liberalismo

Il liberalismo quale alternativa al socialismo

Il liberalismo quale alternativa al socialismo

Carlo Lottieri

Ogni teoria della giustizia è in qualche modo una teoria egualitaria, in virtù del fatto che nel momento stesso in cui pone le proprie regole essa deve pretendere che tali criteri siano applicati in maniera uniforme e coerente. Se ad esempio difendiamo una prospettiva meritocratica, è evidente che uguali comportamenti devono ricevere identico trattamento. E così anche quando nelle società rigidamente stratificate si distinguevano i membri dell’aristocrazia dalle altre categorie sociali, era chiaro che tale differenziazione implicava il principio di una “comune dignità” tra tutti quanti erano parte a pieno titolo dell’élite.
Se in un modo o nell’altro ogni ordine legale pretende una formale equiparazione (o equalizzazione) degli individui, la prima lezione che bisogna ricavare è che le maggiori tensioni politico-culturali riguardano i criteri a partire dai quali definiamo il tipo di eguaglianza che consideriamo giusta e degna di essere perseguita.
Alla base del pensiero liberale c’è l’idea di una comune dignità di tutti gli uomini. È ovvio che in ogni società vi sono santi e criminali, eroi e vigliacchi, saggi e mascalzoni, ma ogni essere umano merita un rispetto che discende direttamente dal suo appartenere all’universalità umana. La tesi teologica propria del cristianesimo, che vede in ogni individuo un “figlio di Dio”, si è storicamente convertita nell’universalismo liberale, che è premessa al riconoscimento ad ognuno di diritti fondamentali e inalienabili.
In parte, il socialismo è debitore verso questa impostazione. Nella tradizione che include il marxismo, la socialdemocrazia e il welfare State, a ogni uomo vanno garantite quelle libertà fondamentali senza le quali l’esistenza stessa non sarebbe degna di essere vissuta. Ma mentre i liberali chiedono semplici tutele “formali” (il diritto di non essere aggrediti), il socialismo si propone di assicurare a chiunque reddito, lavoro, istruzione e cure mediche, e così via.
Questa posizione ha un elemento paradossale. In fondo, i teorici socialisti accusano il liberalismo di perseguire un’uguaglianza a metà: che permetta e chiunque d’intraprendere, ma che non garantisce affatto sui risultati. In una società liberale non è considerato “ingiusto” che qualcuno possa morire di fame o che un ragazzo intelligente non possa accedere agli studi superiori. Simili situazioni sono spiacevoli e ognuno è chiamato ad agire perché le cose cambino, ma non c’è necessariamente un crimine all’origine di tali realtà. Nella logica del collettivismo statalista, invece, l’obbligo morale di aiutare il prossimo si converte in potere per le istituzioni politiche.
Nel combattere le diseguaglianze di fatto i socialisti finiscono per produrre risultati inattesi, che forse essi stessi rigetterebbero se solo fossero consapevoli delle conseguenze dei loro stessi assunti teorici.
L’obiettivo egualitario su cui sono costruite le società socialiste implica una redistribuzione delle risorse, e quindi un apparato politico-burocratico che si faccia carico di tutto ciò. Questo spiega perché in ogni società di welfare, come già nei paesi comunisti, vi sia una super-classe che ottiene innumerevoli privilegi in nome della necessità di “accudire gli orfani e proteggere le vedove”.
Oltre a ciò, il ceto incaricato di affermare una più alta giustizia si considera legittimato a usare la coercizione. In questo modo la stratificazione sociale non è più l’esito della differente fortuna imprenditoriale, della lotteria naturale dei talenti o della libera scelta di chi dona ad altri le proprie risorse o le lascia in eredità ai figli: essa è il frutto della pianificazione autoritaria che è secreta dal gioco politico e dalla volontà degli interessi più forti e organizzati che a esso prendono parte.
Essendo una teoria centrata sullo Stato e volta a vedere nella giustizia solo un prodotto della pianificazione pubblica, il socialismo – nelle sue varie forme e nei suoi vari colori – è quindi il nemico fondamentale della libertà individuale, del pluralismo, della responsabilità. Al di là delle apparenze, esso è una concezione avversa a ogni progresso e novità, e soprattutto intimamente nemica di quell’attitudine a discriminare (a scegliere, optare, privilegiare) che è al cuore stesso della libertà degli individui.
Realismo politico e teoria liberale

Realismo politico e teoria liberale

Carlo Lottieri

Esiste un legame molto stretto tra liberalismo e realismo politico. Gli autori liberali si sono sempre sforzati di guardare l’universo sociale e politico evitando di confondere i desideri e la realtà: Questo talvolta può avere spinto verso il pessimismo, ma certamente ha tenuto questa tradizione assai lontana da illusioni infondate.
Larga parte degli studi della Public Choice School, ad esempio, mostra che i comportamenti “interessati” e opportunistici di politici, imprenditori, sindacalisti e funzionari pubblici finiscono per convergere in una somma di piccole o meno piccole “cospirazioni”, le quali favoriscono una dilatazione del potere pubblico. I contadini difendono i sussidi europei, gli insegnanti il posto fisso, i farmacisti il sistema delle licenze, e il risultato è che l’insieme di questi egoismi danneggia tutti e ostacola la crescita della società.
Tutto questo fu analizzato con grande acume da Vilfredo Pareto, che mostrò – anche sulla scorta degli insegnamenti di Frédéric Bastiat – come in ogni iniziativa pubblica i benefici tendano a essere immediati (mentre i costi sono posticipati), visibili (mentre i costi sono invisibili) e concentrati (mentre i costi sono dispersi). In tal modo è facile prevedere che ogni progetto statalista avrà un’ampia probabilità di avere successo, vincendo l’opposizione di quanti, invece, vogliono in ogni modo contenere l’espansione del potere.
Tale realismo, a ogni modo, non deve toglierci la speranza. Una simile espansione dei poteri pubblici, in effetti, non può procedere in maniera illimitata, dato che le conseguenze sono sempre catastrofiche. Un ordine sociale basato sulla pianificazione, sulla redistribuzione, sull’ingegneria sociale e sulla redistribuzione egualitaria non è destinato a durare in maniera indefinita. Il suo esito naturale è l’estinzione: come è successo all’impero romano nella sua fase finale e come sta succedendo all’Europa contemporanea.
Questo significa che una società può essere facilmente condotta verso una crescente statizzazione da una serie di convergenze di interessi (e non solo da ciò, poiché l’imporsi di talune ideologie gioca la sua parte), ma alla fine è costretta a pagarne il prezzo. Anche il più resistente dei muri di Berlino alla fine crolla.
Questo succede per un motivo assai semplice. Una società basata sulla proprietà privata, sulla tolleranza, sul rispetto della libertà contrattuale e sul diritto di associazione è semplicemente in sintonia con la natura umana. E ogni sistema sociale che invece si oppone alle logiche di fondo della libertà costruisce un tale intrico di problemi che, in tempi anche relativamente rapidi, porta alla distruzione quell’ordine sociale.
Tutto ciò risulta assai chiaramente quando si considera, ad esempio, uno degli effetti principali dell’intervento pubblico: il parassitismo organizzato. Mentre in una società liberale ognuno trae di che vivere dai beni e dai servizi che mette a disposizione del prossimo, in una società statizzata è anche possibile avere redditi che superino il milione di euro accumulando incarichi alla guida di enti pubblici: com’è successo, appunto, in Italia.
In questo senso la strategia parassitaria è una strategia – sul piano individuale – assai vincente. Ma che succede al corpo sociale in tale situazione? Fatalmente esso declina. In natura come in società, il moltiplicarsi dei parassiti porta alla morte il soggetto parassitato: l’albero perde le foglie e i produttori smettono di lavorare. Quando ci si ribella alla natura e alle sue regole elementari, prima o poi il conto si paga ed è salato.
Questo deve indulgere a un qualche ottimismo. Può darsi che la ragionevolezza si manifesti solo quando tutto sarà distrutto e lo statalismo avrà trasformato l’Europa in una specie di deserto sociale ed economico. Oppure è possibile che – anche sulla scorta di qualche eccezione virtuosa – ci si renda conto che è bene tornare alle sane leggi del mercato. Una cosa però è chiara: la libertà può essere calpestata, ma non senza che questo produca conseguenze molto negative.
Per tale ragione chi crede nella responsabilità individuale, nella proprietà privata e nel contratto deve nutrire una qualche fiducia nel fatto che, prima o poi, questi valori saranno riconosciuti anche da quanti oggi li disprezzano. Prima o poi, il futuro sarà liberale. C’è un limite oltre il quale non si può andare: e questo perché lo statalismo finisce per dissolvere la società stessa e obbliga, quindi, a prendere atto delle leggi fondamentali che regolano l’interazione sociale.
Certo sarebbe auspicabile che si riuscisse a prendere consapevolezza di questo prima di avere toccato il fondo. Diversamente i costi per tornare a vivere in condizioni civili potrebbero essere anche molto elevati.