legge di stabilità

Sulla spesa il fronte più difficile

Sulla spesa il fronte più difficile

Stefano Lepri – La Stampa

La questione non è più tanto se la Commissione europea accetterà questi numeri, quanto se li considererà verosimili. Gli obiettivi che il governo si pone con la legge di stabilità approvata ieri sera appaiono validi. Le risorse per raggiungerli non è chiarissimo come saranno trovate; 3,8 miliardi dalla lotta dell’evasione fiscale e 15 da tagli alle spese sono cifre di grande ambizione. Matteo Renzi l’ha definita una manovra di bilancio «anticiclica», ossia, in gergo economico, volta a rilanciare l’economia. Non è esattamente così. Nelle grandi cifre, è grosso modo neutrale; scelta corretta rispetto all’intervento ulteriormente recessivo che sarebbe risultato da una applicazione schematica delle regole europee. Potrà essere espansiva se sarà costruita bene, sostituendo soldi ben spesi a soldi mal spesi. Al calo del prelievo fiscale, 8 miliardi aggiuntivi ai 10 già promessi, dovrebbe accompagnarsi una vera riduzione di spese poco utili. Potrà esserlo se le grandi riforme, come spera Piercarlo Padoan, avranno effetti pronti sulla fiducia di chi lavora e di chi investe.

Tre ipotesi sono possibili. Primo, gli interventi sulla spesa saranno maldestri; l’esperienza passata sui «tagli lineari» ci dice che cambiano poco e per di più non durano. Secondo, i tagli sono fittizi e il deficit 2015 oltrepasserà la soglia del 3%, con rialzo dei tassi sul debito e sanzioni europee. Terzo, i tagli saranno ben concepiti, e proprio per questo solleveranno una tempesta di resistenze. Purtroppo incidere sulle cattive erogazioni di denaro pubblico per una cifra così grande, 12,3 miliardi aggiuntivi rispetto alle misure già in corso, richiede che si colpiscano interessi costituiti ben capaci di difendersi. È già partita al contrattacco la politica locale, dove gli sprechi sono assai diffusi. Vedremo nelle prossime ore chi altri alzerà le barricate.

Solo riforme efficaci e un uso migliore delle risorse possono azzittire chi in Europa vorrebbe costringerci a una regola – quella dell’«obiettivo di medio termine» – sorpassata dall’evolversi della crisi. L’Italia l’aveva fatta propria, inserendola anche nella Costituzione, dopo gli enormi rischi corsi nel 2011; rispettarla quest’anno significherebbe altri posti di lavoro in meno. Tutta l’economia mondiale non riesce ad uscire appieno dalle difficoltà, come mostrano anche i dati giunti ieri dagli Stati Uniti; il ribasso del greggio segnala timori di recessione. E’ assurdo dare la colpa di tutto all’austerità nell’area euro, visto che anche Svezia e Svizzera sono in deflazione; varie sono le cause se anche la gran parte dei Paesi emergenti rallenta. In passato, il vincolo delle regole esterne ha fatto solo bene all’Italia, ponendo freni alla cattiva politica. Ora una azione di rilancio spetterebbe alla Germania, che ha i bilanci in ordine. Non lo vuole fare, per una debolezza politica interna che ributtata all’esterno sembra forza; e allora il male di gran lunga minore è che l’Italia temporaneamente vi si sottragga.

I rischi ci sono. Lo mostra la Grecia, che nell’attuale fase di calma dei mercati finanziari progettava di sottrarsi in anticipo alla sorveglianza della troika (Commissione europea, Bce, Fmi). Meglio che non lo faccia – si vede in queste ore – soprattutto perché politicamente non è stabile, elezioni anticipate non possono essere escluse, con una vittoria dell’estrema sinistra. L’Italia non è né fragile come la Grecia né altrettanto malmessa; però è anche otto volte più grande. Per questo gli altri Paesi dell’area euro diffidano di noi. Dobbiamo loro chiarezza di propositi; e, magari, anche la lucidità di indicare verso quali regole migliori potremmo muoverci tutti insieme.

Renzi azzera i contributi sulle assunzioni ma la burocrazia potrebbe far fallire tutto

Renzi azzera i contributi sulle assunzioni ma la burocrazia potrebbe far fallire tutto

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

È una proposta non nuova per gli italiani. Negli ultimi anni diverse forze politiche hanno proposto l’azzeramento dei contributi per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. La peggiore recessione del secondo dopoguerra abbinata alla deflazione e accompagnata da un cuneo fiscale che scoraggerebbe perfino la voglia di fare impresa dei tedeschi hanno prodotto il record italiano della disoccupazione giovanile: +44,2%. Ovvio che un premier di attacco, quale Matteo Renzi sicuramente è, non poteva restare fermo ai soli annunci. Non sorprende, quindi, la sua decisione di varare nella nuova legge di Stabilità la decontribuzione triennale al 100% sui contratti a tempo indeterminato. Decisione, peraltro, accompagnata dall’eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile Irap. Una scossa vera, dunque, al cuneo fiscale italico che punta al cuore delle aspettative di imprenditori e manager per farle girare verso il quadrante positivo della congiuntura economica.

Oggettivamente si tratta di decisioni sempre promesse dal duo Berlusconi-Tremonti e mai realizzate in tanti anni di governo. Renzi con la nuova legge di Stabilità completa l’opa ostile, iniziata con gli 80 euro e il primo taglio dell’Irap del 10%, sull’elettorato un tempo del Cavaliere e indossa, senza se e senza ma, i panni della socialdemocrazia riformista tedesca. Il pericolo per il premier a questo punto è soltanto uno: quello incarnato dalla burocrazia italiana oggettivamente inadeguata a rendere operative rapidamente le politiche anticicliche adottate dai governi. I ministeri fanno marcire nei cassetti le norme pro sviluppo e pro occupazione e quando, dopo vari anni dalla pubblicazione in G.U. del dl che le conteneva, le rendono operative non servono praticamente più a raggiungere lo scopo per cui erano state varate.

Il caso del Mise e del cosiddetto bonus fiscale per le assunzioni altamente qualificate è esemplare. Introdotto con decreto dal governo Monti nel giugno del 2012 è diventato operativo solo il 15 settembre del 2014 (solo per le assunzioni del 2012 ovviamente; quelle fatte quest’anno saranno incentivate nel 2016!). Chi assume un PhD nel 2012 per avere un credito di imposta nel 2015? In pratica nessuna impresa, come ora certificano i dati della stessa procedura. Dei 25 milioni di euro messi a disposizione dal Mise per il 2012, ben 20.125.982, cioè più dell’80%, sono ancora disponibili dopo un mese dall’avvio del clickday. Trattandosi di assunzioni relative al 2012 possiamo già considerare chiusa la procedura. Morale: quando la burocrazia impiega ben 27 mesi per rendere operativa una norma anticiclica ne uccide la capacità di incidere. La vera nemica del riformismo di Renzi, oggi, è proprio questa pubblica amministrazione da terzo mondo.

La scommessa con Bruxelles e il giro di boa

La scommessa con Bruxelles e il giro di boa

Oscar Giannino – Il Messaggero

La legge di stabilità varata ieri dal governo è una sfida: all’Europa, ai mercati e, in chiave interna, soprattutto alle imprese italiane. È una sfida che in Parlamento non avrà vita facile, come si è visto già dal singolo voto di margine con cui è stata approvata la nota di variazione del Def. Ma per Renzi è la sfida complessiva del suo governo. Vedremo presto se l’Europa – la vecchia commissione Barroso, la nuova Juncker – accetteranno il criterio avanzato da Renzi e Padoan. Quanto ai mercati, è un’incognita vera, come si è visto dalla traumatica giornata di ieri. Per le imprese, al contrario, l’occasione c’e. Ma bisogna stare attenti a non sopravvalutarla.

Il problema con l’Europa è che la sospensione unilaterale adottata dall’Italia della riduzione del deficit per mezzo punto annuo, e di un ulteriore margine di quasi 2 punti di Pil per ridurre il debito pubblico – che continuerà ad aumentare – si fonda su un criterio statistico di identificazione dell’ouput gap, cioè del divario tra andamento reale del Pil e quello potenziale, effetto della perdurante recessione italiana. Il criterio condiviso sin qui tecnicamente in Europa ci metteva al riparo da interventi su un deficit 2014 che sara superiore al 3%, ma non da quelli richiestici nel 2015. Com’è ovvio, il problema non è tecnico, ma politico. La scommessa di Renzi e Padoan è che la Francia sta peggio di noi, visto che noi rinviamo al 2017 l’azzeramento del deficit corretto per il ciclo mentre la Francia fino al 2017 non scende sotto il 3%. Ma il problema resta. Se l’Europa ci farà obiezioni dure non a caso il governo si tiene a disposizione un fondo di riserva quantificato in 3,4 miliardi di euro nella legge di stabilità varata ieri. Ma la scelta forte è di rinviare il ritorno a manovre incisive antideficit al 2016-2018, mentre nel 2015 ben 11 miliardi dei 36 di spesa della manovra sono finanziati in deficit. Se non basterà neanche il fondo di riserva, Renzi e Padoan terranno duro: pronti adire che l’Europa – e naturalmente la Germania, dipende tutto da lei – sbagliano, e l’Italia no. A costo di farne un cavallo di battaglia elettorale, drenando il terreno sotto i piedi degli anti euro, da Grillo alla Lega al resto della destra.

La scommessa sull’Italia è di un ritorno delle imprese ad assumere e a investire. Per questo la manovra è cresciuta nei giorni, e domenica scorsa Renzi ha convinto Padoan della necessità di aggiungere ai poco meno di 10 miliardi necessari a confermare – senza estendere – il bonus 80 euro, anche i 5 miliardi di totale abbattimento della componente Irap che tassa gli occupati (e che le imprese pagano anche quando sono in perdita), e i quasi 2 miliardi necessari per l’azzeramento dei contributi per tre anni ai nuovi assunti a tempo indeterminato. Qui il rischio c’e, insieme alla grande occasione.

L’abbattimento dell’Irap è la misura più saggiamente pro-crescita adottata da anni a questa parte. Aiuta le imprese ad alta densità di occupati, dalle banche alle multiutilities pubbliche ai grandi gruppi, ma non è detto che la ripresa dei margini che consente (per alcuni di un paio di punti percentuali, per altri fino al 4-6%) davvero si traduca subito in investimenti e assunzioni. Come nel caso degli 80 euro ai lavoratori dipendenti (e del Tfr che ora i lavoratori dipendenti privati, non pubblici, potranno ora chiedere in busta, garantito dallo Stato e dall’Inps e anticipato dalle banche), per larga parte ricostituirà margini pesantemente erosi, più che alimentare nuovi consumi. La differenza vera può farla solo un quadro diverso della domanda interna ed estera, ogni entrambe per ragioni diverse differentemente sofferenti. La scelta di reiterare il maxi incentivo alle assunzioni a tempo indeterminato rischia il bis del flop già realizzato col decreto Letta-Giovannini, ma è il prezzo da pagare al fatto che il governo sia di sinistra, e dunque creda di decidere lui al posto delle imprese quali contratti siano preferibili.

I 18 miliardi di meno tasse, a cui il governo tiene molto, dimenticano di sottrarre i 3,6 miliardi di entrate aggiuntive da risparmiatori, previdenza integrativa meno agevolata e fondazioni bancarie, il miliardo previsto dalle slot machine, i 3,8 miliardi contabilizzati ex ante dall’evasione fiscale (a proposito: ma l’impegno di restituire parte del gettito da evasione ai contribuenti invece di usarlo per pagare spesa di Stato, quando lo manteniamo?). Ma dall’altra parte il governo prevede anche 800 milioni di sgravi alle piccole partite Iva, e mezzo miliardo di aumento delle detrazioni alle famiglie, per i carichi familiari numerosi. Ed è un bene.

Su alcune poste rilevanti della cosiddetta spending review – che purtroppo non è quella di Cottarelli – c’e ancora molto da capire. Mentre i 4 miliardi di risparmi dei ministeri sono credibili, e altrettanto i 3 da procedure centralizzate sugli acquisti, i 6 da Regioni, Comuni e Province sommati sono invece tutti da verificare. Sulla riduzione drastica delle partecipate locali e sulla riduzione dei Comuni, promesse quest’estate nella legge di stabilità, al momento sembra non esserci nulla. E il rischio molto forte è di un deficit 2015 non solo fuori linea rispetto agli impegni europei, ma oltre il 3% che il premier tanto invece smentisce.

I mercati sono sopravvalutati, ha detto ieri il ministro Padoan. Sorprendendo molti, perché non tocca a un ministro dirlo. I mercati ieri hanno ricordato a tutti che basterà una sorpresa negativa sugli stress test bancari, una debolezza greca, una sorpresa negativa italiana, perché il rallentamento della crescita tedesco e americano, sommato a quello cinese e brasiliano, alla crisi mediorientale e a quella russo-ucraina, rifacciano innalzare il premio al rischio del debito dei paesi eurodeboli. Non solo l’Italia può ritrovarsi a quota 300 di spread in men che non si dica. Ma, soprattutto, Draghi e la Bce a differenza del 2012 e 2013 hanno oggi le polveri bagnate. Padoan e Renzi queste cose le sanno benissimo, eppure hanno deciso di rischiare forte. Forti del fatto che sono soli in campo, attualmente, nella politica italiana.

Trovare i soldi, nella bufera

Trovare i soldi, nella bufera

Il Foglio

“La differenza tra la finanziaria 2014 e quella 2015 è che ci sono 18 miliardi di tasse in meno. Tutto qui”, ha twittato ieri mattina Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio, prima di riunire il governo in serata per approvare la legge di stabilità da inviare a Bruxelles e in Parlamento, non ha nominato nemmeno il predecessore, Enrico Letta, ma il confronto al momento è impietoso. Nell’ottobre 2013, Letta le tasse le ridusse di soli 3,7 miliardi per l’anno successivo, in una manovra di 11,6 miliardi. Renzi punta ad alleggerire il fardello per i contribuenti di 18 miliardi su una manovra di oltre 30 miliardi. Domanda più che legittima: ma come è possibile che Renzi d’un tratto, dopo gli ultimi anni di manovre levigate con un timido cesello, trova invece i soldi per tentare uno stimolo robusto dell’economia? Perdipiù nei giorni in cui le nubi di una nuova tempesta finanziaria si avvicinano minacciose superando di parecchio il proverbiale orizzonte?

Un primo indizio si trova proprio nel fosco scenario internazionale. Ieri la Borsa di Atene ha perso 6,32 punti: si teme che la fretta di abbandonare la tutela della Troika (Ue, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) e l’accelerazione verso possibili elezioni faccia deragliare il percorso di risanamento. Proprio lì dove la crisi dell’euro è deflagrata nel 2010. Contemporaneamente l’attesa per i risultati degli esami della Bce sulle banche europee trascina giù un po’ tutti i listini (Milano ha perso 4,4 punti). Si aggiunga il calo sempre più rapido dei prezzi del petrolio e un qualsiasi dato statunitense peggiore del previsto: la congiuntura economica mondiale rallenta, e per l’Eurozona già a rischio deflazione non è un belvedere. “Un possibile nuovo choc recessivo per l’Italia, associato a un rallentamento europeo e a segnali di un certo tipo che arrivano dalle urne… Qualcuno, anche a Bruxelles, si è allarmato”, dice Sergio De Nardis, economista di Nomisma. Anche così si spiega “il percorso potenzialmente in conflitto con la Commissione” avviato dal governo Renzi che rinvia il pareggio di bilancio strutturale al 2017 e conta (per trovare circa 11 miliardi) sull’aumento del deficit nel 2015 dal 2,2 al 2,9 per cento del pil. Le regole europee per stringere i bulloni della finanza pubblica, tra cui il noto Fiscal compact, furono finalizzate tra 2011 e 2012: allora Bruxelles e i mercati dicevano con una sola voce che il default degli stati era possibile ed era necessario un segnale. Due anni dopo, con un “whatever it takes” di Mario Draghi alle spalle che ha placato lo spread, i vincoli austeri di Bruxelles non sono cambiati, ma Fmi, analisti e agenzie di rating hanno cambiato musica: l’ortodossa Berlino se ne faccia una ragione, la crescita viene prima di tutto. I dati di contesto contano, dunque, poi c’è il quid di spavalderia connaturato al premier rottamatore: “Renzi fin dall’inizio ha insistito sullo ‘sviluppo’ – dice Paolo De Ioanna, economista che ha coperto ruoli di governo e ai vertici della Pa – Ora, per la prima volta rispetto agli ultimi due governi, l’effetto netto della legge di stabilità sarà espansivo e non riduttivo”.

“La forza politica di Renzi è un ingrediente di questa finanziaria di cui non si può non tenere conto”, aggiunge De Nardis. Così, mentre ieri l’Abi (Associazione bancaria italiana) rompeva tutti gli indugi sull’idea del tfr in busta paga, si registra pure un cambiamento di tono della Confindustria che giudica “un sogno” il tris composto da stabilizzazione del bonus di 80 euro, abbattimento dell’Irap per 6,5 miliardi e decontribuzione sui nuovi contratti a tempo indeterminato. Le risorse per fare tutto ciò e pagare le spese indifferibili, oltre che nel deficit (11 miliardi) e nella consueta lotta all’evasione fiscale (3 miliardi), si troveranno in tagli alla spesa per oltre 15 miliardi. Cifra monstre pure questa per i nostri standard, da recuperare tra regioni, enti locali, ministeri e acquisti di beni e servizi della Pa. Se la spending review non basterà, ed è probabile, il governo procederà con tagli lineari. Il Parlamento capirà, dicono spavaldi nell’esecutivo. Altrimenti toccherà far scattare le clausole di salvaguardia (leggi: aumenti di tasse). E sarà proprio così, secondo autorevoli “gufi”, che alla fine si troverà invece una risposta alla domanda di cui sopra: ma com’è possibile che oggi Renzi i soldi li trova, e nemmeno pochi?

Manovra nel solco del New Deal, l’asso è il Tfr

Manovra nel solco del New Deal, l’asso è il Tfr

Stefano Patriarca – Europa

Una politica economica anticiclica e affronti il nodo del lavoro deve aumentare la domanda aggregata (consumi e investimenti) e contestualmente agire sulle condizioni dell’offerta che sia il mercato del credito, del lavoro, della concorrenza, delle condizioni di contesto. Agire solo sull’offerta sarebbe inutile, se per le imprese non cambiano le aspettative e la domanda, se non ha sete “il cavallo non beve” per quanta acqua gli metti davanti. Ma se le aspettative si invertono le condizioni dell’offerta diventano decisive. Per questo non esiste l’alternativa “prima la crescita e poi la regolazione” o viceversa, è una discussione come quella sull’uovo e la gallina. La più grande operazione anticiclica fatta, il New Deal di Roosevelt fu un grande mix di interventi sull’offerta e sulla domanda (e per questo anche Keynes ebbe da ridire).

La legge di stabilità e gli altri provvedimenti del governo muovono passi in quella direzione. Per la prima volta da molti anni si utilizza lo strumento del finanziamento in deficit. La legge di stabilità sceglie di operare tagli sulla spesa pubblica (certo inferiori al previsto ma senza toccare sanità e pensioni, e senza aggravare la situazione occupazionale), tagli ai quali corrisponde un’equivalente operazione di riduzione di tassazione per imprese e famiglie, più ulteriori interventi di detassazione finanziati in deficit, tra i quali il rilevante finanziamento degli ammortizzatori sociali. Un’operazione che a vincoli europei immutati è una sorta di cubo di Rubik, ma sicuramente positivamente innovativa. Ci si deve interrogare piuttosto sul livello di efficacia dell’intervento in termini di input anticiclico. È noto infatti che gli effetti moltiplicativi sull’economia dei una riduzione di tassazione, sono molto più lievi e lenti rispetto ad interventi diretti di domanda aggiuntiva fatti tramite investimenti o consumi.

È proprio per rendere efficace l’intervento che la manovra ha calato una sorta di asso: il Tfr in busta paga. Si tratta di una sorta di quattordicesima che tutti i lavoratori possono liberamente decidere di avere ora, riducendo il risparmio futuro. Da tempo ho sostenuto che tale operazione fosse importante e necessaria. L’impatto sul reddito di una famiglia può essere del 7%, su tutti i consumi tra l’1 e il 2%, sul Pil tra lo 0,8 e 1,5% (in relazione a quale sarà l’adesione dei lavoratori).

Se le condizioni concrete di attuazione saranno coerenti con le enunciazioni (condizioni che ho sottolineato più volte come essenziali), l’operazione ipotizzata dal governo non graverà sulle imprese (perché l’anticipazione sarà a carico delle banche), non costituirà un aumento fiscale per i lavoratori perché la tassazione sarà separata (come quella che il lavoratore avrebbe alla fine del rapporto di lavoro) per le banche (remunerate con il conveniente tasso di capitalizzazione del Tfr indicizzato all’inflazione) è una forma di impiego risk free, più redditizia dell’impiego in titoli pubblici e utile anche alla stabilizzazione finanziaria degli impieghi.

Finalmente si intacca un vero tabù della nostra società: il fatto che la crescita dipenda sostanzialmente da quanto si risparmia e che il benessere futuro possa essere solo a scapito del benessere di oggi. Siamo un paese che risparmia più di ogni altro in case, che ha una ricchezza pensionistica futura (anche con il sistema contributivo) comparabile e spesso superiore a quella degli altri paesi europei, che ha quote di ricchezza finanziaria superiori alla media europea, che può permettersi di investire all’estero 35 miliardi del Tfr che le imprese italiane hanno versato, che destina a risparmio quasi il 45% del monte retribuzioni. E questo spesso in nome di una falsa valutazione sulle future pensioni pubbliche che avranno una tasso di sostituzione più basso dell’attuale (eccessivamente alto), ma adeguato. Nessun sistema al mondo può garantire pensioni floride con un disastroso mercato del lavoro e senza crescita. La garanzia del reddito futuro non è solo in quanto si risparmia, ma in quanto si cresce, in quanto sarà qualitativamente alto e non barbarico il mercato del lavoro, in quanta occupazione aggiuntiva vi sarà per i giovani.

Quando la crisi provoca una disoccupazione rilevante specie per i giovani, anticipare un po’ di ricchezza futura dei meno giovani per finanziare consumi, redditi e posti di lavoro è un segnale importante, perché mentre si predica loro di non vivere da cicale, si eviterà di ritrovarsi con un mondo di giovani formiche morte, alle quali anche se affamate sarebbe vietato di mangiare un po’ di quel cibo che stanno portando all’ammasso per le generazioni precedenti.

Irap, la piccola impresa risparmierà oltre 10mila euro in un anno

Irap, la piccola impresa risparmierà oltre 10mila euro in un anno

Fabio Savelli – Corriere della Sera

Il risparmio per il conto economico sarebbe di circa 720 euro per dipendente. Ipotizzando che l’azienda ne abbia quindici (la gran parte delle piccole imprese italiane è al di sotto della fatidica soglia fissata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), questo significa un minor peso fiscale di 10.762,50 euro all’anno, presumendo che si tratti di una realtà da 1,3 milioni di euro di fatturato e con un costo di produzione di poco inferiore, di circa 1,1 milioni di euro.

La simulazione – condotta dal gruppo di studio torinese Eutekne, che analizza quotidianamente i cambiamenti normativi in materia di fisco – parte dal presupposto della deducibilità integrale ai fini Irap del costo dei lavoratori dipendenti, misura inserita dal governo nel disegno di legge di Stabilità. Allo stato attuale – senza cioè l’intervento sulla componente costo del lavoro dell’imposta regionale per le attività produttive – l’azienda campione paga all’erario oltre 16mila euro all’anno, presumendo che l’ammontare complessivo del costo del lavoro (stipendi, contributi, tasse) sia stimabile attorno ai 600 mila euro all’anno (di cui 180 mila di contributi previdenziali e assistenziali e 420 mila di pura retribuzione). La somma interamente deducibile sarebbe pari a 292 mila euro, immaginando un’aliquota fissata al 3,5% (aliquota disciplinata dalle regioni in maniera non uniforme e in una forbice che può arrivare fino al 4,9%).

Rilevano i commercialisti Giancarlo Allione e Luca Fornero, autori del dossier, che la misura dell’esecutivo sanerebbe l’attuale squilibrio tra un’azienda che produce in Italia e un’altra che ha delocalizzato all’estero, dove non esiste l’Irap. Ecco perché gli esperti di Eutekne definiscono l’imposta un «mostro giuridico», perché finora ha incentivato le aziende a portare lavoro oltre-confine e perché l’assegno recapitato all’erario è proporzionale al numero di dipendenti e di collaboratori.

In filigrana si può affermare che la deducibilità integrale Irap per i lavoratori avvantaggerà le grandi imprese, perché sono quelle che hanno un maggior numero di dipendenti. Di più: il calcolo va tarato su base regionale anche perché – oltre alla differente aliquota applicata – è diverso anche il peso delle deduzioni. Perché nelle regioni meridionali il risparmio d’imposta sarà minore per la fiscalità di vantaggio delle aree più svantaggiate. Da quest’anno la deduzione forfettaria per chi lavora a tempo indeterminato in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia risulta già pari a 15 mila euro (dai 9.200 del 2013), mentre nelle altre regioni è esattamente la metà: 7.500 euro. Così la misura finirà per avvantaggiare soprattutto le imprese del Nord che potranno usufruire di un maggiore sconto fiscale. Al netto di una minore deducibilità del tributo regionale ai fini Ires e Irpef. Restano comunque le altre due voci dell’Irap: quelle sui profitti e sugli interessi passivi. Altri due balzelli difficilmente comprensibili per chi produce all’estero e vuole venire da noi.

Ciò che i numeri non dicono

Ciò che i numeri non dicono

Enrico Marro – Corriere della Sera

Lasciamo in secondo piano il braccio di ferro con Bruxelles. Per certi versi ridicolo, ruotando sull’ipotesi di un aggiustamento dei conti pubblici italiani dello zero virgola, che costerebbe un paio di miliardi, su un bilancio che conta 835 miliardi di spese e 786 miliardi di entrate. Concentriamoci invece sulle due misure chiave della prima manovra del governo Renzi: 1) 5 miliardi di taglio dell’Irap, con un risparmio medio per le aziende di circa 700 euro all’anno su ogni dipendente; 2) 1,9 miliardi per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni a tempo indeterminato. Due misure che si sommano alla conferma degli 80 euro per dieci milioni di dipendenti, con positivi aggiustamenti a favore delle famiglie numerose e delle partite Iva a basso reddito. Complessivamente, la riduzione del cuneo fiscale è apprezzabile, a vantaggio delle imprese e delle retribuzioni nette. Inoltre, il contratto a tutele crescenti, previsto nel Jobs act, non solo costerà meno delle altre forme contrattuali, ma non avrà il vincolo del vecchio articolo 18 sui licenziamenti.

Questo insieme di misure va nella direzione giusta. Ma non basterà a rilanciare la crescita, se non saranno soddisfatte due condizioni: 1) il rilancio degli investimenti, a partire da un completo e miglior uso dei fondi strutturali europei (44 miliardi nel 2014-20); 2) la credibilità dell’Italia sulla capacità di onorare l’enorme debito pubblico e, gradualmente, di ridurlo. Su questi due punti la politica del governo non ha fatto un salto di qualità.

Il taglio della spesa scaricato per 7 miliardi su Regioni, Comuni e Province rischia di tramutarsi nell’ennesimo aumento delle imposte locali. Privatizzazioni e dismissioni immobiliari restano al palo. Quanto agli investimenti pubblici, sono previsti dallo stesso governo in calo. Il debito pubblico salirà anche nel 2015: al 133,4% del Prodotto interno lordo, dal 131,6% del 2014. Oppure dal 127,8% di quest’anno al 129,7% del prossimo, togliendo i 60,3 miliardi che finora l’Italia ha tirato fuori per finanziare i fondi europei salva Stati, di cui hanno beneficiato Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna e Cipro.

Spinta al limite

Spinta al limite

Francesco Riccardi – Avvenire

Questa volta per valutare meglio il quadro occorre partire dalla cornice, dal contesto in cui la legge di stabilità è stata varata ieri a tarda sera. Una giornata di “tempesta perfetta” sui mercati finanziari, con il crollo delle Borse mondiali, Italia compresa, sui timori di nuove difficoltà della Grecia e del suo sistema bancario. Con lo spread sui titoli di Stato che è tornato a rialzare la testa dopo mesi di calo. Un mercoledì non da leoni, ma da gamberi, con l’Istat che conferma l’andamento negativo del Pil nel terzo trimestre, sceso al valore più basso dall’inizio del 2000. Insomma, se gli altri Paesi hanno da tempo superato il punto di caduta della crisi (pur se nuove nubi si addensano sulla Germania, e non solo) noi siamo stati rispediti nel Novecento e diventa sempre più difficile riproiettarci nel XXI secolo. Un ritorno al futuro condizionato anche e soprattutto dai vincoli posti dall’Unione Europea, dai quali non si può prescindere, ma che devono poter essere interpretati anche con saggia flessibilità.

Mentre nelle città italiane si cerca ancora di “asciugare” lacrime e ferite delle alluvioni – concreta e lancinante metafora di un Paese che non può non fare il necessario per mettersi in sicurezza e risollevarsi – il Consiglio dei ministri ha approvato ieri una manovra lievitata da 30 a 36 miliardi (con 18 miliardi di riduzione delle imposte) che sta in questa cornice, deve starci per forza per poter passare da un lato il vaglio dei rigidi controllori di Bruxelles e dall’altro per evitare di alimentare nuove speculazioni finanziarie contro l’Italia. Una manovra da “rallista” potremmo definirla, in cui si è obbligati a giocare di freno sulla spesa pubblica e di acceleratore sui tagli fiscali, per tenere a bada il deficit sotto il 3% e, contemporaneamente, dare la necessaria spinta a un sistema economico sempre più imballato. Un percorso a filo del burrone, tra le curve di una congiuntura sempre più difficile e la prostrazione di imprese, lavoratori e famiglie dopo 7 anni di “carestia”.

Bene perciò la spinta sull’acceleratore dello sviluppo rappresentato dal consistente taglio dell’Irap, che ha fortemente penalizzato le imprese negli ultimi anni e dagli sgravi per le partite Iva. Bene pure la cancellazione dei contributi, senza pregiudicare la posizione previdenziale dei lavoratori, per chi assume personale a tempo indeterminato. Qualsiasi misura oggi riduca il costo del lavoro è utile e “benedetta”, anche se in questo caso occorre rendere strutturale lo sconto, ridurre il cuneo fiscale e contributivo sull’intera durata di un rapporto di lavoro stabile, se davvero si vuol mantenere fede a quanto promesso nel Jobs act (e cioè che il contratto a tempo indeterminato deve essere la forma di lavoro privilegiata e più conveniente).

Positiva è anche la conferma degli 80 euro per i redditi medio-bassi. E, sebbene il beneficio non sia stato allargato a incapienti e famiglie numerose (come chiesto molte volte su queste colonne) va registrato l’impegno da 500 milioni di euro promessi a favore della famiglia. Ci piace considerarli come un positivo “anticipo” – il saldo lo attendiamo con la delega fiscale – per ristabilire quel minimo di equità a cui hanno diritto i nuclei con figli e che non può essere ulteriormente procrastinato. Sospeso il giudizio sull’operazione “Tfr in busta”: occorrerà valutare quanti lavoratori sceglieranno di riceverlo subito e in che misura ciò spingerà effettivamente i consumi.

Dove invece il quadro della manovra appare tratteggiato in maniera più incerta, in attesa di leggere i testi definitivi, è la parte relativa ai tagli di spesa pubblica: 15 miliardi più o meno equamente divisi tra Ministeri, Regioni, beni e servizi della Pubblica amministrazione, Comuni e Province. C’è il rischio infatti che ciò si traduca non in maggiore efficienza della spesa pubblica, ma semplicemente nella riduzione di prestazioni sanitarie e di servizi a livello locale, proprio mentre la tassazione in questi ambiti va aumentando e pesando sempre più sui cittadini onesti. Così come alto è il rischio che la Commissione europea chieda maggiori sforzi e non si accontenti di una riduzione strutturale del deficit di appena lo 0,1% o di coperture, come quelle previste dalla lotta all’evasione, che potrebbero risultare aleatorie.

Per tentare di far ripartire il Paese, pur restando all’interno delle ferree regole europee, occorreva puntare su tre fattori decisivi: le imprese e il lavoro; le famiglie e le persone in condizione di povertà. Il primo obiettivo sembra centrato in pieno, il secondo solo parzialmente, sul terzo manca qualsiasi iniziativa. Probabilmente, nelle condizioni date, “fare di più” era impossibile. Ma “fare meglio” è un impegno che non finisce stanotte.

Il vero peso delle misure in arrivo

Il vero peso delle misure in arrivo

Luca Ricolfi – La Stampa

Nel giro di pochi giorni la cosiddetta «manovra» per il 2015 è passata da 20 a 30 miliardi di euro. Secondo Renzi «si tratta della più grande operazione di taglio di tasse tentata in Italia e di una spending review mai vista». Ma in che cosa consiste la manovra? Se dovessi spiegarla ai miei studenti la metterei così. Cari ragazzi, quando un governo fa una manovra ci sono sempre un lato propagandistico e un lato effettivo. Sono importanti entrambi, ma vanno tenuti ben distinti. Il lato propagandistico è rilevante perché serve a comunicare le priorità del governo. Con la manovra annunciata ieri, Renzi ci dice tre cose tutte e tre sacrosante e condivisibili. Primo: che vuole ridurre drasticamente gli sprechi della Pubblica amministrazione, con una spending review di 13,3 miliardi. Secondo: che vuole ridurre drasticamente le tasse, con sgravi pari a 18 miliardi di euro (di cui 10 per il rinnovo del bonus da 80 euro). Terzo: che vuole azzerare i contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato.

Fin qui tutto bene, il messaggio è chiaro, anche se in conflitto con quanto annunciato in precedenti occasioni e documenti ufficiali (nell’ultima intervista sulla spending review, ad esempio, i miliardi risparmiati non erano 13,3 ma 20, dopo essere stati 17 fino al giorno prima). Adesso però guardiamo il lato effettivo, ossia la sostanza della manovra. Che cosa contiene effettivamente la manovra da 30 miliardi di cui si sta parlando in questi giorni? Per capirlo dobbiamo dimenticare completamente la parte propagandistica e rispondere a tre domande: di quanto diminuiscono le spese totali della Pubblica amministrazione? Di quanto diminuiscono le entrate? È realistica la promessa di azzerare i contributi sociali ai nuovi assunti a tempo determinato?

Ed ecco le risposte, o meglio quel che si riesce a capire in attesa di un documento ufficiale. Le spese della Pubblica amministrazione non si riducono affatto di 13,3 miliardi ma solo di 4,1 miliardi, perché accanto ai 13,3 miliardi di tagli programmati ve ne sono 9,2 di nuove spese, come il finanziamento degli ammortizzatori sociali, gli obblighi contratti dal governo Letta, o le cosiddette spese inderogabili. Le tasse pagate dagli italiani non si riducono affatto di 18,3 miliardi, perché gli sgravi promessi sono bilanciati da 5,2 miliardi di nuove entrate, e quindi la riduzione effettiva della pressione fiscale scende a 13,1 miliardi di euro (che comunque non è poco). Va da sé che la differenza fra minori tasse (13 miliardi di sgravi) e minori spese (4 miliardi di riduzione della spesa pubblica) verrà coperta in deficit, ovvero messa in conto alle generazioni future. Quanto alle assunzioni a zero contributi bastano alcuni semplici calcoli per scoprire che potranno riguardare al massimo 1 caso su 10, ossia 100-150 mila persone su oltre 1 milione e mezzo di assunzioni a tempo indeterminato.

Fin qui i conti nudi e crudi. Ma, al di là delle cifre, che giudizio si può dare della manovra? Difficile fare valutazioni senza un testo ufficiale. Per quel che riesco a capire, l’idea del governo è che aumentando il deficit di circa 10 miliardi e ritoccando la struttura del bilancio pubblico si possa dare una spinta significativa alla domanda interna. E’ una linea di keynesismo debole (facciamo deficit, ma non troppo) che mi auguro possa funzionare, ma che si espone ad almeno un paio di obiezioni.

La prima è che aumentare il deficit di «soli» 10 miliardi, e ridurre la pressione fiscale di soli 13 miliardi, potrebbe non bastare a far ripartire i consumi ma potrebbe essere più che sufficiente a far ripartire lo spread, con conseguente ulteriore aggravio dei conti pubblici. Non so perché così pochi osservatori lo facciano notare, ma è da circa un mese che la tendenza dello spread dei titoli di Stato italiani è all’aumento, ossia al peggioramento. Ed è da sei mesi che i mercati hanno ricominciato a differenziare i rendimenti richiesti ai vari Paesi dell’euro, un comportamento che nel 2011 ha preceduto e annunciato la bufera finanziaria che portò alla caduta di Berlusconi e all’insediamento di Monti. In questo senso la mossa di Renzi di aumentare il deficit anziché ridurlo potrebbe rivelarsi un azzardo.

La seconda obiezione è che il meccanismo previsto per stimolare le assunzioni, ossia la cancellazione dei contributi sociali per gli assunti a tempo determinato, ha tre difetti abbastanza gravi: riguarda pochissimi lavoratori (perché con 1 miliardo non si può fare molto), non si finanzia da sé (perché non aumenta in modo apprezzabile il Pil), ha effetti occupazionali trascurabili (perché non è vincolato al requisito di aumentare gli occupati).

È proprio per evitare simili inconvenienti che, nei giorni scorsi, su questo giornale abbiamo provato ad aprire una discussione su una proposta alternativa, quella di un contratto a decontribuzione totale ma riservato alle imprese che incrementano l’occupazione (il job-Italia). Un contratto che, secondo le stime della fondazione David Hume, creerebbe almeno 300 mila nuovi posti di lavoro all’anno, e non costerebbe nulla allo Stato. Non so se la nostra proposta sia la più efficace possibile, ma resto convinto che creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, sia una priorità assoluta per il nostro Paese, perché è la mancanza di lavoro l’elemento che più differenzia noi (e la Grecia) da tutte le altre economie avanzate. E’ questo, a mio parere, il terreno più importante su cui la manovra andrebbe giudicata: perché è questo il terreno su cui si gioca il futuro dell’Italia.

Legge di stabilità, una manovra da Nobel se abbasserà le tasse

Legge di stabilità, una manovra da Nobel se abbasserà le tasse

Quelle uniche 24 ore alla macchina utensile sono costate al generoso imprenditore 400 euro (sì, quattrocento euro), tra apertura e chiusura della posizione, contributi, dichiarazioni e bolli vari. L’episodio rivela quanto ormai sia urgente abbassare le tasse sull’occupazione e sulle aziende che la creano e quanto ogni passo falso del premier Renzi su una materia così verrà considerato una colossale presa in giro.

Questo è il paese dove viviamo: troppe tasse, troppa spesa improduttiva, troppe carte, poca certezza del diritto, poca fiducia. Serve una scossa più che una scommessa. E se il governo riuscirà nell’impresa titanica di far rialzare la testa a un’Italia impaurita e perduta grazie ad una legge di stabilità di 30 miliardi di euro che dà e non toglie, non ci sarà che esserne felici. L’impresa, a dire il vero e leggendo dati economici e prescrizioni contabili europee, sembra quasi disperata, ma una cosa il presidente del consiglio sembra averla capita bene: ogni euro di risorsa trovata nelle pieghe di bilancio, frutto della spending review, della riduzione dell’avanzo primario che farà aumentare il deficit di 11 miliardi o di qualche spremitura del settore dei giochi, deve andare a sostenere il lavoro che c’è ancora e a promuovere quello che manca. Per questo, almeno sulla carta, in attesa di vedere l’andamento delle legge finanziaria in Parlamento e di ascoltare le immancabili raccomandazioni della commissione europea (che non è detto debba per forza bocciare questa manovra italiana, vista la tempistica del passaggio di consegne tra Barroso e Juncker), sembra obbligata la strada intrapresa dall’esecutivo: l’azzeramento dei contributi per tre anni per le assunzioni a tempo indeterminato, il taglio da 6,5 miliardi di euro dell’imponibile Irap legato al costo del lavoro, la conferma del bonus da 80 euro e la possibilità di utilizzare il Tfr in busta paga, vanno tutte nello stesso verso di rilanciare il fatturato e il bilancio di famiglie e imprese. E c’è da chiedersi che effetti si sarebbero potuti ottenere già dal 2012 con una politica economica del genere, invece di sospendere per un anno l’Imu, tornata più alta e complicata di prima nel 2014. Probabilmente, ci sarebbero più soldi in cascina e nei salvadanai, perché quella misura del governo Letta si è rivelata un terribile boomerang.

La formula meno tasse, più lavoro, più consumi, più crescita, sulla carta può quindi funzionare; nella pratica, date le condizioni oggettive dell’economia e della finanza pubblica e la vigenza delle norme del fiscal compact (che si fa finta siano state sospese, ma così non è), appare per ora un numero da novelli Houdini delle regole di bilancio più che da Keynes del XXI secolo. Può andare a buon fine ma anche avere effetti mortali se il Pil non riprenderà a marciare. Anzi, Renzi potrebbe meritarsi addirittura il Nobel quanto meno del coraggio, con questa manovra da 30 miliardi quasi tutta finanziata con nuova spesa e per l’altra metà coperta da una mostruosa operazione di revisione della stessa. Un premio che Bruxelles e Berlino non hanno però alcuna intenzione di conferire a scatola chiusa all’ex sindaco, perché sanno bene che il nostro paese è attanagliato da decenni di immobilismo, strangolato da un debito monstre, soverchiato da uno stato pachiderma, offeso da 120 miliardi di evasione annua. Troppo per sperare di farcela da soli, così, nel giro di due settimane. Ma sperare è lecito, provarci doveroso. Come auspicabile è augurarsi che la riduzione della spesa, dopo l’addio di Cottarelli, non si riduca in tagli lineari che altro non faranno che contrarre i servizi e magari gli stanziamenti agli agonizzanti enti locali. Per una volta, forse l’ultima, possiamo dimostrare ad altri paesi che stanno peggio ma vincono i veri premi di Stoccolma, che un’altra Italia è possibile e che quei 400 euro possono essere restituiti all’imprenditore, abbassando le tasse e migliorando i servizi.