legge di stabilità

Non solo fondi pensione: colpite dal DDL stabilità anche le polizze vita

Non solo fondi pensione: colpite dal DDL stabilità anche le polizze vita

Federica Pezzatti – Il Sole 24 Ore

Crolla un altro caposaldo delle polizze Vita. Il governo Renzi dal prossimo 1° gennaio, se le misure annunciate saranno confermate, tasserà al 26% anche le plusvalenze delle polizze Vita incassate dagli eredi dell’assicurato che finora erano esentati. Al contrario di quanto è scritto sui contratti, dunque, i beneficiari pagheranno le tasse sui guadagni maturati dalla sottoscrizione del contratto fino al momento della morte dell’assicurato. È bene precisare, per evitare fraintendimenti, che le polizze resteranno comunque esenti da tasse di successione.

Si tratta di una novità, che riguarda ramo I e ramo III, che coglie di sorpresa l’industria assicurativa che giudica il provvedimento come un segnale poco favorevole, tenuto conto che ci sono forme tecniche a “vita intera” finalizza te proprio alla tutela degli eredi. Una nuova tegola che si abbatte sul settore dopo il provvedimento di rialzo della tassazione delle plusvalenze passata dal 20% al 26% dallo scorso luglio (salvo per i guadagni originati dagli investimenti in titoli di Stato e equiparati che saranno tassate al 12,5%) e che ammontano a circa il 60% delle riserve Vita.

La legge di stabilità colpisce dunque duramente un investimento sempre più utilizzato: nei primi otto mesi del 2014 la nuova produzione Vita è aumentata del 43% rispetto allo stesso periodo del 2013, con 72,2 miliardi di euro di raccolta. Non sono stati risparmiati ovviamente i Pip, piani di previdenza assicurativi. In quanto prodotti di previdenza complementare, le plusvalenze da essi originate di anno in anno saranno tassate, stando alle bozze, al 20% (contro l’11,5% valido da luglio) salvo, la componente investita in governativi ed equiparati (aliquota al 12,5%). Come consolazione ai possessori di prodotti Vita, ma solo di ramo I, resta l’esenzione da bollo: le rivalutabili sono le uniche (insieme ai fondi pensione e fondi sanitari) a non pagare il balzello sugli investimenti dello 0,2% annuo e questo vantaggio appare conservato.

Legge di stabilirà

Legge di stabilirà

Davide Giacalone – Libero

Più che una legge di stabilità si avvia a essere una legge di stabilirà. Nel senso che si modella e adatta con il passare delle ore. Il tempo passato dall’annunciazione alla presentazione è servito anche per far tesoro dello sgomento suscitato nel sentir dire alcune cose. Per esempio: la decontribuzione annunciata, sulle assunzioni a tempo determinato, era di 6200 euro, ma trattavasi di un errore, perché già ci sono aziende che avrebbero diritto a una decontribuzione superiore, sicché nel testo che sarà presentato in Parlamento (dove ancora neanche c’è) quel limite sarà alzato a 8060. Vedremo cosa combineranno con il Tfr, i cui errori sono stati qui illustrati per tempo.

Originale la teoria illustrata da Yoram Gutgeld, consigliere economico di Matteo Renzi: se le norme esistenti si dimostrassero più convenienti di quelle che stiamo preparando, il contribuente potrà attenersi a quelle che preferisce. Lui si riferisce alle agevolazioni per le partite Iva, ma, certo, ha tutta l’aria d’essere un bislacco principio generale: noi ideiamo agevolazioni, che annunciamo a raffica, ma se, eventualmente, la legge preesistente fosse migliore di quella da noi magnificata, niente paura, potrete continuare a usarla. In espansione, se non altro, c’è la fantasia.

Direi che dalla scuola alla giustizia la nouvelle vague governativa s’è l’asciata un po’ prendere la mano dall’ebrezza della consultazione popolare: noi annunciamo una cosa, stilando un menù che non comporta scelte, e voi siete liberi ciascuno di dire la propria. Tanto nessuno sta a sentire. In campo fiscale sembra ci sia un salto di qualità: mettiamo in parallelo un paio di sistemi e voi scegliete quello in cui vivere. La legge di stabilirà. Intanto, per non rendere noiosa la vita, continua la serrata campagna degli annunci. Immagino che al Quirinale si siano domandati: ma se ci hanno appena consegnato il testo della legge di stabilità, perché l’idea degli 80 euro alle mamme non c’è e sono andati a illustrarla in un salotto televisivo? Non so cosa si siano risposti. Di certo, un tempo erano più arcigni e meno comprensivi.

Una cosa buona, comunque. O no? No, non lo è. È una roba demagogica e controproducente. Lasciando da parte la fissazione per il numero 80, che non si capisce per quale logica quantifica i regali governativi, è bene rendersi conto che questa perversione laurina comporta una concezione della società come fossimo tutti minorenni, pronti a gioire per le mance temporanee. In una società maggiorenne le famiglie hanno bisogno dei servizi che le affianchino nella gestione dei bambini, a cominciare dagli asili nido. In una società maggiorenne la fiducia nel futuro discende dalla crescita economica, quindi dalla ragionevole certezza che lavorando si possa giovarsene. Mentre è tipico di una società minorenne il supporre che si possa dare e prendere senza che questo sia legato al produrre. Certo che 80 euro, al mese, tornano utili quando si affrontano le spese per un bambino, e certo che prendere gli applausi è cosa piuttosto semplice, annunciandoli, ma il bambino sopravvive ai tre anni e se non ci sono asili a sufficienza si perde partecipazione al lavoro degli adulti. Poi supera i sei anni, e se nelle scuole trova gli stabilizzati anziani avrà un’istruzione carente. E se lo mandiamo in scuole analogiche, con testi stampati e senza digitalizzazione non solo gli rubiamo capacità, ma rubiamo soldi alle loro famiglie, come capita anche quest’anno. Poi supera i diciotto, e se si trova in università chiuse alla concorrenza e autoreferenziali nell’assegnazione delle cattedre diventerà un analfabeta laureato. Ci sono toghe che non compitano nell’italico idioma. A quel punto che gli diamo, il contributo per disadattamento al lavoro e al mondo?

Quando i soldi sono troppi può capitare di contrarre i vizi dell’agio e dell’improduttività. Ma ora i soldi sono pochi e spenderli fuori dal rilancio di istruzione e produzione è un delitto. Salvo prendere applausi, per la legge che solo poi stabilirà

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Dopo tanti annunci e tante promesse la montagna della legge di Stabilità ha partorito meno di un topolino. Il governo Renzi è tornato indietro perfino rispetto a quanto prodotto dall’esecutivo Letta in materia di credito di imposta per la ricerca. Così da un biennio l’Italia, in piena crisi da mancanza di investimenti privati e da competitività dell’offerta, non ha una bonus che incentiva gli investimenti in ricerca ed in innovazione.

L’ultimo intervento in materia è stato quello del governo Berlusconi che aveva introdotto una vera discontinuità per l’Italia: un credito di imposta pari al 90% degli investimenti fatti nel biennio 2011-2012 con università o enti di ricerca, recuperabile per quote paritetiche in tre anni. I 155 milioni di euro a suo tempo stanziati in bilancio non sono stati neppure tutti utilizzati dal mondo produttivo, a riprova che i timori della Ragioneria spesso cozzano con la realtà della recessione. Prima il bonus fiscale, sempre deciso dal governo Berlusconi, era stato commisurato al valore complessivo degli investimenti fatti dalle imprese: il 10%.

A fine 2013 Enrico Letta vara un credito di imposta pari al 50% delle spese incrementali in ricerca a partire dall’esercizio 2014. La burocrazia ha lasciato la norma inattuata e così le imprese che hanno creduto nella serietà della Repubblica italiana e hanno fatto nel corso del 2014 investimenti in ricerca confidando nel credito di imposta si ritrovano oggi con un deficit di cash flow da dover finanziare. In pieno credit crunch non è un gap facile da chiudere attingendo al credito bancario.

Ora la legge di Stabilità cambia nuovamente le carte in tavola: credito di imposta dimezzato al 25%, sempre solo per gli investimenti incrementali e con effetti che si produrranno, ragionevolmente, solo a partire dalla seconda parte del 2016 quando i bilanci saranno stati depositati. Sarebbe stato molto più serio, onde evitare di impattare nuovamente sulle aspettative delle imprese, lasciare la norma Letta invariata e non eliminare il 2014, esercizio ormai chiuso e quindi con effetti risibili sui conti pubblici, dall’applicazione della norma. In questo modo si potevano premiare in pochi mesi le imprese che, nel corso del 2014, hanno avuto il coraggio di investire mentre il pil crollava e la deflazione prendeva il largo, cioè già il prossimo maggio.

In Francia per il triennio 2013-2015 il Cir, il credito di imposta per la ricerca francese, varato nel 1983, è stato dotato di un fondo annuo di 5 miliardi di euro perché raddoppiato dal presidente François Hollande. La legge di Stabilità di Renzi è stata coraggiosa sull’Irap e sugli 80 euro ma troppo timida sulla ricerca.

I quattro filtri

I quattro filtri

Giuseppe Turani – La Nazione

Il premier Renzi è uno che corre veloce, e infatti anche la sua Legge di Stabilità è arrivata in perfetto orario. Adesso, però, la corsa rallenta obbligatoriamente: infatti l’aspettano ben quattro filtri importanti. Il primo è quello della coerenza delle cifre. Si sa che Renzi ha molta voglia di fare e quindi è possibile che da qualche parte si sia stati un po’ larghi. Oggi, però, c’è il testo definitivo e chiunque (opposizione compresa) potrà valutare se c’è coerenza fra quello che si promette di spendere e quello che si spera di incassare. È un esame che sarà fatto da economisti, giornali, opinione pubblica: tutta gente che non ha ruoli istituzionali ma che conta in un paese in cui tutti si sentono commissari tecnici della Nazionale e primi ministri.

Il secondo  filtro sarà probabilmente il più severo. Si tratta infatti dei guardiani dell’Unione europea fra cui spiccano tedeschi e esponenti dei paesi nordici. In pratica dei puritani del bilancio pubblico in ordine. Si può star certi che nei confronti della prima Legge di Stabilità di Renzi saranno attentissimi. E non disposti a fare sconti. È vero che il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan dovrebbe rappresentare un buon scudo. Oltre a essere un uomo di riconosciuta prudenza e ben noto negli ambienti internazionali, tutti sanno che non avrebbe mai firmato una legge tenuta insieme con lo spago e gli elastici. Però questa Legge è, in buona sostanza, un bilancio di previsione: sta insieme se le previsioni che si sono fatte, a proposito ad esempio della crescita economica (e quindi delle entrate fiscali) sono ragionevoli. In questi ultimi anni l’Italia è diventata famosa per mettere nero su bianco previsioni di crescita manicomiali: a un certo punto si era persino detto che quest’anno avremmo avuto una crescita dell’l,1 per cento. Invece andremo indietro dello 0,3 per cento, ma c’è anche chi parla dello 0,4 per cento. Su questo punto, che poi è il cuore della Legge di Stabilità, si può stare certi che il confronto con di Bruxelles non sarà semplice.

Il terzo filtro è rappresentato dal Parlamento. E qui la faccenda si complica. Per due motivi. In primo luogo c’è che i deputati approfittano sempre dell’arrivo della Legge di Stabilità per cercare di infilarvi dentro qualcosa per i loro protetti. Ma c’è un altro aspetto parlamentare da tener presente. Non è un mistero che a molti deputati e senatori questa manovra non piace. Inoltre c’è una certa quota di onorevoli che farebbe qualunque cosa pur di vedere Renzi ruzzolare insieme alla sua Legge di Stabilità. Il confronto parlamentare, quindi, sarà una prova politica fra le più difficili per il premier.

Infine c’è l’ultimo filtro: i sindacati. Renzi ha dato l’impressione, fin qui, di non curarsene molto, a causa della loro relativa impopolarità presso gli elettori. Però, se alla fine ci si trova davvero con un milione di persone in piazza e con la prospettiva di uno sciopero generale, bisognerà inventarsi qualcosa. Non sono più i tempi del governo Rumor, quando bastava l’annuncio di uno sciopero generale per provocare le dimissioni del governo. Però, insomma, non si potrà nemmeno cavarsela con due battute e tre tweet. Oggi nessuno può dire che cosa resterà della Legge di Stabilità dopo il passaggio in questi quattro filtri. Si sa solo che “qualcosa” entro la mezzanotte del 31 dicembre va approvato.

Stabilità, rotta da correggere

Stabilità, rotta da correggere

Davide Giacalone – Metronews

La legge di stabilità dovrà essere riscritta. Non tutto è sempre riconducibile a questioni di schieramento politico. Non tutto può essere considerato risolto solo perché si ha una maggioranza parlamentare. Esiste anche la realtà, con cui fare i conti. Il governo ha impostato la legge di stabilità volendo darle un carattere espansivo. La scommessa consiste nell’avere introdotto facilitazioni e sgravi fiscali, oltre a una fetta significativa di spesa pubblica in deficit, che inducano le imprese ad assumere e investire, mentre i consumatori a spendere e comprare. Scommessa politicamente legittima e, nella sua enunciazione, anche apprezzabile. Ma nella sua stesura ci sono contraddizioni.

Prendiamo il caso del Tfr: mettere parte del Trattamento di fine rapporto, da subito, nelle buste paga, significa puntare a dare più liquidità, infondere fiducia, invogliare a usare quei soldi. Sarebbe un bene, se non fosse negato dalla legge stessa, visto che incassare immediatamente un rateo di Tfr sarà a scelta del lavoratore, ma se sceglie di incassare dovrà pagare più tasse subito (perché perde l’aliquota agevolata) e se sceglie di continuare ad accantonare paga più tasse sui risparmi. Qualsiasi cosa scelga, gli costerà fiscalmente più di quel che gli costa oggi. Difficile credere che una roba simile risvegli l’ottimismo. Ragionevole immaginare che, anzi, solleciti la necessità di mettere da parte (magari nel materasso), visto che il fisco grattugia quel che serve per il domani.

Contraddizioni analoghe si trovano anche in altri punti della medesima legge. Lo scomputo del costo del lavoro dall’Irap vale solo per i contratti a tempo indeterminato, ma è a tempo determinato, vale solo tre anni. L’impresa non vive di sconti momentanei, ma di certezze sulla struttura dei costi. Fisco compreso. Non avvio un costo di lunga durata sol perché c’è un’agevolazione momentanea. Non si tratta solo degli esami europei. Sui quali molto ci sarebbe da dire. Prima di tutto occorre sanare le contraddizioni della legge. Non sempre buscando ponente si trova il levante, e se buschi il nord per il sud vai incontro a morte per congelamento. Se una rotta contiene errori, meglio correggerla prima di salpare.

Fra l’uscio e il muro

Fra l’uscio e il muro

Marcello Mancini – La Nazione

I tagli del patto di stabilità hanno messo le Regioni fra l’uscio e il muro. Ora dovranno trovare il verso di far quadrare i conti. I governatori attaccano: «Saremo costretti noi ad alzare le tasse»; «Renzi invita a cena con i soldi degli altri». Detto così può sembrare anche un ragionamento giusto: il premier si fa un altro spot («È la più grande riduzione di tasse mai fatta da un governo della Repubblica») mentre scarica sulle Regioni l’antipatica responsabilità di recuperare da qualche parte i finanziamenti che i rubinetti statali smetteranno di erogare.

L’istantanea e rabbiosa reazione di tutte le Regioni, però, non convince per nulla. Prima di tutto perché non può piangere miseria e minacciare di ritorsioni (più tasse) sui cittadini, una categoria di politici che negli ultimi anni ha prodotto le evoluzioni di Fiorito-Batman, le aragoste a colazione, le mutande verdi di Cota e le prodezze di un esercito di inquisiti che hanno fatto man bassa dei nostri soldi, sottraendoli alle casseforti regionali. Proviamo invece a leggere i tagli di Renzi come una spallata alla Casta, un modo per dire: arrangiatevi voi. Troppo facile rifarsela con i cittadini.

Che le Regioni siano una sacca di sprechi e di burocrazia non è una scoperta recente. Gonfiate negli anni da assunzioni clientelari, consulenze esterne milionarie, missioni e uffici all’estero, appropriazione di funzioni figlie della megalomania di qualche assessore, hanno creato canali di spese inarrestabili. Perciò molti hanno pensato – soluzione assai condivisibile – che invece di abolire le Province sarebbe stato più logico ridimensionare le Regioni. a questo avrebbe comportato una botta per migliaia di posti di lavoro. Allora la strada scelta da Renzi è un modo per costringere i governatori a guardarsi in casa e tirare la cinghia sul serio. Il presidente dei governatori, Sergio Chiamparino, si è avventato su patto di stabilità con una tale violenza, nonostante sia un renziano della prima ora, da far pensare che i cannoni della manovra abbiano centrato il bersaglio.

Costa fatica muoversi dalla pigrizia amministrativa, che ha lasciato correre soldi senza badare troppo a dove finivano (pensate alle spese dei gruppi consiliari che, fuorché in Toscana, sono sotto inchiesta), salvo poi bussare alla porta del salvifico decreto romano. È il momento di studiare soluzioni nuove e far calare la spending review su qualche allegra scampagnata finanziaria, sopravvissuta ai risparmi. In Toscana il non-renziano Enrico Rossi ha già messo le mani avanti – eppure con il freno a mano tirato, rispetto a Chiamparino – e ha ipotizzato un superticket sui servizi nella Sanità. «Paghino i ricchi» è il ritornello trotskista di Rossi, già brandito per difendere i servizi dei treni pendolari divorati dall’Alta velocità colpevole di non costare abbastanza ai privilegiati passeggeri. A parte che bisognerebbe capire fin dove Rossi – in questo nostro disgraziato sistema – estende il concetto di «ricchi», gli consigliamo di ripensare anche ai costi della politica sanitaria, agli sprechi trascorsi (il buco Asl di Massa; il magazzino Estav di Calenzano, pagato 20 milioni e inutilizzato) e alle future strategie: la scelta, per esempio, di dirottare su Massa tutta la cardiochirurgia, non chiarisce quale sarà il ruolo del Meyer di Firenze, sul quale la Regione ha investito ma che sta ignorando in settori delicati come oncoematologia, traumatologia e urologia. Vanno bene tutti i ticket del mondo – tanto pagano i ricchi! – ma almeno i soldi spendeteli bene.

La sinistra fa condoni ma gli cambia nome

La sinistra fa condoni ma gli cambia nome

Maurizio Belpietro – Libero

Basta la parola, diceva Tino Scotti in un famoso spot di Carosello quando la tv era ancora in bianco e nero. Eh, si, basta la parola. O meglio, basta cambiare la parola e tutto diventa più accettabile. Da losco e brutto che era, con una parola diversa il provvedimento di un governo può diventare infatti ineccepibile e perfino bello. Ecco, si cancelli dunque il termine condono e lo si sostituisca con sanatoria, che derivando da sanare, cioè rendere sano, non fa lo stesso effetto di condono, che già da solo fa intravedere un dono. Anzi, meglio, chiamiamo la all’inglese voluntary disclosure, rivelazione volontaria, manco fosse l’annunciazione. E così, il tanto esecrato condono fiscale, ossia la madre di tutti gli orrori che a detta della sinistra favoriscono l’evasione fiscale, cambia nome e con il governo del cambiamento di verso diventa sanatoria fiscale.

A darne notizia ieri era la gazzetta dei compagni, ossia il giornale che ha tenuto a battesimo l’ascesa del presidente del Consiglio e di tutti i leader progressisti negli ultimi anni. Sulla Repubblica di Carlo De Benedetti, editore che ama a tal punto l’Italia da aver trasferito la sua residenza in Svizzera, si poteva infatti apprendere del prossimo arrivo di una sanatoria da 6 miliardi e mezzo. «Con il rientro dei capitali», titolava il quotidiano diretto da Ezio Mauro, «sconti a chi ha evaso in Italia». Magari ai lettori di Repubblica sarà saltata la mosca al naso a leggere che alla fine anche il governo del rottamatore rottama la lotta a chi ha portato i soldi all’estero, tuttavia per tranquillizzare chi aveva avuto il buon cuore di acquistarne una copia, il giornale di piazza Indipendenza precisava che sì, per i furbi ci sarebbero state sanzioni ridotte e reati cancellati – tranne che per chi ha emesso fatture false e si è macchiato di reati di mafia – ma la legge avrebbe imposto di dichiarare il nome del possessore di patrimoni non denunciati e il pagamento delle imposte.

Eh, già, ma quali imposte? n provvedimento vidimato alla Camera e ora in discussione al Senato dovrebbe imporre un’aliquota media del 37 per cento nel caso i soldi siano del tutto sconosciuti al fisco, mentre quelli su cui non si sono pagate le cedole potrebbe essere tassato con un’aliquota media del 6,75 per cinque anni. Insomma, un bei risparmio per gente che fino a ieri rischiava di vedersi requisito il patrimonio. Oggi invece con la nuova normativa in corso di approvazione, il contribuente infedele potrà tenersi il malloppo versando un po’ di soldi all’erario e senza alcun rischio penale. Considerato poi che le sanzioni applicate per il rientro di capitali all’estero che non erano stati dichiarati sono ridotte della metà e alla fine si pagherà l’1,5 per cento se le somme erano detenute in paesi appartenenti alla white list (e cioè non considerati paradisi fiscali) e del 3 per cento se invece sono depositati in banche che risiedono nei luoghi della black list (tipo quelle svizzere, dove sta l’80 per cento dei capitali all’estero) si capisce che la cosiddetta “voluntary disclosure”, ossia collaborazione volontaria dell’evasore, è assai conveniente. condono – pardon, la sanatoria consente di tenersi i soldi, versando le tasse non pagate a rate e con un’aliquota media comunque assai più conveniente di quella che si sarebbe stati costretti a pagare se si fosse dichiarato tutto al Fisco. Anche perché l’aliquota media per certi redditi (sopra i 300 mila) è pari al 45 per cento, mentre per certe aziende va oltre il 50. Insomma, se – pur con i ritocchini linguistici e i giochi di parole del politically correct – la sinistra è arrivata a varare un condono fiscale, significa che il governo sta proprio raschiando il barile nella speranza di trovare quei miliardi che gli servono per varare la legge di stabilità.

Del resto la sanatoria con l’erario non è l’unica notizia che fa intendere come il governo sia con l’acqua alla gola. È di ieri l’annuncio che dopo aver tassato i fondi pensione e introdotto la tassazione ordinaria (cioè meno favorevole per il contribuente) per il Trattamento di fine rapporto, l’esecutivo si appresta a far slittare di dieci giorni il pagamento delle pensioni, spostando la scadenza di erogazione dei vitalizi dalla fine del mese al dieci del mese successivo. La novità – che verrà introdotta a partire da gennaio – consentirà all’Inps – e dunque a Palazzo Chigi che ne ripiana le perdite – di guadagnare una decina di giorni sull’erogazione delle somme a chi si è ritirato dal lavoro, un ritardo che permetterà allo Stato di risparmiare un po’ di quattrini. In genere questi trucchi li fanno le banche, che sulla valuta di pochi giorni costruiscono parte dei loro guadagni. Adesso il gioco lo fa anche il Tesoro, il quale si abbassa al livello dei caimani dello sportello. A quando dunque l’introduzione di altre gabelle tipo quelle che gli istituti di credito sono soliti infilare nei loro estratti conto? Di questo passo per incassare la pensione presto si dovrà pagare.

Col Tfr in busta pensioni giù fino al 22%

Col Tfr in busta pensioni giù fino al 22%

Fosca Bincher – Libero

Cedere alla proposta di Matteo Renzi e aderire alla proposta sul “Tfr nello stipendio” potrebbe mettere a rischio e non di poco quella pensione integrativa che faticosamente si è tentato di fare mettere da parte in questi anni. La certezza di vedere diminuire l’assegno c’è per tutti: alla fine dei conteggi mancheranno quei versamenti a cui si rinuncia ora per incassare subito (facendosi per altro tassare di più quella somma). Ma il taglio sarà tanto maggiore quanto più vicini alla pensione si è ora. A segnalarlo, una simulazione ancora una volta assai preziosa fatta dalla Fondazione studi dei Consulenti del Lavoro: farsi ingolosire dalla sirena di Renzi potrebbe costare fra l’8 e il 22% dell’assegno mensile di previdenza integrativa che si percepirà quando si potrà andare in pensione.

Proprio la percentuale più alta chiarisce bene un punto chiave: quella possibilità di ottenere il Tfr in busta paga non è un dono fatto dal governo ai contribuenti italiani, ma la proposta di un prestito dietro cessione di un quinto dello stipendio e con grande lucro da parte dello Stato, che incassa un bell’interesse sull’operazione attraverso la maggiore imposizione fiscale. Per il contribuente italiano è più svantaggioso però di un normale prestito ottenuto da qualsiasi banca o finanziaria: perché in quel caso la cessione del quinto dello stipendio sarà limitata al raggiungimento della somma chiesta in anticipo più i relativi interessi. Nel caso proposto da Renzi sul Tfr la cessione del quinto (o del decimo nei casi più lievi) della pensione integrativa futura varrà tutta la vita, e quasi sempre supererà ampiamente il vantaggio economico che ora si percepisce.

Sono tre le simulazioni fatte dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro: quella di un giovane di 33 anni entrato nel mondo del lavoro nel 2007, aderendo fin dal primo giorno al sistema di previdenza integrativa con accantonamento del proprio Tfr. Il secondo caso è invece quello di un lavoratore di 43 anni assunto nel 1997 che versa il proprio Tfr alla pensione integrativa dal 2007. Terzo caso, quello di un lavoratore sessantenne, più vicino all’età della pensione: assunto la prima volta nel 1980, versa anche lui il Tfr alla pensione integrativa dal 2007. Aderendo alla proposta Renzi tutti e tre avranno tagliato per i mancati versamenti fra il 2015 e il 2018 la propria pensione integrativa.

Sarà un escalation: quel lavoratore assunto nel 2007 perderà il giorno in cui andrà in pensione l’8% del proprio assegno di pensione integrativa. E lo perderà dal giorno in cui lo percepirà fino al giorno in cui chiederà gli occhi. Quindi per 20-30 anni a seconda della lunghezza della propria vita. In valore assoluto ovviamente l’erosione dell’assegno futuro dipenderà dalla retribuzione oggi percepita: il danno va da 481,12 euro su 17 mila lordi di stipendio a 2.886,73 euro circa su 100 mila euro di stipendio.

Secondo caso: età 43 anni e ingresso nel mondo del lavoro datato 1997. Aderendo oggi alla proposta Renzi sul Tfr, l’assegno di pensione integrativa verrà tagliato dell’11% per tutta la vita. Anche in questo caso sono state ipotizzate tre fasce di reddito attuale, e in valore assoluto la diminuzione della pensione integrativa andrà da 386,95 a 2.321,69 euro l’anno (con fasce di reddito fra 17 e 100 mila euro lordi annui).

Terzo caso, quello del sessantenne che ha iniziato a lavorare nel 1980. Per lui scegliendo proprio alla vigilia della pensione il Tfr in busta paga, la perdita percentuale sull’assegno di pensione integrativa sarà la più alta: -22% dell’importo. In valore assoluto si oscilla sugli stessi redditi ipotizzati per gli altri fra 242 e 1.452 euro (in valore assoluto più si è anziani più si abbassa l’importo di pensione integrativa a cui si ha diritto, perché i versamenti sono iniziati solo a fine carriera, nel 2007).

I danni sono dunque rilevanti, ed è giusto che la scelta venga fatta con tutti i calcoli su vantaggi e svantaggi. Anche se è chiaro fin da ora che chiunque aderisca alla proposta Renzi perderà comunque soldi. Ne perderanno rispetto ad ora ovviamente anche le gestioni dei fondi pensione (che però recupereranno in futuro i danni sul vitalizio del lavoratore), mentre il solo ad avere vantaggi economici sarà lo Stato, che con questa proposta incasserà più tasse di prima. E non poche. Il solo vantaggio del lavoratore è avere a disposizione un po’ di liquidità in più che pagherà molto cara. Se proprio c’è bisogno di quei soldi, forse è più conveniente un prestito tradizionale in banca.

Noi scudi umani

Noi scudi umani

Giovanni Morandi – Il Resto del Carlino

Per capire se ha ragione Renzi a tagliare 4 miliardi alle Regioni o le Regioni che non ne vogliono sapere potremmo fare un referendum. E già che ci siamo potremmo chiedere se abbia ancora senso tenersi questi baracconi inutili per i cittadini, ma utilissimi per coloro che vi mettono piede e scoprono di poter vivere a nostre spese. Amara conclusione di un’età in cui c’era chi aveva il cuore verde di passione, almeno fino a quando non si sono accorti che era una passione che viaggiava cash per le spesucce più varie, per i figli, le amanti, gli amici, le case, le auto da corsa, le lauree in Albania e cose del genere.

Qualcosa mi dice che se si votasse le cose si metterebbero male per quelli che in modo altisonante amano farsi chiamare governatori. Governatore è colui che governa, ma che cosa governano questi che per loro ammissione sono solo passacarte, intermediari tra Stato e strutture sanitarie verso le quali va il 75 per cento del loro bilancio? Ci costano 180 miliardi e se li abolissimo sicuramente risparmieremmo. Potrà essere sgradevole dire queste cose ma è inevitabile dopo aver visto la loro scomposta reazione appena hanno saputo che le loro casse sarebbero state tagliate, sebbene nemmeno di tanto. Hanno fatto le vittime. Come se gli italiani non ricordassero gli scandali con le centinaia di politici che pensavano a far la bella vita non alla salute nostra. Per non parlare di quella truffa che sono le Regioni a statuto speciale, dove lo spreco è istituzionalizzato. Perché dovrebbero avere più denaro delle altre? 150 milioni solo per il consiglio regionale siciliano.

I governatori pensavano di prenderci come scudi umani, o ci date quei 4 miliardi o togliamo le spese alla sanità. Un’uscita che si chiama solo in un modo: ricatto. Ci provino, se ne accorgeranno. La verità è che la levata di scudi ha dimostrato che si sono solo preoccupati di difendere il proprio status, per continuare a disporre di fiumi di denaro. Ha fatto male Renzi a pensare che indicando il saldo del taglio le Regioni avrebbero deciso da sole come disporre della propria quota di denaro. L’unica cosa invece che hanno detto è stata: e noi aumentiamo le tasse. Ci provino e così vedranno come si sloggia dai grattacieli che si sono costruiti. Altra cosa sono i Sindaci, è vero che ci sono migliaia di Comuni microscopici, ma i sindaci e i Comuni rappresentano identità, storie specifiche, appartenenze, culture, sono le radici della nostra società e vanno conservati, tutt’altra cosa dalle Regioni che, in quanto enti non in quanto territori, non hanno mai rappresentato nessuno se non quel sottobosco politico che trovava in quei grattacieli un motivo di consolazione ben remunerato.

Quarant’anni di storia delle Regioni non sono bastati a dare loro un senso alla loro esistenza. Sono sempre state, sono e saranno solo enti per burocrati gonfi di denaro pubblico. Che ci siano o non ci siano, non fa nessuna diflerenza. Solo la spesa cambia. Se non ci fossero i finanziamenti andrebbero direttamente alle strutture sanitarie, anziché passare prima dalle Regioni che poi provvedono a ridistribuirli. È un passaggio in più e un risparmio in meno.

I “dettagli” che zavorrano la manovra

I “dettagli” che zavorrano la manovra

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

A quattro giorni dall’approvazione della legge di stabilità in Consiglio dei ministri, ancora nessun testo più o meno ufficiale è disponibile. Non è forse una novità, è però certamente un malcostume che non aiuta la credibilità del modo in cui in Italia si fanno le leggi. Viene da chiedersi, per dirne una, che cosa sia stato mandato a Bruxelles e che testo stiano analizzando i tecnici della Commissione in vista del giudizio di fine mese. Ieri sera da Palazzo Chigi si è fatto trapelare che per domani un testo sarà pronto per il Quirinale, non rimane che attendere. Intanto dalle bozze che stanno circolando si possono cominciare ad analizzare alcuni aspetti tecnici che dalle prime slide non erano emersi. Resta, allora, confermato il giudizio complessivamente positivo di una manovra a carattere espansivo, che dà e non toglie, in una fase di risorse più scarse che mai. Una manovra che taglia tasse e riduce (o almeno prova) spesa pubblica improduttiva. E tuttavia i nodi che meritano un approfondimento, e magari un ripensamento in Parlamento, non mancano.

Il taglio dell’intera componente lavoro dalla base imponibile Irap (che vale intorno ai 6 miliardi) è uno dei risultati più importanti di questa manovra. Impossibile sottovalutarne il peso, in termini effettivi di risparmio per le aziende e in termini di fiducia nella creazione e nella difesa di posti di lavoro. La copertura della misura è però garantita per una parte (2,1 miliardi) dal dietrofront rispetto alla riduzione del 10% dell’aliquota Irap stabilita con il decreto Irpef del maggio scorso. L’aliquota ordinaria Irap, dunque, tornerà dal 1° gennaio prossimo al 3,9% (dal 3,5%). Va anche considerato, poi, che – sempre in base alle bozze disponibili – il taglio previsto dalla Legge di stabilità si limita al costo del lavoro dipendente a tempo indeterminato, escludendo i lavori a termine e i collaboratori. Tutto questo significherà che talune aziende, quelle che non hanno o hanno pochissimi dipendenti stabili, saranno – per effetto della manovra – penalizzate. Per tutte le aziende, poi, viene meno la deduzione dell’Irap dall’imponibile Ires: questo è ovvio, ma riduce ulteriormente la portata – comunque positiva – del taglio dell’Irap.

Anche la cancellazione dei contributi per i primi tre anni per chi assume a tempo indeterminato è una misura che va nella giusta direzione di creare incentivi per le imprese a creare posti di lavoro stabili. Gli sgravi, tuttavia, valgono solo per le assunzioni effettuate nel 2015 e per chi non ha lavorato a tempo pieno nei sei mesi precedenti. Non si tratta, dunque, di una misura definitiva, mentre va a sostituire un beneficio permanente che è quello previsto dalla legge 407 del 1990, in base alla quale i disoccupati da oltre due anni potevano essere assunti a zero contributi (o con il 50%) per un triennio. Salta anche lo sconto contributivo legato alla prosecuzione di un anno dei contratti di apprendistato dopo il triennio. La cancellazione dei contributi prevede inoltre un tetto annuo di 6.200 euro. Questo significa che potranno giovarsi dell’abbattimento totale solamente i contratti che sono intorno alla soglia retributiva limite, per tutte le altre retribuzioni lo sgravio sarà parziale. Non basta. L’incrocio tra tetto e somme stanziate permette di stimare in 161mila le possibili assunzioni annue, molto meno di quelle stimate dal Governo. Senza considerare, infine, il tentativo di una parte del Pd di far inserire nel testo la clausola che, se il rapporto di lavoro si interrompe prima dei tre anni, l’imprenditore sarebbe costretto a pagare tutti i contributi arretrati. Un modo per rendere più incerto l’incentivo e ridurre la spinta che può venire dalla misura.

Contraddittoria con la linea affermata dal Governo nel Jobs act appare anche la scelta di tagliare 200 milioni al Fondo che incentiva la contrattazione aziendale. Sulla scarsa convenienza fiscale del Tfr in busta paga per chi ha redditi oltre i 15mila euro e sui rischi per la liquidità delle imprese è già stato detto tutto. Va però anche segnalato il rischio di un ulteriore aggravio di procedure burocratiche per le aziende, legato alla certificazione Inps e alla pratica con la banca. Sui tagli di spesa vale la pena soffermarsi. In riferimento a Regioni e Comuni non si può che essere d’accordo con Renzi: i governatori hanno tutta la possibilità di far fronte ai tagli attraverso una maggiore efficienza della spesa ed eliminando gli sprechi. Vi sono Regioni (analisi di Gianni Trovati sul Sole di ieri) che, per il proprio funzionamento, spendono 192 euro pro-capite contro altre che si limitano a 22; Regioni che hanno una spesa corrente di 619 euro pro-capite a altre che si fermano a 275; Regioni che spendono per il personale 174 euro e altre solo 12. Gli spazi per l’efficienza e i risparmi, dunque, ci sono, eccome.

Ma è sui ministeri che il Governo deve dimostrare di saper fare la propria parte. In una tabella preparatoria della manovra sono indicati tagli molto specifici per oltre 3 miliardi, missione per missione, nella logica (quasi) di una vera spending review. Nella bozza della legge a oggi disponibile, quei tagli – come hanno raccontato sul Sole Marco Rogari e Marco Mobili – si riducono a poco più di 1,4. Cosa ne è di tutto il resto? Ci si piegherà ancora una volta alla logica degli interventi lineari, limitandosi a indicare l’obiettivo del 3% di riduzione? O si recupererà quella tabella voce per voce, magari con i dovuti aggiustamenti? Tra i due metodi c’è tutta la distanza che passa tra un Governo che si prende le proprie responsabilità e uno che demanda ad altri le scelte impopolari.

Sull’azzardo di mettere tra le coperture le stime della lotta all’evasione Il Sole-24 Ore si è soffermato tante volte, ma va anche detto che il Governo questa volta ha prudentemente messo da parte una riserva di 3,4 miliardi che può tornare utile, in questo senso, anche nella trattativa con l’Europa. Sul credito d’imposta alla ricerca si parte solo da 260 milioni, una cifra certamente insufficiente e si lega l’incentivo esclusivamente agli incrementi di spesa, anziché al volume complessivo degli investimenti, come chiedevano le imprese. Viene inglobato, tra l’altro, il bonus oggi esistente per l’assunzione dei ricercatori. È francamente poco per riattivare gli investimenti privati. Lo sconto Irap, certamente, dovrebbe fare di più. Ma quello che manca del tutto in questa manovra sono gli investimenti pubblici. Gli 1,7 miliardi che (come racconta Giorgio Santilli a pagina 2) il Governo ha reso disponibili in questi giorni in attuazione dello “Sblocca-Italia” sono utili, ma sono una goccia. Laddove il mare non può che essere, per un Paese con le nostre difficoltà di finanza pubblica, un mare europeo. Renzi ha più volte invocato una maggiore concretezza per il piano Juncker. Ma anche quando si parla di investimenti europei c’è una fondamentale responsabilità nazionale, che è quella di fornire buoni progetti.

L’Italia in questi anni è mancata totalmente in questa sfida: pochi buoni progetti e pochissima capacità di trovare il matching con i finanziamenti. In questi giorni finalmente c’è un tavolo governativo (coordinato da Del Rio e Pagani per conto di Padoan) che sta lavorando con gli uomini della Bei proprio per individuare i progetti possibili. C’è da augurarsi che produca risultati concreti. Perché non c’è dubbio che – come ha sottolineato il Governatore Visco proprio ieri nel suo intervento a Bologna – il rilancio dell’occupazione e della crescita può passare solo attraverso una ripresa degli investimenti. In attesa, certo, del testo definitivo della manovra.