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Un Pesc nei conti

Un Pesc nei conti

Davide Giacalone – Libero

Per sapere come saranno sistemati i conti pubblici il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, ha rimandato tutti a settembre, quando sarà presentato il Def (documento di economia e finanza). Per sapere quale sarà l’assetto dei vertici europei, quindi le nomine nella Commissione e nel Consiglio, è stato tutto rimandato a fine agosto. C’è un legame, fra questi due rinvii. E c’è un presagio di guai, per l’Italia.

Il governo ha negato e nega la necessità di una correzione dei conti. O, meglio, nega la “manovra”, un concetto che di suo non significa nulla, ma tradizionalmente è sinonimo di tasse. Bene. Solo che Padoan, riferendo in Parlamento, ha messo le mani avanti: confermiamo gli 80 euro anche per l’anno prossimo, confermiamo il taglio (minimale) del cuneo fiscale, ma la crescita del prodotto interno lordo è stata troppo bassa. Quindi i conti non tornano, tanto è vero che per il pagamento dei debiti verso fornitori privati ha detto che «verrà ulteriormente rafforzato», affermazione che cancella l’impegno preso da Matteo Renzi, secondo cui sarebbero dovuti essere totalmente saldati entro settembre. C’è dell’altro.

I tre pilastri dell’azione di governo, ovvero «più apertura al mercato, riforme strutturali e più investimenti», non solo sono piantati nel nulla, ma nessuno ha la benché minima probabilità di sortire effetti entro la fine dell’anno. Quindi, ancora una volta, i conti dovranno essere aggiustati. In quanto alle sollecitazioni provenienti dalla Commissione europea e dall’Ecofin, Padoan ha osservato che questi signori non tengono conto «delle minori spese pianificate, ma non ancora specificate nel dettaglio, e dei maggiori introiti attesi dalle privatizzazioni, in via di programmazione». Rileggetela, questa frase, perché è un capolavoro di evanescenza: a. i tagli sono nei conti, ma non si è ancora detto quanti, quali e come; b. gli introiti si riferiscono a privatizzazioni, che però non si sa neanche quali e quando; c. e, cosa assai grave, quei soldi sarebbero indirizzati a compensare il deficit anziché ad abbattere il debito. Quest’ultima è la via della perdizione, come una famiglia che vendesse la casa non per cancellare debiti che non riesce a pagare, ma per evitare di far scendere il proprio tenore di vita.

In queste condizioni il rapporto fra il governo italiano e le autorità europee diventa determinante, circa le modalità e i tempi per correggere i conti. Ed è qui che le cose si mettono male, per colpa nostra. E’ qui che entra il problema postosi con la richiesta di nomina in capo a Federica Mogherini. Premetto che non provo alcun piacere nel vedere il governo del mio Paese non ottenere quel che chiede, o trovare degli ostacoli. Premetto anche che non sono minimamente in grado di esprimere un giudizio sul nostro ministro degli esteri, perché, letteralmente, non so chi sia. Non ho idea di quale linea abbia in mente o di quali siano le sue capacità diplomatiche. Taluno ha osservato che anche Catherine Ashton era priva di esperienza, quando fu nominata altro rappresentante per gli affari esteri europei. Trovo che sia osservazione la più offensiva possibile, nei confronti di Mogherini, visti i risultati (e comunque falsa, perché era già stata commissaria al commercio). Esaurite le premesse, veniamo al punto: Renzi ha sostenuto che ciascun governo nomina chi gli pare e gli altri non si devono impicciare. Erroraccio.

Un misto d’arroganza e disperazione, condito da quel «almeno rispettateci». Ma pur sempre un erroraccio. Perché se Commissione e Consiglio sono da considerarsi abbozzi di governo europeo (al contrario del Consiglio dei ministri, dove, effettivamente, ciascun Paese manda il ministro che più gli aggrada), allora si può chiedere loro di tenere presenti considerazioni politiche generali, come equilibri di crescita e opportunità di riforme. Ma se, invece, sono la sommatoria dei delegati da ciascuno, allora il solo compito che possono ragionevolmente svolgere è quello della vicendevole guardiania sul rispetto dei trattati e dei vincoli. Il che ci uccide. Renzi ha battuto i pugni, come tante volte i beoti di ogni colore hanno auspicato, ma per ottenere quel che ci nuoce. Il tutto in cambio di un posto (Pesc) che non conta nulla, per il quale non s’è svolto alcun dibattito circa le politiche da seguirsi (i contenuti non dovevano venire prima dei nomi?), e che servirà da inutile bandierina. E lo scrivo con rammarico. Per il mio Paese e per i nostri conti che, infatti, hanno fatto dire a Padoan: «i margini sono stretti, non ci sono scorciatoie». E c’è poco da interpretare.

L’altro Nazareno

L’altro Nazareno

Davide Giacalone – Libero

Silvio Berlusconi e Matteo Renzi hanno contemporaneamente riunito i propri parlamentari e simultaneamente chiesto loro di essere leali e avere fiducia nelle capacità dei loro capi. Ovvero di loro due. Hanno stretto un patto, denominato “del Nazareno”, da quel patto è nato il governo Renzi, da quello s’è avviato il cambiamento della Costituzione, come la riforma del sistema elettorale. Ciascuno dei due ha pagato un prezzo, ciascuno ha avuto la propria convenienza, entrambe si mostrano fermi nel mantenere la parola data. Sarebbe tutto assai bello, se non fosse che il patto verte su ciò che forse è necessario, ma non su quello che certamente è urgente.
La sera del 25 febbraio 2013, quando si contarono le schede elettorali, fui tra quelli che ebbero modo di dirlo subito: questa legislatura si governa ed ha un senso solo se si stringe un accordo fra la destra e la sinistra. L’accordo deve reggersi su due punti: la messa in sicurezza dei conti e il cambiamento del sistema elettorale. Il Partito democratico, allora nelle mani di Bersani, rifiutò questa impostazione e si massacrò. Mi sento, quindi, un nazareniano ante Nazareno. Così come, del resto, fui tra quanti guardarono con interesse e simpatia al giovane sindaco di Firenze e ai suoi primi tentativi di dire la sua sulla scena nazionale. Il fatto è, però, che sia dall’accordo che dall’azione di governo è stato cancellato il primo, più urgente e più importante punto: i conti. Anzi, leggo (incredulo) che si sostiene la possibilità di animare l’intesa sulla Costituzione e lasciare dilagare la rissa sull’economia. Questo significa che i due ritengono prioritario controllare le frizioni e i conflitti all’interno dei gruppi parlamentari, piuttosto che provare a governare gli inevitabili conflitti sociali connessi a riforme economiche che, se vere, non sono indolori. È una davvero curiosa inversione delle priorità. Che risponde ad una logica culturale e politica: governare veramente non è possibile, ma è necessario controllare le Aule parlamentari, possibilmente riducendole al singolare, perché da quelle dipende non la continuità di governo, ma la stabilità dei governanti. Rassegnarsi a questo è suicida.
Tanto più che senza un Nazareno economico la sfida continuerà a svilupparsi in senso dannoso. Come Berlusconi volle alzare le pensioni minime così Renzi ha voluto alzare alcuni redditi, entrambe convinti che da quello dipenda il consenso e ambedue speranzosi che la spinta della domanda interna regga il prodotto interno lordo. Il tandem, purtroppo, pedala in senso opposto: crescendo i redditi (di poco per ciascuno, ma abbastanza nell’insieme) senza che cresca il lavoro diminuisce la produttività e la competitività, azzoppando la sola parte d’Italia che ancora prova a correre. E siccome senza sviluppo e con più spesa non si può far crescere il debito (che cresce per i fatti suoi), né sfondare il deficit (che è il preludio di nuovo debito), ne discende che, oggi come ieri, quel che si da con una mano si toglie con quella fiscale. Magari non esattamente agli stessi, ma in un forsennato gioco a non cambiare nulla. Questa logica non solo non cura il male, ma è il male.
Siccome tutto questo è evidente, e siccome è altrettanto chiaro che dominare i conflitti sociali, in un Paese che s’impoverisce, è difficile se altri si mettono a soffiare sul fuoco o bassamente speculano sulle difficoltà oggettive, ecco che aveva ed ha un senso che su quel terreno si stringa un accordo: mettiamo in equilibrio i conti, tagliamo la spesa pubblica da tagliare (tanta), dismettiamo patrimonio e abbattiamo il debito, nel frattempo riformiamo il sistema elettorale e lasciamo che sia il tempo a dimostrare quanto siamo stati ragionevoli, rimandando a subito dopo la ripresa della normale e sana dialettica fra diversi. E se qualche parlamentare scalpita, provando a farsi famoso intralciando questo importante lavoro, che si usi pure la frusta. Invece ci si è incaponiti su una cosa, la riforma costituzionale, che se la guardi da lontano ti sembra utile, ma non certo risolutiva, e se la guardi da vicino preferisci sperare che sia inutile. Il metodo giusto per la cosa sbagliata. Una maledizione.

Parole Vs fatti

Parole Vs fatti

Davide Giacalone – Libero

La sola crescita cui si assiste è quella della distanza fra le parole e i fatti. Ed è impetuosa. Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, ha confermato, per l’ennesima volta, quel che qui avevamo visto e ripetuto: nessuno si faccia illusioni sulla “flessibilità”, perché gli impegni di bilancio presi devono essere rispettati. Sono mesi, quindi, che si parla di cose che non esistono o che, per quel che esistono, sono già comprese nei trattati, senza potere essere invocate per scorporare o non contabilizzare alcuna spesa pubblica. Di più: l’Eurogruppo ha sollecitato il taglio del cuneo fiscale, specificando che il mancato gettito deve essere compensato con minori spese o maggiori entrate. Le chiacchiere non solo valgono zero, ma costano e fanno perdere tempo.
Sono fra quanti non si sono mai stancati di ricordare che a fianco delle criticità pubbliche, con il debito fuori controllo e crescente e la spesa corrente che stronca le gambe all’Italia che corre, ci sono anche fattori di forza: dalla lunga serie di avanzi primari, per i quali siamo primatisti mondiali, alle esportazioni. Resta vero, ma ogni giorno di meno. Gli avanzi primari li dobbiamo anche alla crescente pressione fiscale, il cui sangue è riversato nel secchio sfondato del costo del debito pubblico. Le esportazioni le dobbiamo alla pervicace vitalità di un tessuto produttivo che non si arrende e che, al contrario dello Stato, ha capito e s’è adeguato alle regole della globalizzazione. Questa preziosa realtà è a rischio. In tredici anni abbiamo perso 120 mila aziende, sono sopravvissuti i più bravi e competitivi, ma il loro fiato s’è fatto corto, hanno progressivamente ridotto i margini di profitto, hanno tirato la carretta con rabbia e coraggio, ora si trovano davanti a tre possibilità: a. approfittare dei contatti e delle capacità, cambiando nazionalità e regime fiscale; b. resistere rinunciando al profitto e mangiandosi il patrimonio, puntando su un futuro in cui il fisco non continui a dissanguarli; c. chiudere.
Abbandonato a sé stesso, con governi che hanno pasticciato anche nel ristrutturare costosi e progressivamente inutili istituti per il commercio estero, divenuto corpo da cui estrarre gettito, il nostro settore delle esportazioni è stato condotto fino al punto in cui l’acqua lambisce la respirazione. Ancora poco e annega. Quello che era un punto di forza, e un motivo d’orgoglio, si trova in una situazione critica. Il tempo impiegato per il depauperamento e l’impoverimento è assai più lungo di quello necessario all’annegamento di massa. Dopo di che sarà la tragedia. E il governo che fa? Negozia l’impossibile flessibilità per quel debito, quel deficit e quella spesa che, invece, andrebbero prese a fucilate. Fa di più, il governo: si sdoppia, pretende di recitare tutte le parti in commedia. Ho letto con indignazione quel che il viceministro allo sviluppo economico, Carlo Calenda, ha scritto al Sole 24 Ore. Egli sostiene che il peso delle esportazioni è oggi pari al 30% del pil e andrebbe portato al 50. Bravo, concordo. Dice che la ripresa non può venire dal sostegno interno dei consumi, ma dal successo esterno delle esportazioni, che portano ricchezza reale e veri posti di lavoro: «per cogliere queste opportunità dobbiamo concentrare le iniziative sulla competitività dell’offerta piuttosto che sullo stimolo della domanda interna». Sottoscrivo. Aggiunge che si deve partire dalla riforma del lavoro «compreso il superamento dell’articolo 18» (statuto dei lavoratori). Che ci vuole «un taglio drastico dell’Irap, a partire dalle aziende esportatrici». Scusi, dott. Calenda, ma lei di quale governo crede di fare parte? Non si è accorto che è stato fatto l’esatto contrario? I mitici 80 euro sono sostegno (fin qui fallito) alla domanda interna senza un capello di produttività in più. In compenso l’Irap resta e le altre tasse sugli esportatori aumentano. Di che sta parlando, Calenda?a di abbozzare i conti e andare a votare. Ci fosse ancora un Parlamento si potrebbe anche supporre l’opportunità di un dibattito sul tema, ma in quelle Aule sono occupati a discutere di sé medesimi. Chi parla in pubblico s’intrattiene su minchionerie rottamatorie. Tutto si regge sull’atto di fede che i “nuovi” qualche cosa faranno. La Francia, assai mal messa, ma ancora non priva di classe dirigente, ha intanto in atto una manovra di tagli alla spesa pubblica per 50 miliardi. Occhio, perché il tempo corre e il tassametro gira.
Parole e fatti hanno divorziato. Ma mentre le parole scorrono a ruota libera i fatti vengono giù a rotta di collo. Sul debito pubblico Padoan dice una cosa e Delrio il contrario. Sulle politiche di sviluppo Calenda dice una cosa, ma il governo Renzi fa il contrario. Sulla flessibilità i giornali italiani parlando di cose che non esistono, mentre la sola preoccupazione del governo sembra essere quell

Partita bancaria

Partita bancaria

Davide Giacalone – Libero

È dalla trincea delle banche che s’ode, finalmente, qualche colpo sensato contro la piega negativa presa dall’Europa economica. Nulla a che vedere con la geremiade sui parametri o con la biascicata litania sulla flessibilità, che sono cose per politici orecchianti. Anzi, all’opposto, Mario Draghi ribadisce quel che è oramai assodato: i trattati si rispettano tutti e senza deroga alcuna, i conti devono tornare, il rigore nel redigerli non ha alternative. Punto. Non è quello il fronte su cui combattere, se non per perdere. E mentre il conformismo editoriale si agita e concentra su quel che non è né utile né possibile, è significativo registrare la convergenza fra il presidente della Banca centrale europea e il presidente dell’Associazione bancaria italiana su un punto che è determinante. Se la cosa non fosse divenuta quasi un insulto (il che, a sua volta, è vilipendio della ragione), verrebbe da dire: finalmente due voci politiche, senza piagnistei contabili.

Draghi non ha chiesto maggiori poteri per la Bce, ma maggiori poteri per i governi. Fate attenzione, è decisivo: non si esce dalla crisi solo usando la cassetta degli attrezzi finanziari, si devono coordinare le politiche relative alle riforme del mercato interno europeo, denominate “strutturali”. Detto in modo diverso: non serve cedere altra sovranità monetaria, perché quella è oramai andata tutta, serve cedere sovranità politica, a favore di qualche cosa che somigli a un governo europeo. Ed è la cosa più insidiosa fin qui sostenuta, per la centralità imperiale germanica. Non si devono invitare i tedeschi a curarsi di più gli affari loro, come erroneamente è stato recentemente fatto da Matteo Renzi, ma a mettere maggiormente in comune gli affari di tutti. Il che, naturalmente, esclude che qualcuno pensi di fare il furbo (che poi è uno stupido) sui propri conti nazionali.

Arriva di rincalzo Antonio Patuelli, ieri all’assemblea dell’Abi, ricordando una frase di Helmut Kohl, cancelliere tedesco: «L’unione politica è la contropartita indispensabile per l’unione economica e monetaria (…). È fallace si possa sostenere l’unione economica e monetaria senza unione politica». Bingo: ai tedeschi si deve imporre quel che i tedeschi dissero. Pacta sunt servanda, lo diciamo anche noi, mica solo loro. Il continuo richiamo di Patuelli alla necessità di regole e condizioni comuni, per il mercato bancario europeo, è il tasto su cui qui battiamo e ribattiamo. Ed è la musica che ci rende forti, mentre la giaculatoria della flessibilità ci rende deboli.

Tali regole non sono affatto comuni, oggi, è si traducono in svantaggi. “Sussistono penalizzazioni delle attività bancarie in Italia – ha detto Patuelli – rispetto alle concorrenti nella Ue: dal trattamento delle svalutazioni e perdite sui crediti a quello del costo del lavoro ai fini Irap, dagli interessi passivi nella tassazione societaria Ires e Irap, all’Iva di gruppo, dall’ampio ruolo di sostituto d’imposta a vari calmieri dei prezzi, fino alle addizionali sorprendenti e talvolta anche tardive”. Il tutto in capo a un sistema bancario, quello italiano, che al contrario di quello tedesco, francese o inglese (e di altri), non ha avuto salvataggi di banche a spese del contribuente, semmai l’opposto: il crescere della pressione fiscale.

Certo le difficoltà ci sono, pure grosse. In Italia, oltre una impresa su quattro è divenuta “deteriorata”. Le sofferenze lorde, nel periodo 2008-2014, passate da 43 a 166 miliardi di euro. Il complesso dei crediti deteriorati ha superato i 290 miliardi di euro (da 86,5 miliardi di fine 2008). Il deterioramento dei crediti è stato fronteggiato con giganteschi accantonamenti e con quasi cinquanta miliardi di aumenti di capitale, tutti privati e senza alcun intervento pubblico (capitolo a parte, e non concluso, quello del modo increscioso con cui s’è fatta la doverosa rivalutazione del capitare della Banca d’Italia). Gli altri sono lesti, e a ragione, nel far pesare i nostri ritardi e le nostre mancanze, che ci sono, ma noi siamo tardi e balbettanti nel far valere i nostri punti di forza, che ci sono pure quelli.

Anziché continuare a ripetere che l’Europa deve essere dei cittadini e non delle banche, concetto da cui si spreme lo stesso sangue che può essere donato da una rapa, sarà bene tendere l’orecchio verso quel tipo d’impresa, le banche, appunto, che senza una reale integrazione di mercato vedono prevalere gli egoismi e le miopie nazionali, che dell’Europa sono l’esatto opposto. Subendone un danno. Se proprio non si può resistere alla retorica, mettiamola così: ci vuole l’Europa dei correntisti, che siamo noi tutti cittadini, ove di mestiere non si faccia lo spacciatore e per vocazione l’evasore fiscale.

La burla del 730 “a domicilio”

La burla del 730 “a domicilio”

Franco Bechis – Libero

La dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo (quella relativa al 2014) non arriverà a casa dei contribuenti, come più volte annunciato da Matteo Renzi. Sarà disponibile solo per via telematica, e per leggersela bisognerà effettuare tutte le procedure di registrazione presso il sito Internet dell’Agenzia delle Entrate, passaggio questo che risulterà particolarmente ostico a una parte della platea a cui la semplificazione è rivolta: quella dei pensionati. La stessa condizione riguarderà i lavoratori dipendenti, unici altri ammessi al beneficio della dichiarazione dei redditi precompilata. La novità emerge dal testo dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di semplificazioni fiscali trasmesso al Senato dal governo lo scorso primo di luglio. Un testo di 34 articoli ben più complesso e insidioso di quel che appariva dalle premesse.

L’idea di Renzi era quella di sollevare una parte dei contribuenti italiani dal milione di contestazioni formali che arrivano ogni anno dall’Agenzia delle Entrate, facendo arrivare loro a casa una dichiarazione dei redditi precompilata dal fisco italiano, che è in grado di attingere alle varie banche dati del Grande Fratello fiscale anche per controllare già le detrazioni e le deduzioni cui il contribuente avrebbe diritto. Idea semplice, che Renzi ha rubato ad uno dei suoi alleati (la proposta era di Angelino Alfano), facendola sua e rivendendosela subito all’opinione pubblica. Ma quella semplicità si è complicata molto con il decreto attuativo che la fa entrare in vigore in parte dal 2015 (quando anche le spese mediche saranno calcolate dall’Agenzia). Perché il testo arrivato in Parlamento fa entrare i contribuenti in un vero e proprio labirinto, causa non pochi problemi alle aziende da cui dipendono e che fungono da sostituti d’imposta, e rischia di provocare una rivolta da parte degli intermediari fiscali, siano essi Caf o commercialisti. Non solo, ma grazie alla apparente “semplificazione” del governo il costo della dichiarazione dei redditi rischia di lievitare per gran parte dei contribuenti, a meno che rinuncino alla dichiarazione precompilata e continuino a presentarla come hanno fatto in tutti gli anni precedenti.

La prima novità che sicuramente causerà disagio alle imprese sarà l’obbligo di trasmettere all’Agenzia delle Entrate entro il «7 marzo di ogni anno i dati relativi alla certificazione unica che attesta l’ammontare complessivo delle somme erogate, delle ritenute operate, delle detrazioni d’imposta effettuate e dei contributi previdenziali e assistenziali trattenuti». Significa un anticipo di un mese e mezzo rispetto ad oggi, e con le imprese che devono chiudere i bilanci dell’anno precedente e ottemperare agli altri adempimenti consueti sarà non piccolo il problema. In caso di ritardo o di errata trasmissione, alle imprese sarà comminata una multa fissa di 100 euro per ogni dipendente. Tra gli anticipi obbligatori anche la modifica del termine (dal 30 aprile attuale al 28 febbraio che scatterà nel 2015) «per la trasmissione all’Agenzia delle Entrate dei dati relativi ad alcuni oneri deducibili e detraibili sostenuti nell’anno precedente, quali interessi passivi sui mutui, premi assicurativi, contributi previdenziali, previdenza complementare». Raccolti tutti i dati entro il 15 aprile, per i lavoratori dipendenti e pensionati sarà disponibile solo per via informatica la dichiarazione precompilata da parte dell’Agenzia delle Entrate. I contribuenti che potranno accedervi avranno due opzioni: accettarla così com’è o cambiarla, inserendo detrazioni o deduzioni che non erano state previste. Ma anche se si accetta così com’è, la storia è appena all’inizio. Perché quella dichiarazione precompilata va poi presentata alla stessa Agenzia. Come? Da soli, sempre per via telematica. O chiedendo al proprio datore di lavoro di prestare assistenza fiscale. Oppure attraverso un Caf o tramite il proprio commercialista. In questi due casi però quella dichiarazione che resta intonsa rispetto a come era stata compilata dall’Agenzia delle Entrate dovrà essere accompagnata da visto di conformità del Caf o del commercialista. E se risulteranno errori l’Agenzia delle Entrate multerà e sanzionerà il commercialista o il Caf, e non il contribuente. È un aspetto grottesco della rivoluzione di Renzi: lo Stato compila la dichiarazione dei redditi del cittadino, il commercialista deve dire se lo Stato ci ha preso o no, e se questo suo giudizio è errato verrà punito lui e non lo Stato che ha inserito un dato errato. Che cosa significa questo? Che di fatto Caf e commercialisti avranno la responsabilità civile di quelle dichiarazioni dei redditi che però sono compilate dall’Agenzia delle Entrate. Cercheranno quindi di assicurarsi, e trasferiranno quel costo suppletivo sulla clientela. Non solo: pretenderanno dal contribuente ogni documentazione immaginabile per controllare i dati dell’Agenzia, perché sono loro a poterci rimettere le penne in caso di errore. E il possibile errore dello Stato non è eventualità remota: già oggi quasi tutti gli avvisi bonari e le contestazioni dell’Agenzia si basano su dati errati. Proprio per questo non ha senso scaricare sui professionisti la responsabilità di uno Stato che lavora male. Più che una semplificazione, quindi, una presa in giro.

Così lo stato nasconde quanto spende

Così lo stato nasconde quanto spende

Franco Bechis – Libero

Il suo nome tecnico è “cruscotto”. L’ha ideato Sogei, la società di secondo livello del ministero dell’Economia che è il braccio informatico dello Stato italiano. Il suo aspetto è molto simile a quello di un cruscotto di automobile: una plancia attraverso cui tenere sotto controllo tutti gli indicatori della spesa pubblica. Compito che non dovrebbe essere più così difficile: da qualche settimana è diventata obbligatoria la fatturazione elettronica per tutti i rapporti delle imprese con la pubblica amministrazione e anche fra impresa e impresa. Una condizione ottimale per tenere sotto controllo la spesa pubblica, ma anche per controllare in tempo reale la qualità di quella spesa. Se ogni fattura finisce in quel cruscotto di Sogei diventa immediato controllare ad esempio i costi standard di ogni categoria di spesa pubblica. Basta puntare quel cruscotto su due diverse Regioni ad esempio per capire quanto pagano per uno stesso acquisto: dalle famose siringhe per gli ospedali alla fornitura di mobili per gli assessorati, di gasolio per il riscaldamento e così via. Il cruscotto di Sogei è pronto. La fatturazione elettronica è in grado di far arrivare dati di spesa in tempo reale anche per il più piccolo ente pubblico. Ma tutto questo al momento è solo un fantasma. Possibile, ma non esistente. Il governo di Matteo Renzi, come al solito straordinario nel recitare giaculatorie e slogan di trasparenza, non ha dato l’ok all’utilizzo dei cruscotti. E analoghe barricate arrivano dagli organi rappresentativi degli enti (Comuni, Città metropolitane, nuove Province, Regioni, enti pubblici economici). La battaglia la sta tentando in solitaria il presidente della commissione bicamerale di vigilanza sull’anagrafe tributaria, Giacomo Portas. Lui è un deputato del Pd, ma atipico: è stato eletto alla Camera per la seconda volta come indipendente e leader del movimento “I moderati” che in Piemonte, Liguria e parte dell’Emilia Romagna sono alleati del Partito democratico ottenendo spesso numeri a doppia cifra. «Il cruscotto di Sogei – spiega Portas – è l’uovo di Colombo: basterebbe metterlo sul sito Internet di ogni amministrazione pubblica, dai Ministeri al più piccolo dei Comuni. E i cittadini potrebbero controllare direttamente se la propria amministrazione di riferimento spende bene o male i suoi soldi grazie alla possibilità di confrontare lo stesso acquisto con il cruscotto di un’altra amministrazione. Così si potrebbe scoprire se è vero o meno che una siringa costa il doppio in alcune Regioni rispetto ad altre». Che sia l’uovo di Colombo è vero, il problema è che proprio chi spingeva tanto per la trasparenza, dal premier in giù, non ha alcuna intenzione di mettere quell’uovo in padella.

Le resistenze sono fortissime ovunque, e prima ancora di sperimentare quei confronti sono in mille a mettere le mani e a fornire giustificazioni alla propria spesa, sostenendo l’impossibilità di confrontarla con quella di altro ente analogo. Il ministero dell’Economia non è d’accordo, ma non tutti al suo interno la pensano allo stesso modo. Lo ha fatto capire il viceministro Luigi Casero, proprio davanti alla commissione bicamerale di vigilanza sulla anagrafe tributaria. Lì ha spiegato che la fatturazione elettronica era strumento necessario innanzitutto per censire quello che oggi lo Stato non sa: il debito che ha nei confronti delle imprese per forniture alle pubbliche amministrazioni: «L’obiettivo – ha spiegato Casero – era partire con l’obbligo della fatturazione elettronica nei rapporti con la pubblica amministrazione, in modo tale da far sì che lo Stato fosse esattamente a conoscenza di quanto fosse il debito nei confronti della pubblica amministrazione e di chi. Questo percorso è appena partito, anche se ci sono una serie di problematiche che devono essere risolte. Ancora adesso alcuni fanno fatica a mandare le fatture, ci sono problemi di codici: ci sono una serie di questioni che devono essere superate. Nel momento in cui ci sono i dati a disposizione , oltre alla certificazione del debito c’è anche l’analisi del debito stesso. Quando gli elementi sono a disposizione, l’analisi diventa un aspetto fondamentale di politica economica dello Stato perché a quel punto si può andare a vedere la spesa, com’è stata fatta, confrontarla con il costo standard e così via». Casero ha poi aggiunto a titolo personale: «Secondo me, anche relativamente alla trasparenza, questa è una cosa che deve essere assolutamente portata avanti».

Buone intenzioni, ma alla fine le cose stanno andando in maniera diametralmente opposta a quella che si dice. Sulla spesa dei vari Ministeri, sulle consulenze varie, c’è con il governo Renzi molta meno trasparenza di quella che esisteva un anno fa, e perfino rispetto a 4 o 5 anni fa. Il nuovo governo ha – al contrario – fatto oscurare ogni dettaglio di spesa e di fatturazione perfino nell’amministrazione di palazzo Chigi, dove Renzi guida il governo e ha pure da febbraio la propria residenza privata. Il cruscotto cui tiene tanto Portas è oscurato e la spesa se ne va in grande libertà. È un fallimento ormai conclamato, così come lo è stato il tentativo di centralizzare gli acquisti della pubblica amministrazione attraverso la creazione della Consip: pur di non comprare lì a minor prezzo si è tirata fuori ogni scusa e alla fine quasi tutte le Regioni si sono fatte le loro Consip, moltiplicando le centrali d’acquisto e ovviamente anche quelle di spesa pubblica.

Tasse raddoppiate su PC, TV e telefoni

Tasse raddoppiate su PC, TV e telefoni

Francesco De Dominicis – Libero

Da un premier che vive di smartphone e tablet non se lo sarebbe aspettato (quasi) nessuno. Eppure, Matteo Renzi, l’alfiere della modernità, sta per dare una clamorosa stangata a telefoni cellulari, tv, chiavette usb e qualunque prodotto hi tech abbia un supporto di memoria digitale. La stangata è azionata in tandem con la Siae (l’ente che gestisce i diritti d’autore) ed è di fatto nascosta e per questo ancora più odiosa. Quanto pagherà una famiglia in un anno? Dipende, ovviamente, dal volume degli acquisti: ma se si comprano, nel giro di 12 mesi, un paio di smartphone, un televisore e un hard disk l’esborso può anche superare i 100 euro; a 20 euro si arriva facilmente, con una chiavetta usb e un hard disk esterno.
La manovra passa attraverso l’aumento del cosiddetto «equo compenso» per la copia privata, le riproduzioni ad uso personale di musica e film su apparati come smartphone e tablet. Un balzello che esiste da un po’ e che il governo ha deciso di inasprire sensibilmente. Per chi compra equivale a una tassa «una tantum». Che poi non è nemmeno il primo intervento volto ad alzare le tasse: solo giovedì è spuntato il rincaro delle accise sulle sigarette, dal primo luglio è aumentata la tassazione sulle rendite finanziarie (dal 20 al 26 per cento) e col decreto sugli 80 euro è salito pure il prelievo sui fondi pensione.
Insomma, l’esecutivo guidato dall’ex sindaco di Firenze ha una certa confidenza con i tributi. Dell’intervento sulla «copia privata» si discute da settimane, ma ieri il sito specializzato Dday.it ha diffuso i dettagli dell’ultima bozza allo studio del ministro per la Cultura, Dario Franceschini. «Copia privata» è il diritto che tutti i cittadini hanno di copiare, appunto, qualsiasi contenuto acquistato legalmente su altri apparecchi di sua proprietà. Ed è proprio su questo teorico trasferimento di dati da un supporto a un altro che si inserisce la gabella, che viene prelevato dal fisco, a prescindere dall’eventuale riproduzione, al momento dell’acquisto. Ma il giochetto non è finito perché sull’importo finale scatta anche l’Iva: la tassa sulla tassa.
Sta di fatto che la nuova bozza porta alla luce un raddopppio rispetto ai vecchi importi. Si parte con gli smartphone e i tablet (finora esclusi dal salasso): fino a 8 gigabyte di memoria il copenso è di 3 euro, fino a 16 gb di 4 euro, fino a 32 gb di 4,80 euro e oltre i 32 gb di 5,20 euro.
Non è finita. Sotto la scure finiscono anche i tv, compresi quelli sprovvisti di hard disk finora esclusi dal pagamento dell’obolo Siae che è pari a 4 euro. Per i computer l’importo è stato fissato a 5,20 euro oltre il doppio rispetto all’attuale tariffa che prevedeva un doppio livello: 2,40 euro (per pc con masterizzatore) o 1,90 euro (per tutti gli altri). In controtendenza il compenso per i telefonini che scende da 0, 90 euro a 50 centesimi, ma ormai gli apparecchi cellulari «base» non si vendono più. Per gli hard disk il discorso è articolato: finora erano colpiti solo i supporti esterni (0,02 euro per gb fino a 400 gb e 0,01 euro per gb oltre 400 gb), mentre adesso la «scure» cade pure su quelli potenzialmente integrabili nei pc. Il compenso diventa di 0,01 euro per gigabyte con un massimo di 20 euro. La riduzione, tuttavia, è solo apparente perché il raggio d’azione si estende a vista d’occhio. Per gli hard disk con uscite audio-video le tariffe sono più complesse e oscillano da 4,51 euro a 14,81 euro. Mentre va da 3,22 euro a 32,20 euro la forchetta per i personal video player. Per quanto riguarda le memorie o gli hard disk integrati in videorgistratori, decoder o tv si va da 6,44 euro a 32,20 euro. Vengono colpiti anche vecchi supporti come audiocassette, vhs, cd e dvd (con prelievi contenuti, attorno ai 10 centesimi) e pure supporti più evoluti, come i bluray disc (con prelievi pari a 0,20 centesimi ogni 25 gb).
Le categorie sono divise. Da una parte Confindustria digitale, per voce del presidente Elio Catania, si è detta pronta a dare battaglia. Dall’altra il suo omologo Marco Polillo, di Confindustria Cultura, che aveva detto di voler difendere il decreto. «Siamo pronti a fare ricorso: l’aumento è ingiustificato e non tiene conto dell’evoluzione delle tecnologie e delle mutate abitudini di utilizzo da parte dei consumatori, con lo streaming e il cloud storage ormai a farla da padroni rispetto alla copia privata, dando un segnale negativo per lo sviluppo tecnologico a fronte di un impegno in questo senso del Governo Renzi» aveva dichiarato Catania, pur schierandosi a favore della tutela del diritto d’autore e della lotta alla pirateria. Secca la replica di Polillo: «L’adeguamento del compenso è un processo in atto in molti Stati membri» della Ue. Come dire: ce lo chiede l’Europa, pure questa mazzata.

Europa delle banche

Europa delle banche

Davide Giacalone – Libero

Ecco una frase fatta ed equivoca, utile solo a confondere le idee: l’Europa dovrebbe essere dei popoli e non delle banche. Per essere dei popoli, invece, l’Europa ha da essere anche delle banche. Proverò a dimostrarlo segnalando che un elefante è entrato in cristalleria, s’è mosso in modo inappropriato, ma nessuno sembra essersene accorto, perché tutti gli occhi sono puntati sui cocci dei governi e non su quelli dei cittadini e del sistema produttivo. Seguiamo l’elefante, vedrete che porta anche al Nazareno.

Dunque: agitando la durlindana in una battaglia immaginaria, mentre Manuel Barroso certificava che nessun capo di Stato o di governo ha mai chiesto di modificare i trattati, sicché ciascuno ne richiama l’applicazione facendo finta di mettere l’accento sul duro o sul soffice, ma sapendo tutti che c’è l’uno e l’altro, agitando lo spadone, dicevo, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, s’è indirizzato alla Bundesbank e ha detto: voi fatevi gli affari vostri, non provate a far politica in Italia (più di quella che fecero e fanno? ndr), così come io, del resto, non mi occupo delle Landesbanken e delle Sparkassen. Poi l’elefante è uscito dalla cristalleria e nessuno ne ha messo in adeguata evidenza il passaggio. Eppure è rivelatore e decisivo.

Tornando al luogo comune iniziale, quindi, si dovrebbe così correggerlo: l’Europa sia dei e risponda ai cittadini, non sia dei e risponda solo ai governi. Perché le banche centrali sono i e dei governi, mica i e dei sistemi bancari. Perché tutto il gran dibattito ruota attorno a rigore e flessibilità, ma con esclusivo riferimento al bisogno di ciascun governo di correggere i conti per non incorrere in infrazioni. Semmai qualcuno si sta occupando veramente di sviluppo e crescita produttiva, quindi anche industriale, quella è la Banca centrale europea. Verrebbe da dire: magari l’Europa fosse della Bce. Peccato che sarebbe vagamente non democratica.

Di Landesbanken e Sparkassen, invece, ci dobbiamo occupare eccome. E non per farci gli affari degli altri, ma per farci i nostri e quelli comuni. Cosa sono? Sono banche regionali o locali tedesche (la Germania è uno Stato federale, per questo ha una camera degli stati, quindi quel che noi chiamiamo regionale lì è statale, ma non federale). Sono banche che rispondono a potentati locali, fortemente politicizzate. Banche che accettano il denaro contante come in Italia sarebbe più che sufficiente per chiamare subito la Guardia di Finanza. Ed è (anche) grazie a quel sistema, grazie al fatto che la Germania è il Paese con più pagamenti in contante, che quando rivaluteremo il pil con l’economia sommersa il nostro crescerà di uno o due punti, il loro di tre o quattro. Sono banche con cui hanno sostenuto settori produttivi altrimenti fuori mercato. I tedeschi hanno combattuto la loro battaglia contro gli italiani del tessile proprio utilizzando quel genere di credito. Allora, se l’Europa vuole essere dei popoli, quindi dei lavoratori e degli imprenditori, deve essere anche Europa delle banche, nel senso che le regole non possono ammettere eccezioni. Mi piace dirlo: sia perché suona molto tedesco; sia perché sono i tedeschi ad avere chiesto che quelle loro banche siano tenute fuori dalle regole e dai controlli europei. Nein, non si può fare.

Renzi sbaglia: noi di quelle banche abbiamo il dovere di occuparci, perché devono essere rappresentati gli interessi di tutti i sistemi produttivi, altrimenti si rappresentano solo gli interessi dei ragionieri che redigono i bilanci statali. Che è esattamente l’Europa fallimentare.

Da qui si arriva al Nazareno. A molti piace dirlo e a taluni anche crederlo: la riforma del senato è quel che serve per dimostrare che l’Italia si mette al passo con tempi e mercati. L’accordo fra Berlusconi e Renzi regge, provocando l’ulcera a chi è di sinistra e a chi è di destra, sicché siamo sulla buona strada. Occhio, perché è evidente che a Berlusconi serve mostrarsi decisivo e a Renzi è utile mostrarsi determinato, avendo ciascuno in animo di usare l’argomento in campagna elettorale (che il secondo vorrebbe fare al più presto, mentre il primo deve ancora capire cosa più gli conviene), ma che dalla riforma del senato passi la riscossa dell’Italia non è una favola, è una barzelletta. Provino a usare il Nazareno come vitaminico per porre il problema di un serio, coerente e accettabile sistema bancario europeo: meno giornalisti capiranno, meno tifoserie si animeranno, ma molti più imprenditori e lavoratori avranno l’impressione che s’appresta il miracolo.

Asta fallimentare

Asta fallimentare

Davide Giacalone – Libero

Vendere l’Italia come se fosse un’asta fallimentare è l’esatto opposto di usare il valore del patrimonio per abbattere il debito. Incassare un’offerta di 530 mila euro per un’isola veneziana (Poveglia) non significa che quello è il valore offerto dal mercato, ma che è fuori dal mercato e dal mondo la procedura utilizzata. Queste operazioni si fanno in maniera radicalmente diversa: 1. si aggregano pacchetti che consentono valorizzazioni importanti; 2. si chiamano investitori da ogni parte del mondo, con annunci sulla stampa internazionale. Qui, invece, si vendono conventi e castelli come se fossero la stamberga lasciata libera dalla nonna defunta.

“Venghino signori venghino”. Si scomodò il presidente del Consiglio, per mettere all’asta quattro scarcassoni, supponendo che ci fossero in giro feticisti disposti a spendere per potere possedere l’auto nella quale pose le terga il ministrucolo di turno. Per vendere isole e palazzi storici, invece, il demanio procede a umma-umma, sbriciolando il patrimonio e chiamando a concorrere quello stesso mondo fallimentare che al ministrucolo fece da corte. Così le cose si svendono, deprezzano, maltrattano. Impoverendoci tutti. Così stando le cose le aste meglio riuscite sono quelle andate deserte.

Ci sono due strade, che possono essere degnamente imboccate. La prima consiste nel convincere gli altri europei a creare un fondo comune delle dismissioni immobiliari, costruendolo in modo tale che i conferimenti generino immediatamente una parte della liquidità relativa al valore stimato (mettiamo l’80%). Il fondo può agevolmente finanziarsi con bond europei, che non susciterebbero la ribellione di taluni (leggi Germania e Olanda), perché non comporterebbero una federalizzazione dei debiti nazionali, essendo garantiti dal patrimonio conferito. Il fondo avrebbe il compito di vendere, per far questo utilizzando soggetti professionali di primo livello, selezionati nel mondo, e attirando investimenti altrettanto globali. Una volta effettuate le vendite queste genererebbero la retribuzione degli intermediari e si potrebbe poi conguagliare con il Paese conferitore (se vendi a 100 e hai anticipato 80 giri la differenza, al netto delle commissioni). La seconda consiste nel fare la stessa cosa, ma a livello nazionale. In questo caso non ci potrebbero essere bond, dato che il patrimonio è lo stesso oggi messo a garanzia del debito, ma si potrebbe portare in Borsa il veicolo societario approntato. Stiamo parlando di valori che superano, solo per l’Italia, i 500 miliardi. Anche in questo caso si devono chiamare operatori professionali di livello globale, senza riserve di caccia per gli amichetti rapaci e incapaci. La prima è migliore della seconda, ma la seconda è mille volte preferibile al sistema che si sta utilizzando.

Il patrimonio immobiliare, inoltre, potrà essere adeguatamente valorizzato se nelle condizioni di vendita sono già illustrate le condizioni d’uso (quel che si può fare e quello che no) e quelle fiscali. Nessuno investe in un Paese in cui non esiste il diritto e il rispetto del contribuente, talché a ogni conto sbagliato corrisponde una nuova tassa adottata.

Sarà bene ricordare che, per uno Stato come per una famiglia, il patrimonio si vende una volta sola, mentre i debiti non estinti si pagano per sempre. Siccome il patrimonio si accumula negli anni (nei secoli), mentre la liquidità che se ne ricava si è in grado di mangiarsela nei mesi, la sola cosa moralmente accettabile è che il patrimonio di tutti serva ad alleggerire tutti dal debito collettivo e dal suo insopportabile costo. Visto che si inalberano in tanti se i tedeschi ci mandano a dire una cosa ovvia, ovvero che il debito crescente non propizia lo sviluppo, ma la miseria, lasciate che sia un cittadino italiano, contribuente, a dire che se il patrimonio viene in quel modo gestito allora è preferibile evitare ogni operazione, lasciandolo a marcire dove si trova. Non è un affare, ma, almeno, non è neanche un malaffare.

Tagli, ritagli e frattaglie

Tagli, ritagli e frattaglie

Davide Giacalone – Libero

Da una parte il governo nega, su questo formalmente unanime, la necessità di una correzione dei conti 2014, dall’altra si ricorda di Carlo Cottarelli e gli chiede di predisporre tagli per 17 miliardi (già inseriti nei conti del Documento di economia e finanza, ma ancora non realizzati). A quelli se ne dovrebbero aggiungere altri 10, se si vogliono stabilizzare maggiori spese e minori entrate già decisi e propagandati (mitici 80 euro compresi). Ciò fornisce un punto di riferimento circa lo spessore non della manovra da farsi, ma di quella già in corso: 27 miliardi. Siccome i tagli, per giunta in questa quantità, stanno passando da favola a leggenda, il pericolo concreto è che scattino le clausole di salvaguardia. Che, tradotto in linguaggio prosaico significa: tasse.

Se il governo riuscirà a evitarlo, se cioè l’aggiustamento avverrà con tagli e non con ulteriore fisco, sarà un bene. Andrà riconosciuto, con piacere. Dovrà accadere, però, al netto dei trucchi. Prendiamo, per esempio, il pagamento dei debiti pubblici verso fornitori privati: spostarli al 2015 è, al tempo stesso, una sconfitta e un trucco. Sconfitta perché il governo viene meno a quanto garantito. Trucco perché si sposta contabilmente una partita e non si risolve alcun problema. Un tempo la chiamavano “finanza creativa”, ora è solo cosmesi tardiva.

I tagli, per avere una caratteristica positiva, non recessiva e risolutiva devono essere stabili nel tempo e relativi a funzioni pubbliche che si cancellano. Occorre distinguere, quindi, fra i risparmi e i tagli. I primi si possono ottenere, anche in misura assai significativa, ottimizzando le procedure e rendendo trasparente la spesa. I secondi, invece, richiedono non una momentanea apnea, ma il soffocamento di interi comparti dello Stato apparato, nelle sue varie articolazioni societarie e locali. Quando la Corte dei conti (che già di suo è un organismo in gran parte disfunzionale) certifica la perdita annua di 26 miliardi nella gestione di 7500 aziende partecipate dal pubblico, occorre stabilire a quale numero guardare con maggiore preoccupazione: gli sciocchi guardano il 26, i saggi il 7500. Non solo quelle società sono troppe, non solo perdono, ma il loro costo reale non è dato dal saldo finale, negativo, bensì dal trombo crescente che rende difficile la circolazione produttiva. Limitarsi a risparmiare 26 miliardi significa adottare una terapia che porta alla trombosi. Più che di un medico sarebbe opera di una chiromante. Lavorare nello sfoltimento delle società e delle funzioni significa praticare tagli promettenti. Concentrarsi sul mero sbilancio significa accontentarsi dei ritagli, lasciando al loro posto le frattaglie.

Ma si può fare di peggio: lasciare lo Stato a occupare grassamente e inefficientemente il mercato, salvo portare in quotazione alcune sue società. In qualche caso delle perle, che vanno liberate dal guscio, in altri dei gusci che contengono roba incompatibile con il mercato, ovvero economia sussidiata. Non contenti di questo si completa l’opera prendendo quei soldi e mettendoli al servizio della spesa pubblica, magari mascherata da “investimenti”. Una delle cose che dovrebbero essere chiare, un punto sul quale varrebbe la pena di misurare la trasparente convergenza di ciascuna forza politica, è: quando si vende patrimonio si deve far scendere il debito. Altrimenti ci si ritrova con meno patrimonio, un debito crescente e una spesa fuori controllo.

Quindi: se la richiesta di tagliare 17+10 miliardi, entro la fine dell’anno, è da considerarsi totalmente alternativa all’imporre nuove tasse e imposte, che la si saluti con soddisfazione; se è un modo per coprire altra spesa corrente, in un gioco dilapidante delle tre carte, che la si avversi con determinazione, perché porta dritto a più alta pressione fiscale. Posto che, come mettevamo in evidenza giusto ieri, dall’interno del governo si manifestano linee diverse e incompatibili fra loro, forse varrebbe la pena di farne oggetto di un dibattito parlamentare. Perché si può anche conservare l’immunità dalle inchieste giudiziarie (e si dovrebbe farlo senza ipocrisie), ma nessuno sarà immune dall’avere taciuto il rischio che corrono i conti di un Paese in cui la spesa è variabile indipendente dalla (de)crescita.