lavoro

Poveri ricchi

Poveri ricchi

Davide Giacalone – Libero

La notizia più modaiola è che Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’economia ed esponente del Partito democratico, non usa twitter. Le notizie di sostanza sono più succose: a. chi guadagna 3500 euro netti al mese è da considerarsi ricco; b. la pressione fiscale crescerà, se non altro cancellando le detrazioni; c. al governo studiano come prendere soldi ai pensionati e ai lavoratori (considerati) ricchi. Già che ci si trova, Baretta, non solo non segue i cinguettii, ma neanche legge i giornali, dato che annuncia vita difficile per gli evasori, essendogli sfuggito che la nuova direttrice dell’Agenzia delle entrate (nominata dal governo di cui lui non si è accorto di fare parte) ha già detto che molti dei crediti fiscali contabilizzati sono da considerarsi inesigibili. Immaginari. Non varrebbe la pena di occuparsene, se non fosse che le parole di Baretta, rilasciate a La Stampa, sono la più semplice e chiara spiegazione del perché gli 80 euro elargiti dal governo non hanno funzionato: perché non puoi incentivare la fiducia e terrorizzare al tempo stesso. Fra le due cose prevale la seconda. E queste parole sono da terrore fiscale.

Baretta crede di dire una cosa giusta quando afferma: «i redditi più alti dovranno contribuire» all’uscita dalla crisi. È un record di sintesi e di errori. Punto primo, i redditi più alti pagano da lustri tasse da esproprio. Se la coniugazione al futuro del verbo significa che si vuol chiedere ancora di più la sola conseguenza logica di un tale atteggiamento è la fuga all’estero di chi può permetterselo. E molti produttori lo hanno fatto e vieppiù lo faranno, sollecitati da tali sconsideratezze. Punto secondo, se per uscire dalla crisi si pensa di togliere ancora di più ai contribuenti, per dare a una spesa pubblica che non riesce a limitarsi e a un debito pubblico che continua a crescere, vuol dire che non si è capito un accidente non solo di quel che è già successo, ma di ciò che sta succedendo ovunque non abbiano venduto il cervello al satanismo fiscale: si esce dalla crisi restituendo libertà e soldi ai cittadini, non facendo il contrario. Baretta, quindi, ripetendo il luogocomunismo dello statalismo nemico del benessere, crede di dire cose scontate, ma è scontato che sono cose mortali.

A questo si aggiunga il bel pernacchio a Matteo Renzi e ai suoi “#madeche”, dato che lo smentisce e conferma che il governo sta studiando il modo di prendere ancora soldi dalle pensioni. Solo che, badate bene, non lo fa adducendo la motivazione della distanza fra i contributi versati e la rendita che si riscuote, il che ha ancora un senso, ma stabilendo che i ricchi devono pagare. A prescindere. Ed è certamente ricco chi prende 3.500 euro al mese. Quindi si è ricchi anche con di meno. Baretta ha mai mantenuto una famiglia che non sia a sua volta mantenuta dallo politica o dal sindacato? Definire ricco chi ha un reddito netto annuo di 42.000 euro è un insulto. È segno che chi parla non ha idea di quanto valga il denaro e quanto ne serva per campare. Se si definisce ricco quel livello è segno che si anela un’Italia in cui trionfi la miseria.

Non contento ci fa sapere che sul tavolo del governo si studia come aumentare le tasse, tagliando le detrazioni. E qui arriviamo al dunque: ecco perché la regalia propagandistica degli 80 euro (comunque sbagliata) non funziona, perché chi la riceve sa che gli sarà tolta dalla stessa mano che finge di donare. Baretta conferma. E chi è onesto, come la gran parte degli italiani, tende a tenere i soldi e restare pronto per quando andranno a chiederglieli. Con il che ti saluto la ripresa dei consumi.

La ciliegina sulla torta arriva alla fine: Alessandro Barbera (complimenti per la bella intervista) gli domanda se si riuscirà mai a vendere patrimonio pubblico per abbattere il debito, e Baretta il grande (non dico cosa) gli risponde che il ministro della difesa ha già firmato un accordo con tre grandi comuni, per la cessione di aree, il giornalista gli fa osservare che in quel modo si passa dallo Stato ai comuni e non si vende nulla, e Baretta l’immenso asserisce: il patrimonio va valorizzato. Uno così va subito tolto da dove si trova e spedito a Pompei. Non certo perché saprebbe valorizzare alcunché, ma perché non potrebbe fare più danni di quanti già non ne fanno l’incuria e il tempo.

Vecchie ricette

Vecchie ricette

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Nonostante l’aggiustatina che droga e mignotte potranno dare al pil, il governo rimane a caccia di 20-25 miliardi. La legge di stabilità puntava sul contenimento della spesa, ma dalla spending review non sono arrivati, né arriveranno, i risparmi desiderati, per cui ecco che dal cilindro di ferragosto escono, more solito, tagli ai salari e alla previdenza per tenere il deficit sotto la soglia del 3 per cento. Il tutto condito con l’ennesima puntata – temo non l’ultima – della fiction intitolata “articolo 18” e il solito balletto di dichiarazioni contrastanti tra diversi esponenti del medesimo governo. Non so se andrà davvero cosi, ma se fosse si tratterebbe di una grande delusione e di un grave errore di politica economica. Delusione perché non c’era bisogno del rottamatore armato di inedito vigore giovanilista per mettere in campo pratiche vecchie e già rese obsolete da chi le ha praticate in precedenza non cavando un ragno dal buco, anzi. Ma, soprattutto, ci troveremmo di fronte al gravissimo errore – economico, sociale, politico, di psicologia collettiva – di tornare a spremere il ceto medio che, come ha notato con efficacia Dario Di Vico sul Corriere, ha invece bisogno di continuare a credere di potercela fare a uscire dal pantano recessivo e deflattivo in cui siamo, pena il ritorno di quella depressione che fin qui si è mangiata i consumi e ha azzerato gli investimenti. E saremmo di fronte a una “spremitura” non solo insensata – non si esce dalla crisi punendo il ceto produttivo, sia esso lavoratore dipendente, professionista o imprenditore – ma anche contraddittoria, perché tutti i proclami della politica negli ultimi mesi sono andati in direzione opposta.

Non è un caso che il governo Renzi, primariamente, abbia voluto caratterizzarsi con la manovra degli “80 euro”. Dunque, e assurdo dare con una mano – senza neppure avere la copertura di spesa – nella speranza, peraltro poco fondata, di rimettere in moto la domanda interna, e poi prendere con l‘altra. E questo vale sia per l’eventuale intervento sugli stipendi della pubblica amministrazione, sia per il cosiddetto prelievo sulle pensioni d’oro. Nel primo caso, il tema non e quello di togliere (0 non dare più) un po’ a tutti – secondo la deleteria logica dei tagli lineari, ancor più devastanti laddove c’e maggior bisogno di meritocrazia – ma di rendere efficienti le amministrazioni riparametrando il numero degli addetti. Questo significa trasferire dipendenti da un’amministrazione a un’altra? Ottima cosa. Questo significa mandare a casa un po’ di persone? Spiacevole, ma necessario. E se poi ciò dovesse avvenire sia trasferendo al privato funzioni non strategiche ora nel pubblico (e ce ne sono tante), restringendo così il perimetro funzionale dello stato centrale e periferico, sia per via di una coraggiosa semplificazione del nostro elefantiaco e fallimentare decentramento amministrativo, ancor meglio.

Quanto alla previdenza, pensare di considerare “ricchi”, e quindi da spremere, i pensionati che stanno sopra i 2 mila euro lordi (ma anche con l’altra cifra che circola, 3.500 euro, sempre lordi, il discorso non cambierebbe), è stupido, prima ancora che profondamente sbagliato. E lo sarebbe, sbagliato, anche se l’asticella che individua l’area di prelievo si alzasse di molto. Non solo perché in quest’ultimo caso si rastrellerebbero risorse infinitesimali, ma perché non è dai redditi, per quanto alti, che si deve provare a ricavare ciò che serve a risistemare – specie se lo si vuole fare una volta per tutte – la baracca dei conti pubblici. No, l’obiettivo deve essere, e senza intenti punitivi, il patrimonio. Prima di tutto quello pubblico, sul quale occorre costruire una modalita di “sfruttamento” – cui chiamare a concorrere quello privato, con l’obbligo di acquisto di nuovi titoli e non con prelievi patrimoniali – con ‘intento di ridurre sotto il cento per cento del pil il debito pubblico (e relativi oneri) e ricavare risorse per investimenti in conto capitale. Bini Smaghi dice che si trattercbbe di una manovra pericolosa? Rispetto molto il suo parere, ma non lo condivido. Intanto perché egli critica allo stesso modo tutte le ipotesi di intervento sul debito, dal consolidamento alla patrimoniale, ma io non propongo né l’una né l’altra. E poi perché pecca di conservatorismo in un fronte che a furia di prudenze ci ha portato ad accumulare 2.168 miliardi di debito, di cui cento solo nel primo semestre di quest’anno. E non è certo con il mestolo degli avanzi primari che si svuota questo enorme pentolone.

Dunque, Renzi – che ha mostrato apprezzabile prudenza verso le ipotesi adombrate da alcuni suoi ministri – nel rimettersi in marcia tralasci questo pericoloso itinerario. Che è anche l’unico modo per uscire vivo dallo scontro sull’articolo 18. Il quale è un tabù che sarebbe meglio cancellare, ma è anche uno strumento, specie dopo la riforma Poletti del contratto a termine, dagli effetti decisamente limitati. Abolirlo sarebbe politicamente efficace, economicamente poco significativo. Ora, delle due l’una: o Renzi ha un piano di rilancio dell’economia vero, e allora può anche fregarsene di toccare l’articolo 18, oppure non ha carte in mano e quello diventa il suo jolly. Io preferisco la prima ipotesi.

Toccare i diritti acquisiti si può. Perché non partire dalla Pa?

Toccare i diritti acquisiti si può. Perché non partire dalla Pa?

Piercamillo Falasca – Il Foglio

Se la politica non riforma l’economia, l’economia riforma se stessa come può. La deflazione è una nuova tappa (quasi da manuale della lunga crisi italiana iniziata nel 2008, un fenomeno di aggiustamento naturale del livello dei prezzi, conseguenza inevitabile della scarsa competitività del sistema produttivo e del calo della domanda interna. Non avendo l’Italia una moneta nazionale, l’aggiustamento non può avvenire con una svalutazione (che solitamente è accompagnata da inflazione): si determina invece il calo dei prezzi di beni e servizi. Non è una buona notizia, e d’altronde non lo sarebbe nemmeno una svalutazione o l’uscita dall’euro, in verità: come tutti gli aggiustamenti di un’economia claudicante, la deflazione miete molte vittime. Si abbatte il reddito delle imprese e con esse il costo del lavoro, calano gli stipendi e aumenta la disoccupazione, con effetti ulteriormente nefasti sulla domanda.

E’ un circolo vizioso, i cui beneficiari di breve periodo sono i percettori di reddito fisso che si avvantaggiano dal calo dei prezzi a cui comprano. Ovviamente non esistono redditi totalmente fissi, se è vero che la deflazione aumenta i rischi di qualsiasi azienda e di qualsiasi rapporto di lavoro, per tutelate che sia. Ma senza dubbio, al tempo della deflazione, c’e chi può dormire sonni più tranquilli di altri: i dipendenti pubblici. E dunque, in un momento in cui perfino alcuni esponenti di governo lasciano intendere di essere disposti a mettere mano ai cosiddetti “diritti acquisiti”, è cosi eterodosso pensare allora che una misura equitativa sarebbe un piccolo taglio medio di tutte le retribuzioni pubbliche – lo 0,5 per cento, ad esempio – per destinare queste risorse pubbliche a investimenti in conto capitale che spingano innovazione, competitività e buona occupazione privata? Mezzo punto percentuale di retribuzioni pubbliche sono poco più di 800 milioni di euro annui, soldi con cui in 4-5 anni costruiremmo banda larga e ammoderneremmo scuole, strade, porti e aeroporti. Sarebbe una piccola grande rivoluzione.

Dal 2001 al 2011, le retribuzioni pubbliche sono aumentate molto più che nel privato (vedi dati Istat e Aran), senza peraltro alcun particolare miglioramento di produttività. Poi si sono fermate, come tutte le altre. Dal 2007 al 2011 il personale pubblico è diminuito dell’1,4 per cento (da 3,43 milioni di unità a 3,28), ma la retribuzione individuale media dei dipendenti a tempo indeterminato è cresciuta del 10 per cento: il taglio è avvenuto con i pensionamenti e la riduzione dei precari, mentre troppi dipendenti e dirigenti hanno goduto della malapratica delle “progressioni orizzontali”. C’è allora margine per un piccolo “sacrificio” da parte dei più garantiti tra i garantiti, i titolari di quei “diritti acquisiti” che anche il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, vuol mettere in discussione, a vantaggio dell’intera collettività e del futuro dell’economia italiana.

Il taglia-debito? Sarà la crescita

Il taglia-debito? Sarà la crescita

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Primo step il pacchetto di misure all’esame del Consiglio dei ministri del 29 agosto: il decreto «sblocca-Italia», la riforma della giustizia civile e le linee guida sulla scuola con i nuovi meccanismi di reclutamento degli insegnanti per superare l’emergenza precari e il potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro (mentre potrebbe slittare il provvedimento su «quota 96» per sanare la posizione di 4mila docenti pensionandi). Secondo step il 30 agosto, quando il Consiglio straordinario dei capi di Stato e di governo affronterà il nodo delle euronomine, con un focus sulle ricette per affrontare la congiuntura negativa che investe i big dell’eurozona, Germania, Francia e Italia in primis. Consiglio europeo “cruciale”, secondo quanto il premier Matteo Renzi ha fatto sapere ai suoi ministri.
Poi, a partire dall’Ecofin informale di Milano in programma il 13 settembre, l’avvio vero e proprio della trattativa per rendere esplicito «il miglior utilizzo della flessibilità», secondo le intese raggiunte nel Consiglio europeo di fine giugno, con l’obiettivo di chiudere il semestre di presidenza italiana della Ue con un pacchetto di proposte concrete, preventivamente concordate con la nuova Commissione europea che si insedierà in novembre. Mese in cui l’esecutivo comunitario renderà note le sue nuove stime sull’economia dell’eurozona, con annesse le prime valutazioni sulle manovre di finanza pubblica predisposte dai singoli paesi. Nel caso dell’Italia, la legge di stabilità che il Governo sottoporrà all’esame del Parlamento a metà ottobre. È già partita la caccia alle risorse per stabilizzare il bonus Irpef, all’interno di una manovra che si attesterà attorno ai 20 miliardi: tagli alla spesa, ma anche riordino delle agevolazioni fiscali e maggiori introiti attesi dalla lotta all’evasione.

Fonti di palazzo Chigi negano che sia in atto una sorta di trattativa pubblica o segreta sui conti italiani con l’Europa e che sia in arrivo un piano taglia debito, come riportato da alcune indiscrezioni giornalistiche. L’Italia, sottolineano le stesse fonti, «farà la sua parte come più volte ribadito dal premier, rispettando il vincolo del 3% senza aumentare la pressione fiscale. Non esiste, ribadisce palazzo Chigi, un problema Italia in Europa: esiste un problema dell’eurozona che l’Italia contribuirà ad affrontare». E il premier Matteo Renzi ai suoi collaboratori ricorda: «Abbiamo sempre detto che l’Europa non è solo spread e Maastricht, ora che la guidiamo noi è giusto dimostrarlo». La linea del Tesoro non cambia: le varie ipotesi di operazioni taglia debito circolate in questi giorni, e approdate fin nei corridoi di Via XX Settembre, presentano «problemi». Non esistono di fatto scorciatoie per il Tesoro, come ha ripetuto più volte Padoan, e quindi la via maestra per ridurre il debito pubblico al Mef è e resta una soltanto, ed è quella della crescita «sostenibile e sostanziale abbinata alla fiducia dei mercati». Fiducia che si conquista sul campo con uno sforzo continuo nell’implementazione delle riforme strutturali, con l’aggiustamento del bilancio, con un avanzo primario che sia considerevole e con i conti pubblici tenuti costantemente sotto controllo. Le privatizzazioni possono certamente contribuire ma in maniera minore, non sono decisive, hanno alti e bassi: il Tesoro conta di avvicinarsi molto all’obiettivo dello 0,7% di Pil programmato per quest’anno, con le privatizzazioni (senza Poste, la vendita di azioni Eni ed Enel integra la voce delle dismissioni) e con la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico per il quale grandi aspettative sono riposte nel decollo in autunno di Invimit, la SGR immobiliare posseduta al 100% dal Tesoro. La fiducia dei mercati, che è fondamentale per la riduzione del debito, è alimentata da un ventaglio di forme di intervento tra le quali non figurano operazioni taglia debito come quelle proposte in questi giorni. Una crescita non fiacca, le riforme strutturali, un avanzo primario importante restano il sentiero principale per ridurre il debito pubblico, dal quale l’Italia e il Tesoro non si discostano ma lungo il quale il Paese dovrà essere aiutato dall’Europa, che deve fare la sua parte (con nuove politiche per rafforzare la crescita) e dalla Bce che con la sua politica monetaria deve fare anch’essa la sua parte anche per combattere i rischi di deflazione.

Lo schema resta quello più volte enunciato da Renzi e Padoan: riforme in cambio di flessibilità nel timing di rientro dal debito, tenendo conto che rispetto allo scenario ipotizzato in primavera i due trimestri consecutivi di crescita sotto lo zero rendono di fatto obbligata la strada del ricorso alle «circostanze eccezionali» previste dal Fiscal compact. La contemporanea, brusca frenata di Germania e Francia rafforza la linea avanzata dall’Italia: solo attraverso azioni concordate e coordinate a livello europeo si potrà tentare di invertire il ciclo. Se, differentemente dalla Francia, l’Italia conferma che non vi saranno sforamenti al tetto del 3% per quel che riguarda il deficit, il focus si sposta sul percorso di rientro dal deficit strutturale (depurato dagli effetti del ciclo economico e dalla una tantum) così come delineato dalla disciplina di bilancio europea.
La frenata del Pil rende per noi di fatto impossibile, a meno di ricorrere a manovre restrittive di bilancio, rispettare la richiesta di Bruxelles in direzione dell’obiettivo di medio termine. Il pareggio di bilancio non potrà essere conseguito nel 2015, slitta al 2016 se non al 2017. La trattativa con Bruxelles dovrà a questo riguardo puntare in primo luogo a evitare il ricorso a misure aggiuntive già nel 2014 (in sostanza una manovra correttiva) chiesto dalla Commissione fin dalle raccomandazioni del 2 giugno. Richiesta motivata dallo scarto tra la stima del deficit strutturale calcolata da Bruxelles per il 2015 (0,7%) e lo 0,1% assicurato dal governo. A quel punto la trattativa si concentrerà proprio sul 2015 e sugli anni a venire e la carta che Renzi e Padoan si accingono a giocare, per quanto riguarda le politiche nazionali, punta sull’effetto atteso dalle riforme strutturali, che lo stesso Padoan fissa in almeno un biennio. L’auspicata flessibilità, da estendere evidentemente erga omnes, sarebbe dunque strettamente connessa alle riforme strutturali messe in campo, puntualmente monitorate dalla Commissione. Il giudizio di Bruxelles è atteso su questo punto non prima della prossima primavera.

La ricetta liberale anticrisi: meno tasse, più lavoro, crescita

La ricetta liberale anticrisi: meno tasse, più lavoro, crescita

Renato Brunetta – Il Giornale

Meno tasse; più consumi; più investimenti; più crescita; più lavoro; più gettito; più welfare; più benessere per tutti. È questa l’equazione del benessere: la ricetta liberale che l’agenda Berlusconi intende realizzare nel nostro paese. Agenda Berlusconi che, guarda caso, coincide con l’agenda Draghi, con le raccomandazioni della Commissione europea al governo Renzi e con quello che, da quando il debito pubblico italiano, cui fa da sfondo la lunga recessione, ha raggiunto livelli non più sostenibili, commentatori, economisti e opinion leader, da Alesina-Giavazzi a Guido Tabellini a Eugenio Scalfari, consigliano al governo: riforma del lavoro, da cui derivererebbe recupero di competitività per il sistema-paese; e riforma fiscale, per ridurre il peso della tassazione su famiglie e imprese, che blocca lo sviluppo e la conseguente ripresa dell’occupazione.

C’è, poi, un terzo grande tema: l’Europa e la Banca centrale europea. La politica monetaria espansiva della Bce deve essere accompagnata da riforme strutturali in tutti gli Stati dell’area euro. In particolare, riforme fiscali sincroniche che, via riduzione del carico tributario, portino all’auspicato indebolimento della moneta unica. E per fare questo, deve essere proprio la locomotiva d’Europa, se ancora vuole essere tale, a cominciare. La Germania deve mettere più soldi nelle tasche dei tedeschi e far crescere la propria domanda interna, con il giusto e buon livello di inflazione che ne deriverà. Per dirla con termini tecnici: la Germania deve reflazionare. E l’impatto sarebbe immediato sulle economie di tutti i paesi dell’eurozona. Lo dice anche la rigorosissima Bundesbank, nonché il presidente del consiglio economico della Cdu tedesca, Kurt Lauk. Entrambi evidentemente inascoltati da Angela Merkel e dal suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaüble.

Il compito di Matteo Renzi, se vuole riempire di significato questo semestre di presidenza italiana dell’Unione europea, così ricco di aspettative, ma ad oggi deludente nei risultati, è proprio quello di spiegare alla cancelliera Merkel l’importanza del ruolo della Germania e della reflazione tedesca in Europa. Ma non è solo di questo che si tratta: la Germania deve reflazionare anche per non incorrere nella procedura di infrazione per avanzo eccessivo della sua bilancia dei pagamenti, che tanti problemi ha creato a tutta l’eurozona. Squilibrio derivante da un euro tedesco sottovalutato rispetto ai fondamentali dell’economia tedesca, che ha reso le esportazioni di quel paese più competitive rispetto a quelle degli altri Stati dell’eurozona, senza alcun meccanismo redistributivo. La Germania colmi, quindi, questo gap di solidarietà rispetto agli altri partner europei, che significa anche rispetto dei Trattati, e tornerà a crescere a ritmi elevati e a trainare l’economia dell’intera area euro. Se davvero vuole che la moneta unica continui ad esistere.

Su questo tema, è stato il Fondo Monetario Internazionale il primo a lanciare la sfida alla Germania: lì il rapporto deficit/Pil oggi è pari a 0,1%. Se il governo tedesco aumentasse la spesa di mezzo punto di Pil, sarebbero 14 miliardi di euro all’anno in più in circolazione. E gli effetti si vedrebbero a cascata sull’intera area dell’euro. Ma si potrebbe andare anche ben oltre lo 0,5%. Prima che in Germania il deficit raggiunga il limite massimo del 3% ci sarebbe un margine fino a 75 miliardi. È questa la vera flessibilità di cui parlare. Piuttosto che chiedere sconti per l’Italia, Matteo Renzi, come abbiamo già detto, deve convincere la cancelliera Merkel a reflazionare l’economia tedesca, non solo a proprio vantaggio, ma anche, e soprattutto, per le ricadute positive su tutti i paesi dell’area euro.

In questa sfida, il presidente del Consiglio italiano avrebbe con sé non solo il Fondo Monetario Internazionale, che ha fatto i conti, ma anche la Commissione europea, e la fortissima sponda del dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America.

L’euro tedesco, di fatto, contro ogni volontà e sogno, ha distrutto l’Europa, creando squilibri crescenti, appunto, nelle bilance dei pagamenti; e tassi di rendimento sui debiti sovrani divergenti, senza alcun meccanismo di redistribuzione e di riequilibrio. È questa la malattia mortale che ci affligge. Perché gli squilibri nei rapporti tra esportazioni e importazioni e nei flussi di capitali si riflettono sul deficit e sul debito pubblico degli Stati.

La soluzione, dunque, al di là di tutto quanto fatto (inutilmente) finora è una sola: i paesi che registrano un surplus nella bilancia dei pagamenti (che include sia i movimenti delle merci sia i flussi di capitali) hanno il dovere economico e morale non di prestare i soldi, non di “salvare” gli altri paesi, ma di reflazionare. Cioè aumentare la loro domanda interna.

A questo punto serve a poco il meccanismo di multe, elaborato ad hoc dalla Commissione europea e che fino ad oggi non ha funzionato, per i paesi che superano la soglia, troppo alta, quindi inefficiente, del 6% nel rapporto tra esportazioni e importazioni (alla Germania, che ha un surplus superiore al 7%, è stato fatto solo un semplice richiamo). La via da seguire è un’altra e più efficiente.

Le altre sfide del governo Renzi in campo economico sono, abbiamo detto, il mercato del lavoro (e se ne parliamo ancora vuol dire che il decreto Poletti, come avevamo previsto, è risultato insufficiente) e il fisco. Sul primo il dibattito è più che aperto e sembra andare nella direzione giusta se l’intenzione del governo è quella, auspicata tanto da Forza Italia quanto dal Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano, di una sospensione per 3 anni dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A cui aggiungere un maggiore spazio alla contrattazione aziendale rispetto alla contrattazione collettiva. Come chiesto all’Italia, tra l’altro, dalla Banca centrale europea nella famosa lettera del 5 agosto 2011, ove, tuttavia, si riconosceva l’importanza dell’accordo del 28 giugno 2011 tra l’allora ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, e le principali sigle sindacali e le associazioni industriali in tema di riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva.

Per quanto riguarda la riforma del fisco, infine, il governo ha la strada segnata: basta solo procedere con i decreti legislativi di attuazione della delega fiscale, approvata in via definitiva dal Parlamento già a febbraio, che non possono più aspettare. Meno tasse dunque in Italia, finanziate dalla riduzione della spesa corrente, ma anche in Europa. In totale e piena sincronia, per avere un New deal e più consumi, più investimenti produttivi e infrastrutturali, più competitività e più crescita.

Sono queste le cose da fare: tre (mercato del lavoro, fisco, Europa), semplici e definite, onde evitare quell’affanno operativo e quella caotica inconcludenza temuti dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e che Commissione europea e mercati finanziari non ci perdonerebbero. Tre scelte che sono da sempre nell’agenda Berlusconi oggi, come già erano anche nel programma della coalizione di centrodestra con cui sono state quasi vinte le elezioni di febbraio 2013, grazie ai voti di dieci milioni di italiani. E come erano nell’agenda liberale del 1994. È questo il programma da realizzare per porre rimedio ai troppi errori che negli anni della crisi sono stati fatti dall’Europa a trazione tedesca. E su questo il governo sarà chiamato a confrontarsi, dopo la pausa estiva, con il Parlamento e con il paese. Non servono all’Italia redistribuzioni furbesche del reddito per comprare consenso, come è avvenuto nel caso degli 80 euro, che tanti guasti e squilibri hanno creato nei conti pubblici italiani (se n’è accorto perfino il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio), ma di una limpida visione. Meno tasse, più lavoro, più crescita, più Europa.

Rassegnamoci, moriremo di articolo 18

Rassegnamoci, moriremo di articolo 18

Vittorio Feltri – Il Giornale

Da almeno vent’anni si parla della necessità di abolire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma nessuno è mai riuscito a scalfirlo. Perché non è una norma, bensì una divinità e come tale non si discute: si accetta, anzi va adorata.

Matteo Renzi, che non è stato in grado di riformare alcunché tranne le insegne di alcune botteghe istituzionali (Province e Senato), ha però favorito il cambiamento del linguaggio politico, e ha definito il suddetto articolo 18 «un totem».

Giuliano Poletti, comunistone di vecchia data, ministro del governo in carica, si è affrettato a dire che la cancellazione della regola – totem o dogma che sia – non è in programma e che pertanto essa rimarrà in vigore. Per sempre? Probabilmente sì. Abbiamo la tentazione di dare ragione al responsabile del dicastero del Lavoro. Il problema infatti non è l’eliminazione di un articolo dello Statuto dei lavoratori, ma dello statuto stesso, visto che i lavoratori sono già stati eliminati. Una volta si diceva: moriremo democristiani. Oggi abbiamo un’altra certezza: saremo sepolti in base ai criteri fissati dell’articolo 18. Il quale articolo 18 è il paradigma della stupidità italiota. Esso infatti, come ben sanno gli imprenditori, è applicabile soltanto nelle aziende con più di 15 dipendenti. In quelle piccole – con meno di 15 dipendenti – il padrone licenzia a proprio piacimento. In teoria. In pratica non è così.

L’imprenditore fa il proprio interesse, per cui non caccia uno perché gli è antipatico, semmai uno che non rende. Chissà perché le cose ovvie non sono persuasive. È un fatto comunque che il comandamento numero 18 discrimina. Esattamente come discrimina la cassa integrazione, riservata al personale delle grandi imprese e inaccessibile a quello delle piccole. Davanti a questo sistema iniquo non c’è politico o sindacalista che osi fiatare, salvo strillare e stracciarsi le vesti se qualcuno minaccia di cancellare il totem. Tra la fine del secolo scorso e l’inizio di quello corrente, i radicali proposero un referendum per spazzarlo via. Non passò. Anche perché Silvio Berlusconi, che si accingeva a vincere le elezioni (2001), disse a Marco Pannella che il plebiscito era inutile in quanto, non appena rientrato a Palazzo Chigi, egli avrebbe provveduto a depennare la discussa norma.

Il Cavaliere in effetti ci provò in ogni modo, ma fallì: tutti gli andarono contro con forza e gli impedirono di muovere un dito. Se lo avesse mosso, glielo avrebbero immantinente amputato. Cosicché, Fornero o non Fornero, siamo ancora qui a litigare sull’articolo 18. Che fu elaborato da Giacomo Brodolini, socialista, ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, promotore dell’intero Statuto dei lavoratori (varato nel 1970) che, con rispetto parlando, sembra scritto da Stalin dopo essersi scolato una bottiglia di vodka.

Non è un caso che le difficoltà dell’economia italiana siano cominciate con l’approvazione di quella legge dall’acido sapore sovietico. Nonostante ciò, a quasi mezzo secolo dall’introduzione della storica schifezza, mentre la crisi nazionale e internazionale galoppa e la disoccupazione avanza speditamente, c’è ancora chi – la sinistra nostalgica, politica e sindacale – difende il capolavoro di Brodolini, una brava persona morta giovane (50 anni) dopo aver vissuto con la testa nelle nuvole rosse dell’Urss e dintorni.

Se c’era qualcosa da fare con urgenza per modernizzare il Paese, questa era proprio la riforma radicale del pluricitato statuto. Invece non è stato toccato. Ciò dimostra che gli slogan dei riformisti sono frasi vuote, spot elettoralistici e nulla più. La conferma viene dal ministro Poletti, il quale, intervistato un giorno sì e l’altro pure dalla stampa compiacente, ammette che bisogna ridurre al minimo la conflittualità nei rapporti fra impresa e lavoro, tuttavia non intende abrogare né lo statuto né l’articolo 18. Domanda: e allora come si fa a creare collaborazione fra datori di lavoro e prestatori d’opera? Si chiama il parroco affinché benedica gli opifici?

Questo è ancora poco. Poletti aggiunge: per sciogliere la grana degli esodati dobbiamo recuperare risorse. Giusto. Recuperarle dove? Dalle pensioni alte, che vanno tagliate e/o ricalcolate su base contributiva, in barba a un patto sociale pregresso. Lo Stato si rimangerebbe così gli impegni presi a suo tempo con gli attuali pensionati, ignorando che sugli assegni più ricchi (si fa per dire) esiste già un cospicuo prelievo a titolo di obolo di solidarietà.

Pur di non segare le spese superflue, magari quelle identificate da Carlo Cottarelli (all’uopo ben pagato), questo simpatico governo è pronto a recidere ulteriormente le pensioni dopo aver già reciso il medesimo Cottarelli, reo di aver svolto il proprio dovere. Non ce l’abbiamo con Renzi, per carità, ma ci rendiamo conto che, stante la situazione, chiunque al suo posto, anche i predecessori e gli aspiranti successori, potrebbe far peggio ma non meglio di lui. La politica italiana è abilitata a usare le forbici solo per tranciare le palle ai cittadini.

Fisco e lavoro, riforme urgenti per la crescita

Fisco e lavoro, riforme urgenti per la crescita

Guido Tabellini – Il Sole 24 Ore

Perché l’economia italiana non riesce a uscire dalla recessione? È da questa domanda che bisogna partire per impostare qualunque strategia di politica economica. La risposta va cercata negli eventi del 2011, quando in seguito alla crisi dell’euro l’Italia fu colpita da un sudden stop, un arresto improvviso nell’afflusso di capitali dall’estero e una fuga di capitali privati, tipico dei paesi emergenti. Il sudden stop ha fatto crollare la domanda interna, attraverso tre canali: i) Una feroce stretta creditizia, imposta da un sistema bancario che dipendeva dall’estero per i suoi finanziamenti, e che poi (non si sa quanto spontaneamente) ha spiazzato il credito privato per comprare il debito pubblico venduto dagli investitori esteri. ii) Una forte stretta fiscale, imposta dall’esigenza di rassicurare i mercati finanziari e i partners europei. iii) Un effetto diretto dell’incertezza e della mancanza di fiducia sugli investimenti e sui consumi di beni durevoli.

Ora il sudden stop è parzialmente rientrato e la liquidità è abbondante, ma è illusorio pensare che ciò sia sufficiente per tornare a crescere. Le tre cause di riduzione della domanda sopra indicate sono ancora operanti, e a queste se ne sono aggiunte altre. Anche se le banche non hanno più difficoltà a finanziarsi, i loro bilanci sono pieni di partite deteriorate (a marzo erano il 10% dei prestiti complessivi, al netto delle svalutazioni), e i prestiti in sofferenza continuano a crescere, sebbene a un tasso che sta progressivamente rallentando. Di conseguenza, la morsa del credito non si è allentata in modo significativo (a giugno i prestiti al settore privato sono scesi del 2,3%). Il deleveraging delle banche è destinato a continuare, anche perché a ottobre si attende l’esito dell’Asset Quality Review della Bce.

La politica fiscale resta restrittiva. Il Def presentato ad aprile dal Ministro Padoan prevede che nel 2014 e 2015 la pressione fiscale rimanga al 44% del reddito nazionale, lo stesso livello raggiunto nel 2012 dal governo Monti. È ancora presto per valutare appieno gli effetti del bonus fiscale, ma è plausibile che essi siano trascurabili, perché solo una piccola parte delle maggiori detrazioni sarà coperta da effettivi tagli di spesa, e perché i vincoli europei impediscono aumenti di disavanzo; più che un taglio d’imposta, il bonus fiscale è stata un’operazione redistributiva.

Quanto alla fiducia, gli indicatori congiunturali suggeriscono un miglioramento. Ma la vulnerabilità dell’Italia è ancora troppo elevata, e il futuro economico troppo incerto, perché gli operatori economici possano scommettere sul futuro con tranquillità e assumere rischi rilevanti. In particolare, il mercato del lavoro è una grave fonte di preoccupazione per le famiglie (a giugno il tasso di disoccupazione era il 12,3%, in calo rispetto a maggio ma in forte aumento rispetto a un anno prima). Inoltre, l’andamento dei prezzi è a un passo dalla deflazione, il che fa salire il peso del debito, e può indurre a rinviare la spesa nell’aspettativa che i prezzi futuri siano ancora più bassi. Infine, la recente incertezza geopolitica ha provocato un arresto della crescita in Germania e in altri Paesi dell’area euro; e purtroppo non si tratta di fenomeni transitori.

Se questo è il quadro, cosa può fare la politica economica nazionale per uscire dalla recessione? Anche se oggi il problema principale è la carenza di domanda aggregata, è comunque urgente realizzare riforme dal lato dell’offerta. Non è un paradosso, è la realtà della moneta unica. Gli strumenti classici di sostegno alla domanda aggregata sono in mano alle autorità europee, che non li stanno usando in modo adeguato. Il loro atteggiamento refrattario riflette anche il timore che i Paesi del Sud Europa (e l’Italia in particolare) non attuino le riforme necessarie a rendere più competitive le loro economie. Sta a noi non offrire alibi.

La riforma più urgente riguarda il mercato del lavoro. Due aspetti sono prioritari: lasciare più spazio alla contrattazione aziendale, evitando che la contrattazione collettiva stabilisca salari minimi inderogabili; e aumentare la flessibilità in uscita per i neo-assunti, secondo lo schema del contratto a tutele progressive nella versione di Pietro Ichino. Riforme innovative del mercato del lavoro non servono solo ad aumentare la nostra capacità di persuasione in Europa, ma sono indispensabili anche per riacquistare competitività. È anche grazie a queste riforme se in Spagna occupazione e produzione stanno tornando a crescere.

Un secondo provvedimento urgente per riacquistare competitività è la svalutazione fiscale. Questo intervento è stato ignorato da tutti i governi che si sono succeduti dal 2011 a oggi, ma è suggerito dall’esperienza dei Paesi emergenti. Quando un Paese è colpito da un sudden stop, la prima cosa che fa è svalutare il cambio. La svalutazione sostiene la domanda aggregata attraverso il canale estero, e, rendendo il Paese più competitivo, facilita il rientro dei capitali dall’estero. Naturalmente l’Italia non può svalutare senza uscire dall’euro. Tuttavia, è possibile riprodurre gran parte degli effetti economici di una svalutazione con gli strumenti di politica fiscale.

Il modo per farlo è tagliare i contributi sociali pagati dalle imprese, coprendo la perdita di gettito con l’aumento dell’Iva e riduzioni della spesa. Il gettito Iva può essere aumentato con accorpamenti delle aliquote più basse. Per realizzare una svalutazione fiscale, i tagli di spesa dovrebbero concentrarsi innanzitutto sui trasferimenti e sussidi ai trasporti locali e ferroviari e ad altri servizi, con corrispondenti aumenti di tariffe. Per evitare effetti regressivi, la manovra andrebbe integrata da un aumento delle detrazioni fiscali sui redditi più bassi. Un intervento di questo tipo allontanerebbe il rischio di deflazione e faciliterebbe la stabilizzazione del debito.

L’evidenza empirica internazionale mostra che eventuali effetti depressivi sulla domanda interna sarebbero più che compensati dalla maggiore domanda estera. Queste sono le priorità a cui dovrebbe ispirarsi la strategia di politica economica, per far uscire l’Italia da un’interminabile recessione. Avrà il governo la lungimiranza per imboccare questa strada? E se lo facesse, troverebbe in Parlamento il consenso per proseguire? Non è detto che la risposta a entrambe queste domande sia positiva. Ma non illudiamoci che vi siano molte altre alternative. Sicuramente non lo è aspettare, sperando che le cose migliorino da sole.

Artigianato, 42mila imprese pronte ad assumere

Artigianato, 42mila imprese pronte ad assumere

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Le imprese artigiane che quest’anno intendono assumere nuovo personale sono circa 42.100, pari al 10,1% del totale (erano il 9,6% nel 2013). Un incremento che non basta però a bilanciare le difficoltà congiunturali e occupazionali ancora evidenti nel settore, come dimostra la perdita di altri 41mila lavoratori (stagionali e non stagionali) e la diminuzione dei contratti di lavoro dipendente e atipico che verranno attivati nel corso del 2014 (-0,3% rispetto allo scorso anno). Il mondo delle imprese artigiane sta però cambiando, rilevano i dati diffusi oggi da Unioncamere-ministero del Lavoro, attraverso il sistema informativo Excelsior. In genere vanno meglio le imprese che puntano sull’artigianato digitale e sull’export.

Sempre meno difficoltà a trovare figure artigiane
Si riduce poi la difficoltà di reperimento segnalata dalle imprese artigiane. Essa interesserà solo l’11% delle 77.600 assunzioni previste, un punto in più della media nazionale, ma inferiore di oltre 20 punti rispetto a quattro anni fa. Per alcune professioni, tuttavia, considerando le figure richieste con almeno 100 assunzioni previste, la difficoltà resta alta, interessando un terzo delle entrate programmate. Si tratta dei lattonieri e calderai, con il 51% di assunzioni difficili da trovare, seguiti dai tecnici della produzione manifatturiera (45%), falegnami e attrezzisti di macchine per la lavorazione del legno (40%), tecnici programmatori (37 per cento). Queste difficoltà risultano più marcate nel Nord Est, dove interesseranno il15% di tutte le figure di cui si prevede l’assunzione, e nel Nord Ovest (13%), riguardando in particolare Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, parte della Liguria, Emilia Romagna, Toscana e Umbria e registrando anche casi particolarmente significativi, come quello di Treviso, dove la quota di assunzioni di difficile reperimento raggiunge il 37% del totale. A seguire Pordenone (28%), Terni (26%), Pisa, Mantova e Modena (23-24%). In altre 6 province tale quota si attesta tra il 20% e il 22%. Viceversa, in 13 province (tutte meridionali) questa caratteristica interessa meno del 5% delle assunzioni. I limitati problemi di reperimento segnalati dalle imprese artigiane hanno portato a ridurre anche la quota massima di assunzioni di personale immigrato sul totale delle assunzioni previste: 12% nel 2014, un punto in meno del 2013 e due punti al di sotto della media nazionale. In leggero rialzo è invece la richiesta di una precedente esperienza lavorativa specifica nella professione o nel settore, che raggiunge il 61% delle assunzioni previste, valore superiore di 4 punti alla media nazionale.

Più spazio a innovatori e a operai
Il dettaglio delle professioni non stagionali (52.800 nel 2014, circa mille in meno del 2013) evidenzia infine una ricomposizione della domanda di lavoro da parte delle imprese artigiane improntata al rafforzamento soprattutto di alcuni grandi gruppi professionali a maggior “tasso” di innovatività. Aumenta infatti del 22% la richiesta di professioni intellettuali scientifiche e tecniche (1.040 le entrate programmate) e di operai (24.000 quelli specializzati, con un incremento del +0,8%, e 7.400 quelli generici e conduttori di impianti, aumentati del +10,4%). Diminuisce invece la richiesta di professioni tecniche (-18,9%), di quelle esecutive del lavoro d’ufficio (-14,8%) e di quelle qualificate nelle attività commerciali (-1,7 per cento).  

Cassa integrazione in calo del 25%, ma quella straordinaria cresce del 18%

Cassa integrazione in calo del 25%, ma quella straordinaria cresce del 18%

Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore

Continua il calo delle ore complessive di cassa integrazione richieste dalle imprese. Ma la cassa straordinaria aumenta, e il crollo delle ore richieste di cassa integrazione in deroga dipende dai noti problemi di finanziamento dell’istituto che durano ormai da mesi.
A luglio l’Inps ha autorizzato, in totale, 79,5 milioni di ore, in diminuzione dell’8,6% rispetto a giugno, e addirittura del 25% sull’anno (a luglio 2013 erano state autorizzate 106,1 milioni di ore). La contrazione più vistosa interessa la cassa in deroga (-70,8% sull’anno), ma il dato risente “dei fermi amministrativi per carenza di finanziamenti”, conferma anche l’Inps.

Cresce la cassa straordinaria
In discesa sono pure le ore autorizzate di cassa integrazione ordinaria (-38,3% tendenziale). In particolare, la variazione tendenziale è stata pari a -42,8% nel settore Industria e a -24% nel settore Edilizia. In controtendenza invece la richiesta di cassa straordinaria (la Cigs): il numero di ore autorizzate a luglio è stato pari a 50,4 milioni, con un incremento del +18% rispetto al luglio 2013, nel corso del quale sono state autorizzate 42,7 milioni di ore. Questo dato è particolarmente significativo perché sta a indicare come sempre più aziende permangano in difficoltà acute (la Cigs serve infatti per le crisi strutturali).

Disoccupazione in diminuzione

Passando infine alle domande di disoccupazione l’Inps evidenza che nel mese di giugno 2014 sono state presentate 106.206 domande di Aspi, 33.935 domande di mini-Aspi, 234 domande tra disoccupazione ordinaria e speciale edile e 8.229 domande di mobilità, per un totale di 148.605 domande, il -3,3% in meno rispetto alle 153.725 domande presentate nel mese di giugno 2013. Un segnale coerente con i recenti dati Istat che a giugno evidenziavano una contrazione (congiunturale) del numero di disoccupati.

Fai presto

Fai presto

Giorgio Mulè – Panorama

Inutile girarci intorno: il 2014 ce lo siamo giocati. I mesi che ci separano dalla fine dell’anno saranno contrassegnati da dati nefasti su tutti i fronti principali dell’economia: prodotto interno lordo, occupazione, consumi. Non si tratta di fare i gufi e anzi, piccola parentesi, sarebbe ora che Matteo Renzi la smettesse di fare lo spiritoso guardando in faccia la realtà perché c’è un Paese in ginocchio.

L’ultima mazzata che certifica lo stato comatoso dell’Italia è il dato sull’andamento dei prezzi: a luglio sono calati ancora innescando quella micidiale spirale che si chiama deflazione. Per capirci, la deflazione è il contrario dell’inflazione: la gente non compra, i prezzi calano e a ruota si mettono in moto una serie di conseguenze che portano meno profitti alle imprese, meno produzione, meno assunzioni, maggiori difficoltà per sostenere gli interessi sul debito. Una catastrofe. Basti ricordare che, a causa della deflazione, il Giappone ha conosciuto una crisi che gli economisti hanno efficacemente battezzato del «Decennio perduto» anche se gli effetti sono stati addirittura più lunghi.

La discesa dei prezzi a luglio si spera che convinca definitivamente il premier che il bonus da 80 euro è servito solo a fargli vincere le elezioni europee: gli effetti concreti sono sottozero, al punto che il fatturato dei saldi del 2014 ha conosciuto un decremento del 4 per cento rispetto al già pessimo 2013. La gente non spende, se ne frega altamente della riforma del Senato anche perché è terrorizzata dalla mazzata autunnale in arrivo sul fronte dei tributi locali con in testa la Tasi. A questo punto, piuttosto che interpretare Braccio di ferro e fare a cazzotti con la Bce di Mario Draghi (e comunque gli finisce male, dovrebbe sapere il premier), il governo che non ha legittimazione popolare faccia un bagno di umiltà. Concordi con le forze politiche responsabili e le categorie produttive del Paese un piano di emergenza: tagli sul serio la spesa pubblica di 50 miliardi in 3 anni (si può fare, si deve fare) e assuma immediatamente l’iniziativa di rilanciare gli investimenti pubblici e privati. Questo non significa battezzare un nuovo provvedimento roboante, tipo lo Sblocca Italia che in realtà sblocca a stento una vite in quanto si limita a spostare soldi da un capitolo all’altro o, peggio, a sancire il via libera a opere che però daranno lavoro tra due o tre anni come l’autostrada Orte-Mestre.

La strada è quella di dare incentivi a imprenditori piccoli, medi e grandi affinché siano realmente spinti a investire i loro soldi. Significa inventarsi misure come una rottamazione dei macchinari industriali, per esempio, che spesso sono obsoleti, dando in cambio benefici fiscali da riconoscere a chi con l’innovazione risparmia energia o digitalizza l’impresa. Non ci vuole molta fantasia, ma senso pratico per rimettere in moto l’Italia. Al bando l’arroganza, presidente Renzi. Non perda tempo con l’articolo 18 (non è aria) e si concentri sul 2015. Inizi subito e vari le misure entro agosto.