta formativa e fabbisogni occupazionali delle aziende. E i nostri giovani sono costretti a percorsi di studio che li portano ad entrare tardi e male nel mercato del lavoro, rimanendo inoccupati per lunghi periodi di tempo».

Quanto ci costano i ritardi della Giustizia

Quanto ci costano i ritardi della Giustizia

Quanto costano i ritardi della giustizia in Italia? Quanto incide l’inefficienza giudiziaria sull’economia reale del Bel Paese? Una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro ha tentato di quantificare l’impatto negativo della lunghezza dei processi e dell’arretrato di cause pendenti su variabili chiave come l’attrattività degli investimenti esteri, la nascita e lo sviluppo delle imprese italiane, la disoccupazione e i volumi del credito bancario.
Il punto di partenza dell’analisi è la posizione piuttosto arretrata dell’Italia nelle varie classifiche internazionali che considerano le variabili chiave utili a misurare sotto vari punti di vista l’efficacia della macchina giudiziaria. Un rapido confronto tra Paesi è possibile, ad esempio, grazie alla base dati armonizzata Cepej-Stat, messa a disposizione dalla Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa; risultati analoghi, tuttavia, trovano conferma nei dati Doing Business incrociati con le statistiche di Eurostat.
In particolare gli ultimi dati, benché riferiti al 2014, permettono di inquadrare il problema nella sua gravità. Prendendo in considerazione le sole cause civili e di diritto commerciale, all’ultima rilevazione rimanevano in attesa di giudizio, in Italia, oltre 2 milioni e 758 mila processi: un record assoluto per tutti i Paesi dell’Europa allargata, in grado di mettere in secondo piano il milione e mezzo di cause pendenti in Francia e le 750 mila scarse della Germania. Il dato assoluto è riferito ai soli processi di primo grado, ed è fortunatamente in calo rispetto agli anni precedenti. Sta di fatto che a fine anno rimangono pendenti, in termini relativi, 45 processi ogni mille abitanti in Italia contro i 24 della Francia, i 18 della Spagna e i soli 9 della Germania.

Il peso dell’arretrato si riflette anche nella minore capacità del nostro Paese, nonostante gli sforzi, di far diminuire l’indicatore della durata media dei processi: per noi fluttua attorno all’anno e mezzo a prescindere dal periodo di rilevazione. In termini comparati, i 532 giorni medi necessari per le sentenze di primo grado sono sostanzialmente il doppio rispetto alla media europea e hanno pochi eguali se si pensa che con la sola eccezione di alcuni Paesi dell’Est e di Malta tutti gli ordinamenti se la cavano con durate (ampiamente) inferiori all’anno. Analisi più estese, che tengono in considerazione anche il secondo e terzo grado di giudizio (dati non sempre confrontabili tra Paesi, stanti le diversità esistenti tra i vari ordinamenti giuridici), mostrerebbero numeri ancor più impietosi: da noi servono quasi tre anni, in media, per gli appelli e altri tre e mezzo per i giudizi in cassazione.

Prendendo in considerazione le ricadute squisitamente economiche dell’inefficienza giudiziaria, diversi studi scientifici hanno tentato di catturare in termini numerici la relazione esistente con alcune variabili fondamentali. I risultati sono di assoluto interesse e colgono nel segno rispetto a diversi annosi problemi che presenta la nostra economia.

A migliorare con la rapidità dei giudizi e la riduzione degli arretrati sono ad esempio i tempi di pagamento tra imprese, con tutti i relativi effetti in termini di maggiore liquidità in circolazione, minor numero di insolvenze e minore disoccupazione. Anche i tempi e i costi di recupero dei crediti sono direttamente collegati all’efficacia della giustizia e ciò dovrebbe far riflettere sul problema della valorizzazione e dello smaltimento della montagna di crediti deteriorati accumulati dalle nostre banche. Uno studio basato su un campione di Paesi mostra inoltre che l’efficienza del sistema giudiziario migliora i tassi di imprenditorialità e di innovazione nelle imprese: tutte virtù sulle quali, nuovamente, il nostro Paese arranca.

ImpresaLavoro ha provato a quantificare ulteriori aspetti, partendo inizialmente dal punto di vista di un investitore internazionale. Com’è evidente e assodato in finanza, nell’economia globale l’attenzione dei capitali si rivolge ai Paesi in cui è migliore il rapporto tra redditività attesa e livello di rischio. Se non supportata da solide prospettive di crescita, la possibilità di creare valore per le imprese passa certamente da una riduzione degli elementi di incertezza: quelli di tipo giudiziario pesano, eccome, e sono in grado di frenare in modo netto il flusso di investimenti nei Paesi meno efficienti come il nostro.

Se ci riferiamo al caso italiano, la media degli ultimi tre anni evidenzia investimenti netti annui provenienti dall’estero per un magro 0,72 per cento del PIL. Com’è noto, il dato non si riferisce solo alle acquisizioni di nostre imprese da parte di soggetti stranieri, ma all’effettiva apertura di nuovi centri, filiali e strutture in genere da parte dei non residenti: si tratta dunque di nuovi investimenti privati provenienti da investitori internazionali, il cui livello, molto inferiore alla media UE, mostra la scarsa attrattività del nostro Paese. Ebbene, secondo i numeri di un recente studio pubblicato dalla Commissione Europea, la riduzione delle cause pendenti per numero di abitanti è collegata all’incremento di questo tipo di investimenti: per il nostro Paese, portarle al livello della media europea potrebbe di per sé generare afflussi extra dall’estero per un valore tra lo 0,66 e lo 0,86 del Pil (in sostanza tra i 10,8 e i 14,1 miliardi annui: il doppio dell’attuale).

Ma non è l’unica via che contribuirebbe sicuramente a una più sana e robusta crescita del nostro Paese. Ridurre di un quarto i tempi dei tribunali in Italia potrebbe infatti di per sé aumentare il tasso di natalità delle imprese e cioè incrementare il ritmo di nascita di nuove iniziative imprenditoriali di circa 143mila unità all’anno: una volta e mezza il tasso attuale. Lo shock positivo sarebbe ancora più evidente nel caso i tempi si dimezzassero, portandosi dunque alla media europea: la stima in questo caso varia tra le 192 mila e le 240 mila nuove imprese all’anno in più rispetto ai ritmi correnti.
Se si potesse raddoppiare la velocità dei tribunali potremmo attenderci anche una crescita della dimensione delle nostre imprese, per circa l’8,5% in media, come stimato in un raffinato tema di discussione pubblicato da Banca d’Italia. È condiviso inoltre che un sistema giudiziario meno tempestivo fornisce minori incentivi agli investimenti e all’assunzione di nuovo personale, decisioni sulle quali l’incertezza può solo fungere da deterrente. Il dato, peraltro, non è poco rilevante per un Paese come il nostro in cui il 70 per cento del valore aggiunto è prodotto da piccole e medie imprese.

Ma non è finita qui, perché anche dal punto di vista della disponibilità di credito le conclusioni sono altrettanto importanti. Diversi studi hanno esaminato il legame tra tempi della giustizia, costo dei finanziamenti e loro disponibilità presso il canale bancario: secondo le relazioni più significative, raggiungere il livello medio UE nei tribunali potrebbe aprire l’opportunità di nuovi prestiti alle imprese per ben 29,3 miliardi di euro, pari a un aumento del 3,7 per cento rispetto allo stock attuale, in un settore che da anni continua a registrare segni negativi.

E infine, come se non bastasse, anche il mercato del lavoro ne potrebbe beneficiare direttamente. Si pensi che un’analisi di ImpresaLavoro basata sugli ultimi dati del Ministero della Giustizia suddivisi per distretti giudiziari ha individuato in ben 5,7 punti il potenziale di disoccupazione riducibile nel nostro Paese, con riferimento alle aree più disagiate. La stima è del resto coerente, oltre che con tutte le altre variabili economiche sin qui evidenziate, anche con quanto rilevato in un report del Fondo Monetario Internazionale, il quale confermerebbe un incremento di diversi punti della probabilità di impiego in seguito a un tale efficientamento della macchina giudiziaria. Altri studi hanno evidenziato i benefici che si avrebbero, oltretutto, in termini di riallocazione più efficiente e rapida delle risorse umane, di produttività e di maggiore intensità di capitale nelle nostre aziende.

A fronte di tutti questi dati, almeno due elementi emergono al di là di ogni altra considerazione. Il primo è indiscutibile: l’inefficienza giudiziaria agisce come un freno allo sviluppo della nostra economia. Il secondo è più difficilmente quantificabile, ma altrettanto rilevante: ridurre il peso di questa inefficienza potrebbe finalmente liberare un volume importante di potenzialità ancora inespresse.

Dipendenti Pa: sono 3,14 milioni. Regioni a statuto speciale al top per numero in rapporto ai residenti, in Calabria un occupato su 5 è dipendente PA

Dipendenti Pa: sono 3,14 milioni. Regioni a statuto speciale al top per numero in rapporto ai residenti, in Calabria un occupato su 5 è dipendente PA

In rapporto alla popolazione residente i 3 milioni e 142mila dipendenti pubblici italiani sono inferiori a quelli delle altri grandi economie europee ma la loro distribuzione sul territorio nazionale non è affatto omogenea, nemmeno rispetto al numero degli occupati. È questo il dato più significativo che emerge da una ricerca del centro studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Istat e della Ragioneria Generale dello Stato.

A fronte di una media italiana del 5,18%, sono le Regioni a Statuto speciale quelle con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente. A guidare la classifica è infatti la Valle d’Aosta con 11.519 dipendenti, pari al 9,05% dei residenti (bambini e anziani inclusi), davanti al Trentino Alto Adige (78.344 dipendenti, pari al 7,40% dei residenti), Friuli Venezia Giulia (82.380, pari al 6,75% dei residenti) e Sardegna (109.036 dipendenti, pari al 6,58% dei residenti). Segue il Lazio, che sconta l’elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (380.284 dipendenti pari al 6,46% dei residenti).

In fondo a questa particolare classifica si collocano invece regioni più popolate ed economicamente più sviluppate come la Lombardia (4,02%) e il Veneto (4,51%). Al di sotto della media nazionale troviamo anche Campania (4,82%), Piemonte (4,86%), Emilia Romagna (5%), Puglia (5%) e Marche (5,17%).

La classifica elaborata da ImpresaLavoro cambia piuttosto nettamente se si prende in esame il rapporto tra il numero dei dipendenti pubblici e quello degli occupati. Al primo posto troviamo la Calabria, con il 22,03% (più di 1 su 5). Subito dietro si colloca la Valle d’Aosta, con il 21,01% degli occupati che vengono retribuiti con denaro pubblico. In cima a questa classifica compaiono principalmente le regioni del Mezzogiorno, con un’incidenza dell’impiego pubblico di gran lunga superiore alla media nazionale (13,99%): Sicilia (19,95%), Sardegna (19,30%), Molise (18,06%), Campania (17,89%), Basilicata (17,87%) e Puglia (17,42%) seguite a distanza ravvicinata dal Friuli Venezia Giulia (16,62%) che registra uno dei valori più alti di tutto il Centro-Nord. In coda alla classifica troviamo invece Lombardia (9,44%), Veneto (10,80%), Emilia-Romagna (11,59%) e Piemonte (11,90%).

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, in rapporto al numero dei residenti solo la Valle d’Aosta ha una percentuale di dipendenti pubblici (9,05%) superiore a quella di Francia (8,50%) e Regno Unito (7,90%). Mentre la media italiana (5,18%) risulta più bassa di quella di Spagna (6,40%) e Germania (5,70%), con 11 Regioni italiane che vantano un tasso di presenza dei dipendenti pubblici inferiore alla media tedesca.

Le cose cambiano, ma solo marginalmente, quando ImpresaLavoro prende in esame il numero di dipendenti pubblici in rapporto al numero degli occupati. In questo caso, solo le percentuali di Calabria e Valle d’Aosta sono superiori a quella della Francia (20%). La percentuale di dipendenti pubblici in Italia (13,99%) è invece inferiore a quella di Regno Unito (17%) e Spagna (16%), superando solamente il dato della Germania (11%).

Contenziosi in materia di lavoro: con una durata pari alla media europea, disoccupazione giù di 5,7 punti percentuali

Contenziosi in materia di lavoro: con una durata pari alla media europea, disoccupazione giù di 5,7 punti percentuali

La disoccupazione in Italia potrebbe calare di 5,7 punti percentuali se solo i contenziosi in materia di lavoro avessero una durata in linea con la media europea (e quindi dimezzata). Il dato emerge da una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro che approfondisce le interessanti indicazioni emerse in materia di disoccupazione e lunghezza dei processi sul lavoro dagli “Staff Report, Article IV Consultation / Italy” pubblicati annualmente dal Fondo Monetario Internazionale.

Nel report dell’anno 2014 l’organismo sovranazionale sosteneva che un dimezzamento dei tempi dei processi per lavoro in Italia avrebbe aumentato le probabilità di impiego di circa l’8 per cento. Secondo il FMI, infatti, il nostro sistema giudiziario, da sempre molto più lento della media europea, avrebbe necessitato già al tempo di misure più opportune rispetto al mero incremento dei costi del giudizio, quali la promozione e l’uso dei sistemi alternativi di risoluzione delle controversie, una razionalizzazione del tipo di cause che trovavano accesso al terzo grado di giudizio, l’introduzione di indicatori di performance per tutti i tribunali nonché la condivisione di best practice regionali.

Nell’ultimo report, pubblicato a luglio 2016, l’ente sovranazionale ha indicato nuovamente tra le linee guida per l’Italia la necessità di mettere in atto ulteriori riforme al sistema giudiziario, apprezzando comunque le azioni adottate di recente per il miglioramento della qualità del sistema stesso con conseguente riduzione della durata media dei processi.

In Italia la durata media delle cause è di un anno e 2 mesi, come risulta a ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati dal Ministero della Giustizia. Va precisato che quest’ultimo, rispetto alle precedenti pubblicazioni, ha variato la modalità di divulgazione dei dati quindi il confronto attuale è diverso da quello che è stato possibile effettuare in passato. Il calcolo dell’indicatore di lunghezza media complessiva è comunque aggiustato sulla base dei suggerimenti provenienti dalla letteratura scientifica, che considerano anche l’effettiva percentuale di cause che si interrompono dopo il primo grado. In particolare, sono state considerate le rilevazioni ufficiali riferite ai 26 distretti giudiziari italiani negli anni 2014-2016: numero di nuovi procedimenti, numero di procedimenti conclusi e numero di procedimenti ancora pendenti. I dati sono stati successivamente incrociati con quelli relativi alla disoccupazione su base territoriale rilevata dall’Istat per l’anno 2015.

La correlazione tra la lunghezza dei processi per contenziosi in materia di lavoro e il tasso di disoccupazione è dimostrata dall’analisi del divario in termini di efficienza nei singoli distretti giudiziari. Si oscilla dai 6 mesi di Trento (con un tasso di disoccupazione del 6,8%) e dagli 8 mesi di Genova e Trieste (con tassi di disoccupazione rispettivamente dell’8,3% e dell’8,1%) per arrivare ai 2 anni e 2 mesi di Messina (con il 22,5% di disoccupazione). A Milano, dove la disoccupazione è all’8%, il tempo medio delle cause per lavoro è di 7 mesi. La lunghezza dei contenziosi è invece superiore ai 2 anni anche a Catanzaro (22,4% di disoccupazione) e a Catania (16,2% di disoccupazione). In questa particolare classifica è proprio il Sud Italia a uscirne più penalizzato con valori sistematicamente più alti della media nazionale per entrambe le variabili prese in considerazione. La durata di questo tipo di processi supera infatti l’anno e mezzo a Cagliari (1 anno e 7 mesi), a Bari e a Potenza (1 anno e 8 mesi), a Reggio Calabria (1 anno e 9 mesi) e a Caltanissetta (1 anno e 10 mesi).

«Per chi vuole investire e fare impresa, il fattore tempo è invece un elemento decisivo per determinare la riuscita o il fallimento della propria attività» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «I mesi, molto spesso gli anni, trascorsi nell’attesa di definire cause e contenziosi giudiziari costituiscono costi rilevantissimi che vanno quantificati in posti di lavoro persi e minore ricchezza. Il cattivo funzionamento della nostra giustizia civile e amministrativa è un danno per tutti: spaventa gli investitori (stranieri e non), deprime gli sforzi degli imprenditori onesti e condanna il Paese al declino economico».

E se non fosse il sistema duale tedesco la soluzione formativa per Industry 4.0?

E se non fosse il sistema duale tedesco la soluzione formativa per Industry 4.0?

massagli

MASSAGLI E., Alternanza formativa e apprendistato in Italia e in Europa, Studium, Roma, 2016

La monografia di Emmanuele Massagli è preziosa sotto molteplici punti di vista. In primo luogo aiuta il lettore, sia esso un addetto ai lavori o un semplice curioso, a conoscere nel dettaglio le peculiarità del modello duale tedesco, ovvero il più citato e lodato sistema formativo dell’Occidente, l’unico capace di garantire crescente occupazione giovanile anche in questi anni di crisi economica.

Il prof. Massagli non si ferma però alla analitica descrizione delle caratteristiche positive, ma, in secondo luogo, dedica ampio spazio anche alla riflessione sulle ombre dell’apprendistato germanico. In particolare l’Autore osserva i limiti di questo modello in un mercato del lavoro sempre più orientato alla conoscenza, alla adattabilità, alla frammentazione dei percorsi lavorativi.

Le imprese hanno meno bisogno che in passato di lavoratori addestrati a mansioni specifiche e cercano collaboratori capaci di affrontare il cambiamento, imparare continuamente, pensare lateralmente. Ecco la tesi dell’Autore: se l’apprendistato inteso come politica di contrasto alla disoccupazione giovanile non è in grado di fare emergere queste competenze, l’apprendistato inteso come dispositivo didattico del metodo della alternanza formativa è invece la più efficace strategia pedagogica per formare il lavoratore del futuro. Occupabile non perché riempito di nozioni tecniche specifiche, ma perché persona integralmente formata, tanto “in teoria”, quanto “in pratica”. Ulteriore passaggio: è quindi assolutamente giustificata la crescente attenzione politica verso l’alternanza tra formazione e lavoro, uno dei capitoli principali della recente riforma La Buona Scuola.

Tenendo però fermo il “nota bene” esplicitato da Massagli: «l’operazione di affermazione del metodo dell’alternanza è impossibile da innestarsi in un sistema scolastico concepito alla radice secondo altri principi, diventati dogmatici col tempo. L’imposizione di legge è sterile negli effetti e, anzi, più facilmente si trasformerà in ostacolo se la preoccupazione dei dirigenti scolastici sarà polarizzata dalla burocratica necessità di adempiere l’obbligo e non dalla pedagogica attenzione alla costruzione di percorsi realmente formativi». La sfida del futuro è allora quella di ripensare la scuola e la formazione professionale italiana riscoprendo la centralità della alternanza formativa (e, quindi, dei tanti dispositivi che la concretizzano) in ogni processo che voglia essere profondamente educativo.

Lavoro: mercato italiano ancora ultimo per efficienza in Europa

Lavoro: mercato italiano ancora ultimo per efficienza in Europa

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 119esimo su 138 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si colloca infatti subito dopo quello dell’Honduras, del Brasile, dell’Isola di Capo Verde e del Kuwait. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati contenuti nel “The Global Competitiveness Report 2016-2017” pubblicato dal World Economic Forum.

efficienzalavoro2

Il Jobs Act continua ad avere un impatto positivo sulla complessiva performance del nostro sistema: anche nell’ultimo anno l’efficienza del nostro mercato del lavoro è migliorata a livello mondiale, passando dalla 126esima alla 119esima posizione. Nonostante questo segnale positivo, però, il nostro continua a restare il mercato del lavoro meno efficiente tra i 28 paesi dell’Unione Europea.
L’indicatore dell’efficienza è un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro mercato del lavoro attraversa, nonostante il lieve miglioramento registrato negli ultimi due anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, nelle retrovie della classifica europea.

Per quanto concerne ad esempio la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro siamo al 111mo posto al mondo e penultimi tra i Paesi dell’Europa a 28 (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Svezia e Olanda). Siamo invece al 131esimo posto al mondo e quart’ultimi in Europa per flessibilità nella determinazione dei salari, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo (nonché 127esimo nel mondo) per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: in Europa siamo 22esimi (e 130esimi nel mondo) per quanto riguarda l’effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro (facciamo peggio di Paesi come Lituania, Polonia e Portogallo). Anche la scarsa efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: per quanto riguarda questo aspetto siamo 124esimi nel mondo e quart’ultimi in Europa, mentre recuperiamo qualche posizione con riferimento alla capacità di trattenere talenti (107esimi nel mondo e 21esimi in Europa) e di attrarre talenti (105esimi nel mondo e 18esimi in Europa).

efficienzalavoro3

«Il nostro mercato del lavoro – commenta Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro – ha certamente difetti strutturali che possono essere risolti solo con politiche di medio-lungo periodo. Il Jobs Act ha invertito la tendenza all’irrigidimento delle regole che si era verificata con la cosiddetta Riforma Fornero, generando un positivo effetto sulla nostra competitività. Adesso è importante favorire un processo di innovazione anche sul versante della contrattazione e della produttività, incoraggiando contratti di prossimità e un maggior rapporto tra salari e produttività, anche e soprattutto attraverso regimi fiscali di favore nei confronti di accordi che premiano risultati ed efficienza».

 

La battaglia per le libertà nelle economie costituzionali

La battaglia per le libertà nelle economie costituzionali

Tra breve gli italiani saranno chiamati ad esprimersi su una riforma costituzionale approntata né da un’assemblea eletta a questo scopo né da una forte maggioranza di parlamentari eletti, ma nominati dalle segreterie dei partiti. Può essere utile, nelle circostanze, leggere alcuni paper recenti di storici dell’economia. Interessante l’articolo di Luke Norris della Facoltà di Giurisprudenza della Columbia University “Consitutional Economics:Lochner, Labor and the Battle for Liberty” apparso nell’ultimo fascicolo del Journal of Law & the Humanities. Lochner, e il Lochnerismo, sono poco noti agli italiani. Il “caso” Lochner si riferisce ad una sentenza del 1905 della Corte Suprema Usa. Il caso riguardava la costituzionalità di una legge sul lavoro dello Stato di New York in base alla quale un lavoratore di un forno per produrre pane non potesse lavorare più di dieci ore al giorno per un totale di sessanta ore la settimana. La Suprema Corte respinse la tesi a maggioranza (cinque su quattro), secondo la quale la norma era necessaria per proteggere la salute del lavoratore; anzi la considerò “un’interferenza non necessaria, irragionevole ed arbitraria nei riguardi della libertà contrattuale degli individui”.

Da allora – ci ricorda Norris – è passato più di un secolo. Nei primi venticinque anni dalla sentenza, la Corte Suprema dichiarò incostituzionali numerose legge federali o statuali dirette a regolare le condizioni ed i rapporti di lavoro. In parallelo, la Corte Suprema cominciò ad utilizzare il Quattordicesimo Emendamento alla Costituzione Americana per tutelare la libertà di parola e la privacy. La svolta avvenne nel 1937, subito dopo la Grande Depressione, nella vertenza West Coast Hotel Co versus Parrish quando la Corte Suprema adottò un punto di vista più espansivo dell’intervento regolatorio. Non, però, in senso statalista: mentre la sentenza Lochner si basava su una visione della libertà che premiava la libertà “da”, dal 1937 hanno prevalso sentenze sulla libertà “di”. Negli Usa il cambiamento è stato incoraggiato anche dai sindacati che lo hanno associato alla libertà di associazione repubblicana nella sfera politica. La libertà “di” in una sfera come il luogo di lavoro e stata gradualmente estesa ad altre sfere e ha trasformato il diritto costituzionale americano.

Sacconi (Ap): “Banche, ripensare relazioni di lavoro per migliorare competenze e tutele”

Sacconi (Ap): “Banche, ripensare relazioni di lavoro per migliorare competenze e tutele”

Maurizio Sacconi*

“Nel momento in cui risulta sempre più difficile guadagnare facendo credito, le banche sono impegnate ad utilizzare appieno le nuove tecnologie e ad asciugare gli alti costi operativi che le caratterizzano. Si impone quindi la necessità di una forte politica di gestione del cambiamento attraverso importanti investimenti nelle competenze e nuovi modelli di salvaguardia dei lavoratori anziani in esubero. Da un lato sarà presto necessario ripensare il contratto nazionale e, dall’altro, utilizzare quanto più gli accordi aziendali e individuali per introdurre il lavoro agile a risultato, cambiare la struttura della retribuzione, garantire formazione continua e tutela delle professionalità. Gli stessi fondi di accompagnamento alla pensione potranno essere ripensati quali fondi complementari facendo entrare le aziende di credito nel sistema degli ammortizzatori sociali pubblici”. Lo ha dichiarato il Presidente della Commissione lavoro del Senato Maurizio Sacconi intervenendo all’Abi Forum HR 2016 “Banche e risorse umane”.

*Presidente della Commissione Lavoro e Previdenza Sociale del Senato