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Uno stato “minimo” dove trionfano efficienza e modernità

Uno stato “minimo” dove trionfano efficienza e modernità

Sandro Iacometti – Libero

Servizi funzionanti, tasse basse, burocrazia inesistente. Siamo a Liberrima, paradiso di modernità ed efficienza, dove trionfa l’ideale dello Stato minimo e si celebrano i diritti fondamentali dell’individuo. Un sogno, ovviamente, a cui Massimo Blasoni ha voluto dedicare l’ultimo capitolo del suo saggio Privatizziamo!, in questi giorni in libreria per i tipi di Rubettino Editore. Imprenditore del Nordest, alla guida del terzo gruppo italiano attivo nella costruzione di strutture socio-sanitarie e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Blasoni maneggia con disinvoltura i grandi maestri della tradizione liberale e liberista, da Smith a Nozick, da Hayek a Friedman.

L’autore descrive, numeri alla mano, il declino dell’Italia, l’impoverimento delle famiglie, il tracollo dei conti pubblici. «Così non va», sintetizza, e una via d’uscita «è immaginabile solo rompendo gli schemi» del dibattito culturale e politico. La rottura non è il liberismo selvaggio. Quello che viene proposto è un cambio di prospettiva. Un mondo di regole e leggi (drasticamente ridotte) dove «lo Stato continua a garantire servizi, ma in modo diverso». Dove tutti, siano essi soggetti pubblici o privati, cercano sul mercato prestazioni che vengono fornite da «società in concorrenza che si sfidano su qualità, innovazione e costi».

Ma Privatizziamo! è molto più di un inno alla privatizzazione. È un appello alla rivoluzione liberale in ogni settore. Dal fisco, che ancor prima di essere più leggero dovrebbe essere semplice e trasparente, alla politica, che dovrebbe ridurre le sue competenze e i suoi rappresentanti, al lavoro, che malgrado le recenti novità del Jobs Act continua a proporre modelli di rigidità costosi e poco orientati ai bisogni di lavoratori e aziende.

Blasoni non si fa troppe illusioni sulla capacità della classe dirigente di raccogliere i suoi suggerimenti. Alla sinistra, spiega, «non si può chiedere di giocare un ruolo autenticamente riformatore in senso liberale». Quanto ai moderati, bisogna riconoscere «i troppi errori compiuti, i troppi tradimenti, le numerose timidezze». La soluzione è quella di ripartire da zero. Cominciando da un elettorato più consapevole, che abbia ben chiaro che «il mondo intorno a noi è competitivo, non solidale» e che «lo sviluppo del nostro Paese, con più libertà e meno Stato, così come il lavoro dei nostri figli non saranno frutto di casualità, ma la conseguenza della nostra capacità di decidere per il tempo a venire e creare le occasioni per concorrere. Senza compromessi».

Blasoni: “Un fondo di garanzia per stimolare le imprese”

Blasoni: “Un fondo di garanzia per stimolare le imprese”

Massimo Blasoni – Libero

Alla luce dei nuovi interventi della Banca Centrale Europea ad incrementare la già rilevantissima liquidità immessa da oltre un anno nell’economia, forse le cose potranno cambiare. Ad oggi però in Italia gli effetti, con riferimento all’erogazione del credito alle famiglie e soprattutto alle imprese, sono stati modesti. Un dato confermato da Bankitalia anche a gennaio: si è registrata a inizio 2016 una variazione percentuale negativa, seppur minima, su base annua, dello 0,1%.

Nel report dell’istituto di Palazzo Koch è interessante la scomposizione con riferimento alle rilevazioni sui prestiti alle famiglie e a quelli alle società non finanziarie, in altre parole le nostre imprese. L’erogazione del credito alle famiglie a gennaio è cresciuta dello 0,8% su base annua. È ben diversa la situazione per le società non finanziarie. Come succede ormai da più di un quinquennio, l’anno è iniziato con un -0,9% che fa riflettere su quanto sia difficile per le nostre imprese ottenere credito. Va molto meglio alle attività produttive dei principali competitor europei.

I motivi del perdurare del credit crunch in Italia sono in parte imputabili alla debolezza delle nostre banche. Queste, il dato è di gennaio, hanno bruciato capitalizzazione in borsa per oltre 185 miliardi rispetto ai livelli pre-crisi e sono condizionate da più di 200 miliardi di sofferenze lorde. Certo non possiamo chiedere alle nostre banche di finanziare imprese prive dei necessari requisiti. Tuttavia non è differibile l’obiettivo di garantire nuova liquidità al sistema produttivo. Vi è grande sfiducia nelle obbligazioni e la nostra borsa non pare un’alternativa per garantire sufficiente sviluppo al sistema imprenditoriale. Soprattutto alle aziende di non grandi dimensioni. Sono solo 356 le imprese quotate alla Borsa Italiana ed è difficile pronosticare a breve un esponenziale allargamento di questa platea.

Perché allora non ipotizzare un fondo di garanzia nazionale per gli investimenti delle imprese? Il bail in impedisce i salvataggi di Stato, non altre forme di partecipazione. Certo si tratta di un’operazione complessa e i vincoli europei e di debito non sono pochi. È necessario però tentare. Le imprese italiane sono già gravate da costi dell’energia, imposizione fiscale e deficit di infrastrutture che ne condizionano la competitività. Senza credito per nuovi investimenti non ci saranno né ripresa né nuova occupazione.

Distribuiti 8 miliardi pubblici, più di metà alle partecipate

Distribuiti 8 miliardi pubblici, più di metà alle partecipate

Mirko Molteni – Libero

Nella galassia italiana delle aziende partecipate dagli enti locali, gli ultimi anni hanno visto un panorama quasi stabile, per l’ammontare complessivo dei contributi alle imprese. Ma al suo interno sono aumentati i finanziamenti ai soggetti pubblici, a scapito però dei destinatari privati. Emerge da un nuovo rapporto realizzato dal Centro Studi ImpresaLavoro, istituto che raggruppa esperti di ispirazione liberale, e divulgato oggi in esclusiva dal nostro quotidiano.

L’indagine esclude le aziende di tipo sanitario-ospedaliero, ed è basata su dati del Siope, il «Sistema Informativo sulle Operazioni degli Enti Pubblici». Copre gli anni dal 2011 al 2014 compresi, lasciando fuori il 2015 di cui mancano informazioni complete. Anzitutto spicca come il totale dei fondi si sia mantenuto sopra gli 8 miliardi di euro, pur con tendenza altalenante. Se infatti nel 2011 gli enti locali hanno versato alle imprese partecipate un totale di 8.451 milioni di euro, nell’anno successivo la cifra era calata a 8.110, per risalire aun picco di 8.605 nel 2013 e scendere agli 8.218 sganciati fra gennaio e dicembre del 2014.

Fra alti e bassi la situazione complessiva sembra dunque quasi immutata, ma il Centro Studi ImpresaLavoro ha scavato sotto la superficie notando come, dietro le apparenze, nei quattro anni presi in esame molto in verità sia cambiato. I trasferimenti sono stati infatti ridistribuiti pesantemente a favore delle aziende pubbliche, per le quali l’aumento medio in tutto l’intervallo 2011-2014 è stato di ben il 35%. Alle ditte private partecipate, invece, è toccata nel medesimo periodo una diminuzione complessiva del 17%, ammanco che di questi tempi potrebbe essere definito grave. Numeri alla mano, infatti, i trasferimenti alle pubbliche sono decollati di ben un miliardo di euro, dai 2.668 milioni del 2011 ai 3.602 del 2014.

Quasi speculare la discesa sul lato delle private, da 4.705 a 3.890, cioè oltre 800 milioni in meno. In pratica l’ammontare dei fondi rivolti ai due principali settori si avvia a diventare all’incirca equivalente. Per quanto concerne il profilo degli enti locali più coinvolti, sono le Regioni, in media, a rafforzare il proprio ruolo, arrivando a coprire ben il 77 % dei contributi, mentre gli altri enti, fra Comuni, Province, Città Metropolitane e Unioni di Comuni, non vanno oltre il 23% tutti insieme e sono più costretti a tirare la “cinghia”. Nel dettaglio delle sole imprese pubbliche si nota poi che sono rimasti piuttosto stabili i trasferimenti correnti, mentre quelli in conto capitale hanno avuto un’evoluzione molto diversa a seconda degli enti, poiché le Regioni, confermatesi ancora una volta dalle spalle più larghe, li hanno raddoppiati, da 766 a 1.505 milioni, mentre i conto capitale dagli altri enti sono stati più ondivaghi risultando nel 2014 circa la metà che tre anni prima. La situazione ha andamenti un po’ ribaltati nelle partecipate private, dove invece “tengono” Comuni e Province con trasferimenti piuttosto stabili, mentre le Regioni hanno calato i trasferimenti correnti, da 1.498 a 1.282 milioni, e soprattutto quelli in conto capitale, da 2.725 a 2.102 milioni.

L’analisi propone anche l’ammontare pro-capite delle spese per imprese pubbliche regione per regione, notando che ai vertici della classifica stanno tre regioni a Statuto Speciale come Trentino Alto Adige (295 euro per abitante), Val d’Aosta (205 euro) e, ben di- stanziato, Friuli Venezia Giulia (116). Locomotive del Paese, come Lombardia (33 euro per abitante) e Veneto (29) in posizione medio-bassa della classifica, a testimoniare non solo una minor dipendenza delle imprese pubbliche dai fondi degli enti locali, ma anche una diversa efficienza in rapporto al numero di abitanti.

Pil italiano ancora pecora nera Ue, è l’unico rimasto in crisi

Pil italiano ancora pecora nera Ue, è l’unico rimasto in crisi

di Tommaso Montesano – Libero del 17 gennaio 2016

E quattordici. Per il 14esimo anno consecutivo, il Pil italiano è cresciuto a un ritmo inferiore rispetto alla media dei Paesi Ue. Una differenza che è oscillata, certifica una ricerca realizzata per Libero dal centro studi ImpresaLavoro su dati Ocse, tra un minimo dello 0,4% nel 2010 e un massimo del 2,3% nel 2012. Nel 2015 lo scarto è stato di un punto percentuale.

Conclusione: con questi ritmi di crescita, la strada per far tornare l’Italia ai livelli pre-crisi «sembra ancora molto lunga». Del resto, ricorda ImpresaLavoro, tra le democrazie occidentali più avanzate «solo Italia e Spagna sono ancora al di sotto dei livelli precedenti al terremoto finanziario». Francia e Germania, invece, sono emerse dalle secche fin dal primo trimestre del 2011. Nel penultimo trimestre dello stesso anno è arrivata anche la ripresa degli Stati Uniti. Il Regno Unito, invece, ha dovuto attendere fino al secondo trimestre del 2013, ma alla fine ce l’ha fatta a riemergere.

ImpresaLavoro fa suonare il campanello d’allarme anche in relazione alle aspettative italiane. La Spagna, infatti, che pure condivide con l’Italia il segno negativo, cammina più velocemente sulla strada della ripresa. Nell’ultimo trimestre del 2015, infatti, il Pil di Madrid ha raggiunto il 95,8% di quello pre-crisi. In Italia, invece, nello stesso periodo siamo ancora fermi al 91,8%.

«L’Italia ha un problema strutturale di crescita e le variazioni leggermente positive di quest’anno, se confrontate con il resto d’Europa, confermano purtroppo le nostre difficoltà», afferma Massimo Blasoni, imprenditore e presidente di ImpresaLavoro. Anche perché a un quadro così complesso, sostiene Blasoni, «vanno aggiunti un deficit e un debito che continuano a non scendere e che rappresentano una seria ipoteca sulla tenuta dei nostri conti in futuro. Sono i numeri i primi a certificare che non stiamo uscendo dalla crisi». Per intercettare la ripresa, infatti, «servirebbero tassi di crescita simili a quelli di Regno Unito e Spagna, superiori rispettivamente al 2 e al 3%».

Con una crescita annua dello 0,8% – quella del 2015 – l’Italia dovrà aspettare fino al 2026 per tornare ai livelli del 2008. Crescendo a ritmi compresi tra l’1,3 e l’1,6%, come prevede lo scenario tratteggiato dal governo italiano, la nostra economia tornerà alla situazione pre-crisi tra il 2021 e il 2022.

La ricerca evidenzia anche come siano le riforme il motore della crescita. La Germania ne è l’esempio. Fino al 2006, il Pil italiano è cresciuto ad un ritmo più sostenuto di quello tedesco. Poi, sull’onda delle riforme approvate dal governo di grande coalizione, Berlino ha messo la freccia. «Dal 2006 ad oggi l’andamento del Pil tedesco è stato nettamente superiore a quello del nostro Paese, con la sola eccezione del 2009». Di più: negli ultimi dieci anni, mentre l’Italia ha perso in media quattro punti decimali di Pil all’anno, la Germania ha fatto registrare un più 1,4%.

Un’azienda su tre ha crediti insoluti

Un’azienda su tre ha crediti insoluti

di Mirko Molteni – Libero

Alla faccia dei proclami del governo, la disoccupazione resta al primo posto fra le urgenze. Lo conferma l’analisi divulgata ieri dal Centro Studi Impresa Lavoro. Per il periodo dal 2008 al 2015 l’Italia ha perso ben 656.911 occupati, pur con distinguo territoriali. Sta peggio il Sud, che ha perduto 486.000 posti, mentre il Nord segue con 249.000. Nel Centro c’è però un aumento di 78.000 unità, a tamponare l’emorragia. Il saldo positivo del Centro è dovuto ai 116.000 posti di lavoro in più registrati nel solo Lazio, complice il settore pubblico, mentre l’altra sola regione dove il numero di occupati è superiore rispetto a 7 anni fa è il Trentino Alto Adige, con +20.000. In proporzione alla popolazione lavorativa, ha sofferto di più la Calabria, col -14,83 %. In Lombardia gli occupati sono calati solo dello 0,66%. Friuli, Veneto e Liguria perdono in media il 4 % degli occupati.

Poche luci e molte ombre, insomma, tanto che il presidente del Centro Studi, l’imprenditore Massimo Blasoni, commenta: «L’occupazione è lontana dai livelli pre-crisi. La ripresa è debole e rischia di non tradursi in un recupero dei posti di lavoro persi dal 2008 ad oggi». Conferma che rimedi degli ultimi mesi, come Jobs Act e detassazioni «sono serviti principalmente a trasformare contratti». Dati parziali del terzo trimestre 2015, rispetto a un anno prima, segnano un recupero di 154.000 posti di cui 89.000 al Sud, 34.000 al Nord e 31.000 al Centro. Negli ultimi mesi il Meridione recupera terreno. Ma poca roba.

Altri brutti segnali arrivano dal fronte dei crediti e delle lungaggini di pagamento alle imprese, che pure contribuiscono a far assumere poco. Un rapporto di Confartigianato Marca Trevigiana indica che il 28 % delle piccole e medie imprese venete attende anche due anni e mezzo prima che i debitori saldino le commesse, causa la complicazione dei concorsi pubblici e della burocrazia. Nota il presidente dell`associazione, Renzo Sartori: «Ci sono imprese sane che chiudono a causa di committenti sfortunati, ma anche per committenti scaltri o peggio ancora disonesti». E ricordando che in media il 2% del bilancio delle aziende è in negativo dovuto a questi ritardi, Sartori invita le pubbliche amministrazioni ad appalti più snelli e che premino le imprese più oneste.

Bugie pure sui debiti Pa

Bugie pure sui debiti Pa

Libero

Il premier Matteo Renzi «ha mancato la sua promessa» sul pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese. Un debito che «è stato liquidato soltanto in parte e poiché tali beni e servizi vengono forniti di continuo alla Pubblica amministrazione, nel 2014 si è ricostituito uno stock di debito commerciale di 70 miliardi di euro, secondo dati di Bankitalia» e «anche quest’anno il trend è rimasto sostanzialmente inalterato, che un debito che attualmente viene stimato in oltre 67 miliardi». Il quadro emerge da un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro.
«Il 13 marzo 2014 – ricorda il Centro studi ImpresaLavoro – il premier Matteo Renzi promise in tv agli italiani che il 21 settembre, giorno del suo onomastico, avrebbe fatto un pellegrinaggio al santuario di Monte Senario se il suo Governo non avesse pagato i 75 miliardi di euro di debiti (fonte Bankitalia) che la Pubblica amministrazione aveva contratto al 2013. Oggi è San Matteo e per il secondo anno di seguito Renzi non si recherà in pellegrinaggio per espiare la promessa mancata. Nel frattempo le imprese continuano ad aspettare».
Fallimenti e suicidi: bestiale è il governo

Fallimenti e suicidi: bestiale è il governo

Attilio Barbieri – Libero

Far fatica a tirare la fine del mese, a non chiudere l’azienda, a far quadrare conti che proprio non vogliono sapere di farlo. E sentirsi dare delle bestie da Renzi, che ci accusa di totale insensibilità per il dramma dell’immigrazione. In realtà sarebbero gli «animali» ad aver le carte in regola per incazzarsi anziché subire gli insulti di specie. Lo confermano anche i numeri aggiornati sui fallimenti, arrivati caldi caldi proprio ieri. Negli ultimi sei anni hanno chiuso i battenti ben 75.175 imprese, 34 al giorno, contando anche le domeniche e le feste comandate. Il dato emerge dall’analisi curata dal Centro Studi ImpresaLavoro. Di più: il nostro Paese è uno dei pochi tra quelli monitorati dall’Ocse ad avere tuttora un numero di aziende che chiudono nettamente superiore ai livelli precedenti la crisi. Segno che il disagio continua. Altro che ripresa.

A dare la dimensione del fenomeno è proprio il confronto internazionale. Come si vede chiaramente dal grafico che pubblichiamo in questa pagina, fra le grandi economie occidentali siamo l’unica che continua ad avere il febbrone. Mentre le chiusure si riducono un po’ dappertutto, da noi aumentano. E i segnali di una possibile inversione di tendenza sono cosi deboli da faticare a distinguerli nel sottofondo di pessime notizie. L’Italia è anche il Paese che ha pagato il maggior tributo, in termini di vite umane, alla recessione. I suicidi da crisi sono stati ben 439 negli ultimi tre anni. E quasi nel 50 per cento dei casi a togliersi la vita sono stati imprenditori. Travolti dalla bolla finanziaria partita dagli Usa nel 2008 e falliti. Debiti, bancarotta personale o aziendale, stipendi non percepiti, mutui e pagamenti non onorati: la disperazione non conosce confini sociali. Padroni e operai sono stati spesso accomunati dal medesimo destino.

In questo scenario poi le prospettive continuano a essere tutto fuorché rosee. A meno di un miracolo la pressione fiscale che quest’anno salirà al 43,5% non è destinata a fermarsi e nel triennio 2016-2018 potrebbe sfondare quota 44 per cento. Poco cambierebbe anche se il premier dovesse abolire in toto o in parte le tasse che gravano sulla casa. Con la logica delle coperture – stante l’incapacità del governo di avviare una seria spending review – quel che risparmieremo da una parte finirà in nuovi tributi dall’altra. E anche i numeri sul lavoro non autorizzano a soverchi ottimismi. I nuovi posti creati con il Jobs Act di cui l’esecutivo ha varato gli ultimi quattro decreti la scorsa settimana, rischiano di superare appena quota 75mila. Un po’ pochi per dichiarare la fine della crisi. Ammesso che si possa parlare davvero di «scontro fra umani e bestie», come ha fatto il premier alla festa nazionale Pd, c’è da chiedersi se gli animali siano fra quanti gli chiedono di guardare ai problemi e ai drammi degli italiani, oppure fra chi si fa scudo dell’emergenza immigrazione per sviare i problemi.

Aumenta la spesa delle regioni, al Lazio la maglia nera

Aumenta la spesa delle regioni, al Lazio la maglia nera

Andrea Morigi – Libero

Altro che spending review: le Regioni rimangono sprecone. Un’analisi effettuata dal Centro studi ImpresaLavoro che rielabora i dati della Corte dei Conti, rivela come nel periodo 2011-2014 dalle casse delle Regioni siano usciti altri 3,9 miliardi di euro, portando l’esborso in termini di spesa corrente da 141,7 a 145,6 miliardi, con un incremento del 2,76 per cento.
Ci sono anche eccezioni virtuose. La Lombardia emerge come la Regione che, al netto degli importi riversati allo Stato per il cosiddetto Fondo di Solidarietà, ha effettuato i maggiori tagli alla spesa corrente, scesa dell’11,63%. L’Abruzzo ha ridotto le proprie spese correnti del 6,09%. Ma il Lazio, al contrario, detiene il record del maggiore incremento della spesa nel periodo considerato (+33,33%) seguito dalla Calabria (+31,06%). Lo stesso vale per la spesa corrente pro-capite. Per ogni cittadino in Lombardia si spendono infatti 1.739 euro, meno della metà rispetto al Lazio, che con i suoi 3.129 euro di spesa corrente pro-capite fa segnare l’esborso maggiore tra le Regioni a statuto ordinario.
Tra le autonomie speciali, invece, è la Valle d’Aosta a posizionarsi decisamente sopra la media delle altre Regioni, ordinarie e non. Ogni valdostano costa 8.995 euro ogni anno di spesa corrente. Sa gestire meglio la Sicilia con i suoi 2.529 euro, seguita da Sardegna e Friuli Venezia Giulia. In termini generali le Regioni a statuto speciale hanno ridotto le loro uscite per spese correnti del 2,46%, passando da 31,3 a 30,6 miliardi di euro tra il 2011 e il 2014. Tra gli enti a statuto speciale buone performance di riduzione della spesa sono state registrate dalla Provincia Autonoma di Bolzano (-6,33%) seguita dalla Sardegna (-5,94 per cento).
In ogni caso, la spesa di larga parte delle autonomie rimane più alta della media delle Regioni a statuto ordinario, nonostante la riduzione. Allo stesso tempo sembra impossibile prevedere altri tagli nelle altre Regioni a statuto ordinario, le cui uscite rappresentano quasi l’80% della spesa totale. Tranne il caso di Lombardia e Abruzzo, che si confermano le Regioni che hanno saputo risparmiare più delle altre. Anche se finora il loro esempio non è stato seguito.
Ecco gli assegni da fame dei pensionati del futuro

Ecco gli assegni da fame dei pensionati del futuro

Sandro Iacometti – Libero

Già oggi, con il «ricco» sistema retributivo la quota di pensionati che alla fine del mese riceve meno di 1.000 euro lordi è del 42,5%. Si tratta di 6,6 milioni di italiani che evidentemente, anche calcolando l’assegno previdenziale sulla base delle retribuzioni degli ultimi 10 anni di lavoro, come prevede il sistema per chi nel 1996 aveva già 18 anni di contributi all’attivo, non sono riusciti ad ottenere cifre più sostanziose per la vecchiaia.

Con il metodo contributivo introdotto dalle riforme Dini e Fornero, e in questi giorni tornato alla ribalta anche per alcune ipotesi di ricalcolo delle pensioni già erogate, le cose non potranno che peggiorare. E di molto. Soprattutto per chi, e saranno molti considerata la situazione economica e l’evoluzione del mercato del lavoro, non avrà una storia contributiva lineare e monolitica.

Considerato che il 46% degli italiani si colloca nella fascia di contribuenti fino a 15mila euro, che un altro 49% ha redditi compresi tra i 15 e i 50mila euro e che le entrate medie annue emerse dalla dichiarazione dei redditi 2014 si attestano a 20.070 euro (statistiche che comprendono ovviamente anche i pensionati), abbiamo chiesto al Centro studi ImpresaLavoro di effettuare una serie di simulazioni sui futuri trattamenti previdenziali di lavoratori con redditi compresi tra i 20 e i 30mila euro l’anno.

I risultati non sono incoraggianti. Anzi, dimostrano, se mai ce ne fosse stato bisogno, che senza una serie di interventi che incoraggino e rilancino la previdenza integrativa (che invece continua ad essere tartassata) tra qualche decennio l’Italia sarà popolata da un esercito di anziani che dovrà tirare avanti con pochi euro in più della pensione sociale.Le elaborazioni sono state tutte effettuate su un’ipotesi di età pensionabile di 66 anni e un’eta contributiva di base di 40 anni.

La situazione risulta sulla soglia della sostenibilità per il lavoratore dipendente nella fascia alta di stipendio tra quelle prese in considerazione. Con 30mila euro lordi all’anno la sua pensione annua con il contributivo sarà di 22.271 euro (1.713 euro lordi mensili) rispetto ad un trattamento con il retributivo di 24mila euro (1.846 euro mensili). Abbassando l’asticella le cose, ovviamente, peggiorano. Con un reddito di 25mila euro la pensione retributiva ammonterebbe a 20mila euro annui (1.538 euro mensili), ma quella contributiva scenderà a 18.559 (1427 euro mensili). Riducendo le entrate del lavoratore a 20mila euro l’assegno si avvicina alla soglia dei 1.000 euro lordi. Operando solo sul montante contributivo si avrà, infatti, una pensione di 14.847 euro lordi all’anno, ovvero 1.142 al mese.

Lo scenario si fa ben più cupo per i lavoratori autonomi che hanno un’aliquota contributiva (sarà a regime nel 2019) del 24% della retribuzione interamente a loro carico, rispetto al 33% versato dai dipendenti (il 23,8% è pagato dal datore di lavoro). Con un reddito di 30mila euro e 40 anni di contributi il lavoratore autonomo, che con il retributivo avrebbe preso 24mila euro di pensione, riceverà invece un assegno mensile di 1.245 euro lordi (16.197 euro annui). Con 25mila euro il trattamento scende a 1.038 euro (13.497) e con 20mila euro il lavoratore autonomo entra nel club dei 6,6 milioni di italiani, con 830 euro lordi al mese di pensione (10.798 euro all’anno).

Fin qui abbiamo visto lavoratori «fortunati», con una retribuzione stabile e un percorso lavorativo senza interruzioni. Cosa succederebbe in caso di periodi di disoccupazione forzata, vuoti contrattuali e salti contributivi? Il nostro lavoratore autonomo dovrà faticare molto per arrivare alla fine del mese. Con un reddito di 20mila euro abbiamo già verificato che la soglia dei 1.000 euro diventa lontana. Lo stesso, però, accadrà anche a chi guadagna cifre maggiori se la sua condizione di precario lo ha fatto inciampare in qualche anno di disoccupazione.

Prendiamo in esame un reddito di 25mila euro annui. In questo caso basterebbe un buco contributivo di 3 anni a far precipitare il lavoratore nell’ambìto club. La sua pensione sarebbe, infatti, di 12.485 euro annui (960 euro mensili lordi). E il conto peggiorerebbe assai con 5 (11.810 euro) e 7 anni (11.135) di vuoto lavorativo. L’unico che riesce a restare sopra la soglia dei 1.000 euro, seppure per poco, è il lavoratore autonomo con un reddito di 30mila euro annui. Qui il trattamento previdenziale scenderebbe a 14.982 euro (1.152 euro mensili) con 3 anni di vuoto, a 14.172 euro (1.090) con 5 anni e a 13.362 (1.027) con 7 anni.

«Quello previdenziale», ha detto l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro, «è un tema che il governo dovrebbe affrontare rapidamente. Con questi tassi di partecipazione al lavoro e con un livello di disoccupazione giovanile che non scende, il rischio che corriamo è quello di aver scaricato sulle future generazioni il peso delle nostre scelte sbagliate. Oggi il 43% delle pensioni è inferiore ai mille euro: come dimostra il nostro studio, per i nostri giovani mille euro rischiano di essere un traguardo impossibile da raggiungere».

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