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Renzi mette le mani sul tesoro della Cdp

Renzi mette le mani sul tesoro della Cdp

Davide Giacalone – Libero

Cambiano i vertici della Cassa depositi e prestiti (Cdp). L’attenzione collettiva s’appunta sui nomi, che, però, dovrebbero essere funzione della cosa e del cosa sono incaricati di fare. Questa partita è rilevantissima. Di portata storica. Sarà bene non cucinarla e non consentire che sia cucinata come fosse un qualsiasi piatto della mensa governativa.

È capitato spesso che incarichi scaduti si siano trascinati in regime di proroga, perché non si procedeva alle nuove nomine. Cattivo costume. Qui, però, siamo di fronte a uno spettacolo opposto: i vertici attuali scadrebbero fra un anno, ma vengono silurati e sostituiti in anticipo. Perché? Troverei meritorio l’avvicendamento, se agli attuali responsabili s’imputassero precise mancanze. Riterrei utile sostituirli anche solo perché hanno parlato troppo, come fossero alla guida di un fondo d’investimento, anziché di un istituto molto particolare, che dovrebbe provvedere al finanziamento degli enti locali, non al perseguimento di una (quale?) politica industriale. Ma è questo il senso della decisione governativa? O vengono mandati via perché non sono stati abbastanza solleciti nel dare attuazione ai non ordini governativi? Ovvero a quelle iniziative che dal governo vengono suggerite, senza neanche potere essere esplicitamente imposte? Ai nuovi dirigenti è assegnata la missione di perseguire più riservatezza o più attivismo? Sembrerebbe la seconda cosa, visto che si tratta di due banchieri, di cui uno proveniente da una banca d’affari. Sembrerebbe, ma dovrebbe essere chiaro. Su un punto di tale rilevanza sarebbe opportuno un apposito dibattito parlamentare.

Per dirne una: la Cdp si colloca al di fuori del perimetro della spesa pubblica, può agire, quindi, senza intaccare il deficit e il debito pubblici, ma resta una Cassa pubblica, posseduta dal ministero dell’Economia e, in posizione largamente minoritaria, dalle fondazioni bancarie; l’abbondante liquidità di cui dispone (capace di generare dividendi per gli azionisti) discende dalla gestione dei flussi generati dalle Poste; per queste ultime è prevista l’imminente quotazione in Borsa. È evidente che i soldi o si valorizzano da una parte o dall’altra, il che sposta, non poco, la loro resa in capo ad azionisti privati (in Borsa) o pubblici. Un chiarimento è necessario, se non vogliamo continuare a quotare lo statalismo, dopo avere abbondantemente quotato il socialismo municipale. Domenica scorsa segnalavamo i casi paralleli di telecomunicazioni e acciaio, due settori prima pubblici, poi privatizzati, quindi nuovamente oggetto d’intervento pubblico. Se la Cdp è destinata a essere lo strumento principe di questa nuova economia pianificata è lecito chiedere che ne siano discussi i contorni, gli strumenti e le finalità.

Ricordo che financo Mussolini, quando imboccò la strada dell’intervento pubblico in economia, lo fece affidandone la gestione a gente come Alberto Beneduce e Raffaele Mattioli, che non solo non erano partecipi di alcun fascio magico, ma erano antifascisti (e agli oppositori del regime diedero non pochi aiuti). Da quella scelta, lungimirante, nacque sia l’Iri che la Mediobanca, poi affidata a un antifascista di nome Enrico Cuccia (che aveva sposato la figlia di Beneduce, il cui nome è un programma: Idea Nuova Socialista). Lungi da me abbandonarmi all’apologia, ma sarei rattristato assai se quell’esempio fosse considerato troppo liberale e sciocco nel non favorire i propri amici. Sarebbe imbarazzante scoprire che oggi è più facile d’allora mettere le mani sulla e nella Cassa.

Il cambio ai vertici della Cdp non può e non deve essere un problema di nomi ma di politiche. Le scelte non possono e non devono essere per amicizia e colleganza, né di chi governa né di chi lo affianca guidandolo. Qui stiamo parlando della colonna vertebrale stessa di un’Italia produttiva che prova a rimettersi in piedi. Se c’è la gobba, meglio correggerla subito. Se c’è un gobbo, da cui gli attori leggono il copione, meglio individuarlo subito. Rimandare e far tinta di niente significa prepararsi a perdere tempo, quattrini e a far nascere una nuova genia di corsari pronti ad arricchirsi con la spesa pubblica. Sarebbe opaco e pericoloso un governo che si rifiutasse di affrontare il dibattito. Sarebbe inutile e miserevolmente succube un’opposizione che non lo chiedesse.

Ultimatum degli imprenditori al premier

Ultimatum degli imprenditori al premier

Davide Giacalone – Libero

Bella, la relazione di Marco Gay all’annuale convegno dei giovani confindustriali. Ne metto in evidenza sei punti, che ne descrivono contenuto e taglio. In corsivo il riassunto di quanto detto da Gay, che di quei giovani è presidente.

1. Non possiamo continuare a cambiare le norme e i riferimenti fiscali, nel frattempo rispedendo al mittente finanziamenti europei non utilizzati. Ovvio, si dirà. Mica tanto, visto che ad ogni riforma i mezzi di comunicazione annunciano il cambiamento del mondo, così incentivando il politico desideroso d’apparire più a sventolare bandiere che a contabilizzare risultati. Si potrebbe mettere una regola: ogni riforma deve immediatamente portare a una diminuzione delle norme su eguale materia, altrimenti non è valida.

2. La via giudiziaria alle mani pulite ha fallito. Ha distrutto qualche partito, cambiato qualche consiglio d’amministrazione, ma non è servita a rendere migliore l’Italia. «Perché è stata una resa di conti interna al vecchio sistema». Non serve aggiungere altro.

3. Il rapporto fra affari e politica s’è incancrenito perché si sono lasciate aperte tre piaghe: il finanziamento della politica; la regolamentazione dei partiti; e quella delle lobbies. Tre leggi mancanti. Mancanze che derivano da un comune ceppo ipocrita (e totalitario), ovvero il volere ciascuno essere interprete degli «interessi generali», considerando degradante incarnare quelli reali, per loro natura parziali.

4. Dobbiamo imparare a contabilizzare i risultati, misurando il rapporto tra cause ed effetti, fra promesse e realtà. Altrimenti le riforme saranno solo un cambiar di nome a cose e concetti sempre più consunti. In assenza di dati accettati le discussioni si fanno ideologiche, e quando le ideologie tramontano diventano scontri di tifosi. Il fatto è che noi già avremmo diversi istituti preposti ai dati e alle misurazioni, cui si somma un numero divertente di presunte autorità indipendenti. Solo che le nomine hanno targhe politiche. Gay ha ragione, ma faccia attenzione in casa, in quella Confindustria di cui si commentavano, qualche tempo fa, le previsioni di crescita italiana al di sopra del 2%. Quello che Brera avrebbe defìnito: un tiro alla viva il parroco.

5. Passi per gli 80 euro, l’Irap, le defiscalizzazioni, tutte non misurate negli effetti, ma, alla fine, qual è la politica industriale? La lascia come domanda, perché non c’è risposta. È cosi: tante tessere del mosaico, alcune apprezzabili, altre orribili, ma senza il disegno. Critica che vale per questo governo, ma anche per un’intera stagione.

6. Al governo proponiamo uno scambio: noi industriali ci assumiamo l’onere di far crescere le nostre aziende, il che significa investire (ma non possiamo riuscirci se la defiscalizzazione inglese, per le nuove società, è all’85%, mentre da noi si ferma al 20), voi governanti v’incaricate di sgomberare il mercato dalle macerie giudiziarie, dai blocchi amministrativi, dai ricorsi infiniti e dalle 32mila stazioni appaltanti. Volesse il cielo. Ma sta accadendo il contrario.

Le nuove aziende cercano ambienti meno ostili, mentre le novità legislative, dall’abuso di diritto al falso in bilancio, sembrano fatte apposta per allargare la centralità togata. Qui occorre saper fare i conti non solo con la politica, ma, appunto, con la forza degli interessi. Gay ha detto che vogliono sporcarsi le mani. Bravo, è il modo migliore per avere la coscienza pulita. Ha anche detto che alle regionali tutti hanno perso, perché gli elettori hanno voltato le spalle alle urne. Secondo me anche perché ciascuno ha incassato una sconfitta della propria strategia (si fa per dire). Temo che non basteranno i guanti, ci vorranno anche gli stivali.

Marino mette la patrimoniale sui condizionatori

Marino mette la patrimoniale sui condizionatori

Davide Giacalone – Libero

Hai un impianto di climatizzazione estiva o di riscaldamento invernale? Disgraziato, distruttore dell’ambiente, ricco profittatore. Ora, per penitenza, paghi una patrimoniale e vieni ginocchioni a darmene ricevuta, dopo avere scucito l’obolo alla società privata cui assegnai il compito di vigilare sul nulla. Il burocrate più socialmente utile è quello che non fa niente, il più nocivo quello che si trova una funzione. Vediamo, dunque, questa nuova incarnazione del satanismo.

Ricevo una lettera su carta intestata del comune di Roma: «Gentile Cittadino». Bene, cominciamo bene. Ma cadiamo subito: «desideriamo informarLa che, con riferimento a quanto in oggetto…». Fanno dei corsi appositi, per compitare in tal modo? Comunque, vogliono farmi sapere che «l’ATI CON.TE, organismo tecnico, ha attivato il servizio di censimento e controllo degli impianti di climatizzazione estiva ed invernale previsto dal D.Lgs. 192/ 2005, così come modificato dal Decreto Legge n. 63 del 4 giugno 2013 n. 90 del 03/08/2013». Chi siete? Che volete? Che cavolo di servizio è stato «attivato»? Che vi hanno fatto di male le virgole? Le congiunzioni non si mettono in quel modo, altrimenti ci si riferisce solo a impianti che riscaldano «ed» raffreddano.

Cerco e scopro che CON.TE è un soggetto privato cui partecipano Promoseco SME, Servizi Energia Ambiente e Italgas Ambiente. Troppo ambiente, è inquinante. Questi signori hanno vinto un appalto e ora vogliono mettere le mani sui miei impianti. E siamo già alle minacce: «Alla luce di quanto sopra, pertanto, Le richiediamo la trasmissione della dichiarazione di avvenuta manutenzione, entro e non oltre il 15 luglio 2015 (…) mediante l’invio di: 1. Rapporto di efficienza energetica (conforme all’Allegato III del Decreto Ministeriale del 10/02/2014), rilasciato da manutentore al momento del controllo; 2. Ricevuta di relativo versamento, il cui importo è stabilito in base alla potenza termica dell’impianto».

Quindi devo: a. chiamare i signori di CON .TE, altrimenti fanno senza di me; b. riceverli quando sono disponibili, perché si dà per inteso che tutti noi, come loro, non si abbia nulla da fare; c. pagarli, per il loro prezioso e per niente desiderato intervento; d. pagare una patrimoniale che sale al salire della potenza istallata. Ometto alcune spontanee considerazioni, come quella sulla burodemenza dell’«entro e non oltre». Esiste un entro che è oltre? Un oltre che è entro? Piuttosto fornisco qualche suggerimento, a gratis.

Mettiamo che siano utili questi controlli. Si fanno su impianti regolarmente installati (quelli irregolari manco li conoscono), con macchine regolarmente omologate, che ho pagato coni miei redditi, da cui sono già state detratte le imposte, con regolare fattura, quindi ho già pagato anche l’Iva. Chiedermi di pagare dell’altro è un insulto alla ragionevolezza. Poi, una volta che un manutentore autorizzato, vale a dire quelli che curano questi impianti, quasi sempre a nome dei produttori, quindi non necessariamente il vincitore di un appalto di cui non si sentiva il bisogno, viene e controlla, gli si mette a disposizione un bel sito del Comune, una bella banca dati degli impianti, sicché spunta on­line il mio nome e il mio indirizzo. Fine della trasmissione. I controlli così sono facilitati, visto che si dovrà pensare solo a chi non lo ha fatto. Questi, invece, vogliono non solo che anticipi la documentazione (e la ricevuta della patrimoniale) via fax o e.mail, ma poi devo recapitarla ai loro uffici, quelli di quei privati, e devo sempre conservarne una copia, da esibire tremulo al sopraggiungere del CONTE Tacchia.

Da diversi punti si può guardare Roma dall’alto. Fatelo con gli occhi del CON.TE: vedrete che moltissimi hanno i condizionatori o le caldaie, variamente inchiodati alle mura esterne di case e uffici, ma in alcuni punti si concentrano tumori del tetto, baluginanti impianti atti a riscaldare l’Antartide o rendere fresco il Sahara. Non vi potete sbagliare: sono uffici pubblici. Gli unici che non pagano per boccheggiare d’inverno e congelare d’estate, tanto che gli impiegati, prudentemente, tengono comunque la finestra aperta. Che manco ci sono più le mezze stagioni.

Questa storia dei bollini, infine, è una gran presa in giro. Si spaccia per utile, ma non lo è. Dice di difendere l’ambiente, ma lo peggiora. Portai la macchina a controllare i gas di scarico, così come previsto dalle norme. Arrivai, pagai e mi diedero il bollino da appiccicare al parabrezza. Scusate, chiesi, ma non controllate i gas? Il meccanico rispose, saggiamente: dotto’ ce pole mette ‘n tubo e ficcarlo nell’abitacolo, così more subitamente, i gas benefici non l’hanno ancora ‘nventati. Famolo sindaco.

Renzi escluso dal tavolo Grecia, l’Ue ci gira un conto da 40 miliardi

Renzi escluso dal tavolo Grecia, l’Ue ci gira un conto da 40 miliardi

Davide Giacalone – Libero

È grave che l’Italia sia stata esclusa dal vertice europeo sulla situazione greca. Sono ridicoli quelli che vogliono sempre andare a battere i pugni da qualche parte, ma la nostra esclusione ha a che vedere con interessi vitali del Paese, mica con questioni d’etichetta o fasulla prosopopea. Il fatto che si siano visti i capi dei governi francese e tedesco, assieme ai vertici della Banca centrale europea e del Fondo monetario inoltre, non trova legittimità in alcun trattato europeo. In attesa di aggiornarli si dovrebbe rispettarli.

Qualche numero è utile a capire la nostra posizione, nonché l’inaccettabilità dell’esclusione. Il debito greco ammonta a 330 miliardi di euro. Il 60% è detenuto da fondi europei Efsf ed Esm. L’8% dalla Bce. Il 5% sono altri prestiti. Il 12% dal Fmi. Sommando le prime tre voci si arriva al 73%. Noi italiani siamo i terzi contributori di quei fondi e di quelle istituzioni, giacché si paga in ragione del prodotto interno lordo (Germania 27, Francia 20, Italia 18%). Già questo basterebbe e avanzerebbe per essere invitati non a colazione, ma a parlare di una Grecia la cui sorte ci riguarda tutti. Ma questi dati sono in parte ingannevoli, perché l’Italia è si il terzo creditore, ma, forse, è il primo netto.

Al momento del primo default greco (2010) i sistemi bancari erano cosi esposti rispetto al montante del debito greco: Germania 42%, Francia 32, Olanda 11, Belgio 8 e Italia 5. Quei titoli del debito greco non venivano acquistati per generosità, ma perché ad alto rendimento. Si pensava senza rischio, sbagliando alla grande. A quel punto i più esposti gridarono aiuto, altrimenti sarebbe saltato il sistema bancario europeo. Il primo fondo di salvezza (Efsm) fu finanziato con il meccanismo solito, quindi noi pagammo per il 18 del totale, essendo esposti per il 5%. Si disse che era sperimentale, ma poi quella regola restò. Quindi: sì, siamo i terzi creditori, ma considerato che il primo e il secondo sono quelli che hanno preso più soldi per le loro banche, è probabile si sia i primi netti. E stiamo fuori dall’uscio?

Poi c’è l’altra faccia della medaglia, ovvero il nostro mostruoso debito pubblico. Che è una colpa, Però è anche la ragione per cui siamo più interessati di altri. Il risalire degli spread (nonostante la morfina Bce) lo paghiamo noi più di tutti. E va anche detto che dal 2008 al 2013 l’incremento del valore monetario del nostro debito è stato del 24%, mentre quello tedesco è cresciuto del 30 e quello francese del 44. Il che contribuisce (solo in parte) a capire come abbiamo fatto ad avere la recessione più lunga e dura.

Dunque: sulla base di quale superiorità politica e in virtù di quale articolo dei trattati due governi europei trattano come cosa loro un problema collettivo? Hanno ricevuto un mandato? Da chi? Considerato che al tavolo sedevano una istituzione internazionale (Fmi) e due europee (Bce e Commissione), si sono prese decisioni, o anche solo orientamenti? Perché la loro legittimità non sarebbe dubbia, bensì inesistente. Dopo due guerre mondiali l’asse franco-­tedesco fu un bene, ma dopo la nascita dell’Unione europea e dell’euro (in particolare), quell’esclusività sa di usurpazione. Non è un modo per rendere più dinamica e autorevole l’Unione, ma per garantirsi l’esatto contrario, alimentando il vittimismo na­ zionalista di quanti si sentono prede della forza teutonica. Dall’Italia si lanciano appelli, a cominciare da quello del Presidente della Repubblica, affinché gli inglesi anticipino il loro referendum sull’Ue, previsto per il 2017. Ma perché? Capisco lo facciano francesi, spagnoli e tedeschi, che hanno varie scadenze elettorali, ma a noi converrebbe il contrario: usare la pendenza di quell’arma (così concepita dagli inglesi) per innescare negoziati seri e rivedere quel che non va nell’ingranaggio europeo. Si può essere per la fine dell’Ue e l’uscita dall’euro. Trovo siano errori, ma ne capisco il senso (temendo che sfugga a chi li propone). Da europeista, però, vedo quel che s’è inceppato e so per certo che se non riparato porterà tutto alla rovina, sicché, quando si tengono riunioni come quella di Berlino, mi domando se c’è ancora un governo italiano e se pensa, con calma, di dovere dire qualche cosa. Anche per non dare l’impressione che si taccia per avere indietro l’elemosina dell’elasticità sui conti, ovvero un favore da somari che aiuta il governo in quel momento in carica senza essere di alcuna utilità all’Italia.

Partita tlc, lo Stato ne stia alla larga

Partita tlc, lo Stato ne stia alla larga

Davide Giacalone – Libero

La grande partita sulla rete per le telecomunicazioni somiglia alla rievocazioni in costume delle battaglie d’epoca: folklore. Ma la testa di molti è rimasta a quando Berta filava, sicché vorrebbero fregarle il rocchetto. La rete e i contenuti non sono l’uovo e la gallina, dovendosi stabilire da cosa nasce cosa.

La prima è un mero strumento, la cui utilità e ricchezza cresce al crescere dell’attrattività e ricchezza dei secondi. Non viceversa. Compriamo quel determinato smartphone o quel computer perché fornisce i servizi e apre l’accesso ai contenuti che ci interessano, o perché è di moda, ci infiliamo una sim o un cavetto solo perché altrimenti non funzionano. Ma scegliamo il terminale e i contenuti che ci finiscono sopra, non la rete. Che resta condizione necessaria al funzionamento, ma state certi che se la domanda cresce per i fatti suoi nessuno si porrà più il problema degli incentivi per allargare la rete, dacché i soldi li fornirebbe il mercato. Al contrario, invece, ragionare di rete senza ragionare di servizi e di modello di business è come volere una rete da pesca più grande e fitta per poi gettarla nella vasca da bagno: che ci peschi, la saponetta persa?

Per Telecom Italia la rete ereditata è un patrimonio. Il che già ne indica la vecchiezza. Ma nello scontro con alabarde e mazze ferrate, inscenato per la festa di paese, il governo ha pensato di metterla sotto scacco supponendo di poterne cancellare la propaggine finale, il doppino in rame. Se non fosse un’idea comica, contraria a quel che avviene in mercati più aperti alla competizione, sarebbe stata considerata una turbativa di mercato. Poi è sorta l’idea di far stendere la rete a Enel, cosa che ci ha portato a rievocare, qui, il disastro economico che la stessa idea provocò, a carico della medesima società, controllata e diretta dallo Stato. Non mi ripeto, ma trovo confortante che l’amministratore delegato, Francesco Storace, si sia chiesto: «a che servirebbe Enel nella rete?». A nulla. Lo si faccia capire anche al socialismo borsaiolo delle municipalizzate. La traduzione di “multiutility” non è “multioccupazione” di spazi. Né sarebbe superfluo far notare ai vertici della Cassa depositi e prestiti che essi non sono capitani di finanza, gestori di soldi che i clienti hanno fiduciosamente affidato loro, ma nominati dalla politica per amministrare soldi pubblici. Provino a star zitti almeno una settimana.

La larga banda è un bene? Sì. La banda ultra larga è un bene? Ultra sì. L’Italia è in ritardo? Purtroppo sì. E fa rabbia, perché eravamo all’avanguardia. Prima delle locuste. Ma il grosso svantaggio si concentra nelle connessioni che portano dentro le case e gli uffici. Invece di avviare una pianificazione nazionale non sarebbe meglio offrire agli interessati la possibilità di arricchire la loro abitazione e il loro luogo di lavoro? Voglio la larga banda, per farci quello che mi pare, quindi pago il filo che mi collega alla più vicina fibra o allaccio digitale. S’intende che avrò uno sconto in bolletta, visto che l’ultimo miglio l’ho fatto a piedi. Meno trippa collettivista, più libertà individuale. Da qui in poi si apre la gara vera: chi riesce a vendermi qualche cosa, che non siano le telefonate gratis, perché quelle le faccio di già, da anni. È su questo fronte che il mondo frizza di fusioni e incursioni d’innovatori.

Se, invece, passa il modello che tanto attizza ricorrentemente la politica, ovvero quello delle grandi reti srotolate per dire che ci sono, va a finire che l’investimento pubblico porta ricchezza a quelli che le useranno per farci affari: da Google ad Apple ad altri ancora, eroi del profitto e del marameo allo Stato. E mentre dalle autostrade ottiche m’entrano in casa Tir di merce che mi confina al mero ruolo di consumatore spenditore, il catasto continuerà a chiedermi la firma autenticata, l’anagrafe di andare a dimostrare che sono veramente io e il fisco mi manderà per posta i due codici identificativi, naturalmente diversi da quelli della motorizzazione, della scuola, della sanità, dell’Inps e cosi via delirando.

Invio questo articolo connettendo il computer al cellulare, da uno sperduto pizzo ove mi trovo per lavoro. So bene di non essere su una pista di Formula 1, ma è anche vero che non ha senso calzare il casco integrale per andare a comprare il latte. Larga la banda stretta l’idea, voi riducete le tasse che io spendo di tasca mia.

Quelli che sputano nel piatto in cui mangiano

Quelli che sputano nel piatto in cui mangiano

Davide Giacalone – Libero

Da Atene a Londra, da Madrid a Varsavia, l’Unione europea mette in scena il proprio paradosso. Realtà e rappresentazione, però, si muovono in direzioni opposte. Ciascuno sperando di potere nascondere le proprie responsabilità, o di scaricarle su altri. A 100 anni dalla prima guerra mondiale sarà bene essere severi e non smarrire la ragionevolezza.

La crisi greca, sperando che non generi una tragedia, sarà ricordata come il trionfo della stupidità. stato sciocco e presuntuoso pensare che conti scassati s’aggiustassero con il tempo, il che non vale solo per gli ellenici. Sappiamo tutti bene che i soldi prestati non potranno essere restituiti (nei tempi stabiliti) e che il solo modo per evitare che si traducano in una bancarotta (la terza) è prestarne altri. Ai greci si chiede una sola cosa: non di restituire, ma di dire che intendono farlo. Ma è quello che il governo in carica non si sente di dire, perché il contrario di quel che ha raccontato agli elettori. Un gruppo d’incoscienti, che ha messo un esibizionista a guidare l’economia. Dovesse andare male non è che cadrà il loro governo, è che c’è il rischio crolli la democrazia greca. Il popolo, più saggiamente, per più del 70% esclude di volere uscire dall’euro. Fanno di conto meglio di chi li governa.

Il Regno Unito si prepara al referendum sulla permanenza nell’Ue, previsto per il 2017. Nella recente campagna elettorale s’è fortemente agitato il tema dell’immigrazione. Eppure neanche troppi anni fa, quando giovani mettevamo piede a Londra, eravamo colpiti da una società multietnica (i giornalai, di cui resto cliente in ogni pizzo del mondo, erano tutti indiani), quale noi non eravamo. La comunità degli affari guarda con sospetto al referendum: buona l’idea, se serve a trattare con Bruxelles, ma mica si vorrà fare sul serio? Significherebbe perdere la sede di banche e industrie, la ricchezza finanziaria della City, e farei conti con un debito (pubblico e privato) enorme.

La Spagna ha trovato nell’Europa la spalla cui appoggiarsi per uscire da un passato di dittatura e miseria. In questi anni ha ricevuto aiuti rilevantissimi, per superare la crisi successiva allo scoppio della bolla immobiliare, in grado di sgretolare le banche. Grazie a questa politica ha un tasso di crescita che noi ce lo sogniamo. Eppure chi governa è in difficoltà. Anche nella Catalogna che ha bocciato il referendum separatista vincono le forze euroscettiche. La Polonia sarebbe, senza l’Europa, quel che la geografia e la storia le hanno più volte ricordato di essere: un confine esterno dell’espansionismo russo. Zarista, comunista o nazionalista che sia. Talora quel confine li ha risucchiati, facendoli sparire dal mondo libero. Eppure forze euroscettiche vincono le elezioni, pur ribadendo che il gigante russo deve essere tenuto a distanza. Come? Da chi? Dagli Usa? Diano uno sguardo all’Ucraina.

Eccolo il paradosso: sentimenti, ragionevolezza e interessi spingono verso l’integrazione europea, perdendo per strada solo rigurgiti di sangue e terra che servirono, in passato, a seppellire sotto la terra tanto sangue innocente; eppure le urne si aprono e mostrano uno spettacolo diverso. Come è possibile? Lo è per l’ignavia e la viltà delle classi dirigenti. Sia sul fronte esterno, nel non sapere raccontare che l’integrazione monetaria (Uem) comporta integrazione di bilanci e debiti, mentre l’integrazione normativa (Ue) non può spingersi fino a stabilire quanto devono essere lunghe le zucchine. Sia sul fronte interno, nello scaricare sull’Europa, trasformata in concetto mitico e arcigno, l’obbligo di cambiare per non recedere e scivolare.

Mario Draghi ha ragione da vendere, quando dice che senza riforme coordinate l’area dell’euro produrrà conflitti e perderà occasioni, ma le classi dirigenti la raccontano ai propri popoli come fosse un giogo, anziché una ciambella di salvataggio. Il paradosso è ancora più grosso se si pensa che le classi dirigenti produttive, quelle che esportano fuori dall’Ue, questa musica l’hanno capita benissimo e la ballano con coerenza. Cento anni fa era già in corso un conflitto mondiale le cui cause reali e materiali a me sembrano meno rilevanti degli scontri che oggi possono scatenarsi. Il fatto che se ne parli senza che nessuno sia al fronte è già un successo dell’Unione che c’è e quale è. Ma non è affatto il caso di sopravvalutarne la tenuta.

Famolo all’irlandese

Famolo all’irlandese

Davide Giacalone – Libero

Come è possibile che un Paese cattolico, come l’Irlanda, voti massicciamente a favore del matrimonio fra omosessuali? Risposta: lo fa proprio perché è un Paese cattolico. Succederebbe la stessa cosa in Italia. Ed è frutto di un cortocircuito logico, propiziato da una profonda confusione culturale e da un’abbondante dose di conformismo falsoprogressista.

Le tre religioni monoteiste coltivano un’idea peccaminosa del sesso. Hanno un’impronta sessista, che si riflette variamente nella preclusione del sacerdozio, nella selezione delle platee nei luoghi di preghiera, nel separare o interdire l’accesso ai luoghi sacri, nel differenziare le coperture corporali. Restiamo a casa nostra, per non allargare troppo il discorso: il sesso cessa d’essere peccaminoso, perde la tinteggiatura lussuriosa e assume la luce procreativa, quando esercitato all’interno del matrimonio. La forza di tale principio, o, se preferite, di tale tabù, è così pervasiva da essersi tradotta in molte leggi civili, che imponevano l’indissolubilità del vincolo e la condanna dell’adulterio. C’è voluto del tempo, per scalfirle. E la leva grazie alla quale s’è divelto quel totem è consistita e consiste nell’uguaglianza di tutti davanti alla legge, oltre che nella tutela dei diritti individuali. Ma il tabù resta, pur mescolandosi con un malinteso modernismo.

Se, quindi, restiamo convinti che il sesso sia benedetto solo all’interno del matrimonio, e se abbiamo imparato che il matrimonio non deve più essere il contenitore esclusivo, impermeabile e inviolabile, di un tempo, perché mai negarlo agli omosessuali? Non c’è ragione. Ecco perché, proprio in quanto cristiani (i cattolici sono una parte di questa più grande famiglia), si ritiene opportuno non impedire ad altri quel che si considera giusto per sé. L’equivoco deriva dall’opposizione delle gerarchie, specificatamente di quelle cattoliche. Ma, se è per questo, le istituzioni ecclesiastiche sono contrarie anche al matrimonio civile, considerandolo (giustamente, dal loro punto di vista) solo una formalità giuridica, avente valore inferiore al sacramento.

L’allargamento delle forme di matrimonio, per i ministri del culto, equivale alla perdita, erosione e poi quasi vaporizzazione di un monopolio. Tanto da avere abbassato tutti gli ostacoli per l’accesso ai sacramenti, con il risultato di trasformarli in riti e feste. Moltissimi dei ragazzi che accedono, a quelli precedenti il matrimonio, non è che non abbiano idea delle scritture sacre, è che ignorano anche il catechismo. Però si portano dietro il tabù, che generosamente allargano agli omosessuali. Se non fosse per quello sarebbe chiaro che il problema, senza distinzione di sesso e sessualità, non è quello di legiferare aumentando le tipologie dei vincoli di coppia, ma di farlo allargando i diritti individuali. Esempio: devo potere lasciare i miei beni, farmi assistere, delegare decisioni che mi riguardano, anche a persone con cui non necessariamente debba accoppiarmi. Il rapporto sessuale dovrebbe essere affare privato, mentre diventa pubblico ciò che vincola terzi, ma che è saggio regolare sulla base della libertà individuale, non di coppia. Con una granitica eccezione, naturalmente: quando nascono figli, che vanno tutelati con la legge.

L’idea bigotta che il sesso, per non essere peccato, comporti una scelta monogamica e matrimoniale (salvo poi violarla in tutti i modi possibili e immaginabili), frullata con l’idea falso- progressista che a quell’altare debbano potere accedere tutti, ha generato il tabù post moderno delle nozze gay. Dissentire da questo conformismo, che attira superficialità di destra e sinistra, sopra e sotto, espone al rischio d’essere accusati di sessismo e servilità vaticana. Più o meno l’opposto cui conduce il ragionare. Che comporta un impegno, però, sconosciuto al festeggiare.

Illusioni pensionistiche

Illusioni pensionistiche

Davide Giacalone – Libero

Il sistema pensionistico futuro è in equilibrio. Ciò si deve a un lungo processo riformatore, iniziato con la riforma Dini e concluso con la riforma Fornero (15 anni!). Il governo fa bene a proporre la possibilità di pensionamento anticipato, perché in un sistema interamente contributivo ciascuno prenderà in ragione del versato e della speranza di vita. Prima va in pensione e meno versa. Fa male, però, a inoculare illusioni e paure: anticipando la pensione non si perderà «qualcosina», ma molto. Né potrebbe essere diversamente, se non si vuole riscassare un sistema fra i più equilibrati d’Europa. Con un non trascurabile dettaglio: le pensioni saranno basse. Per i giovani la cui carriera lavorativa e discontinua saranno bassissime. Il sistema, pertanto, si regge solo a patto che ciascun lavoratore si rassegni alla miseria o investa nella previdenza integrativa. Cosa resa difficile da una pressione fiscale forsennata.

Il sistema resta squilibrato perché squilibratissimo è il passato. Ogni anno lo Stato spende il 16,5% del Pil per pagare le pensioni. È una quota senza paragoni fra le democrazie sviluppate. Contiene, però, due zavorre: a. si trova sotto la voce «pensioni» quel che dovrebbe stare al capitolo «assistenza» (per cui chi dice che la nostra spesa sociale è bassa, rispetto ad altri europei, non sa far di conto); b. all’incirca la metà delle pensioni attuali non è retta da adeguati contributi versati. La differenza è un trasferimento di ricchezza da chi lavora oggi a chi lavorò ieri. Sono regali fatti in nome di «diritti acquisiti» che, talora, sono solo contributi figurativi (come Renzi, del resto, che diventa dirigente d’azienda prima che la Provincia di Firenze cominci a pagare per lui i contributi previdenziali).

L’informazione sui vitalizi parlamentari (che non sono nel conto delle pensioni, ma restano spesa pubblica) è preziosa perché dimostra che non si regalano soldi ai poveri, ma ai privilegiati. Quei numeri servono la soluzione su un piatto d’argento. Se solo si è in grado di capirli. Il valore assoluto dei regali agli ex parlamentari non è tale da risolvere altri problemi, ma il ricondurli alla ragionevolezza contabile ha un valore altissimo. Si chiama: buon esempio. Al contrario, decurtare l’adeguamento all’inflazione per le pensioni più alte è un’ingiustizia che configura un’incostituzionalità. Se le pensioni si dividessero in rette o meno da contributi versati, avrebbe un senso, per le seconde, un adeguamento deflattivo, mentre sarebbe un furto per le prime. Se prendo in ragione di quel che ho versato la mia pensione non è alta o bassa, è mia, sicché punirmi (dopo avermi costretto a versare) è da assatanati. O da incapaci, che avendo ereditato un sistema in equilibrio futuro non sanno dove mettere le mani per riportare un accettabile equilibrio anche per il presente.

Conflitto d’interessi per l’autostrada Veneto-Trentino

Conflitto d’interessi per l’autostrada Veneto-Trentino

Davide Giacalone – Libero

Ogni tanto riemerge il tema del conflitto d’interessi, normalmente targato con nome e cognome. Sarà bene rendersi conto che ci sono anche conflitti d’interesse di tipo istituzionale, che guastano non poco la credibilità italiana nell’attirare e promuovere investimenti. Ce ne ha dato dimostrazione, da ultimo, il ministro Graziano Delrio. Da anni si tenta di completare un’avviata opera autostradale, quella della Valdastico, che dovrebbe collegare il Veneto al Trentino, attraverso la Val d’Adige. La cosa era ritenuta necessaria anche dal governo in carica, tanto che la inserì nello «Sblocca Italia» e la portò al Cipe. Poi, però, le cose si sono fermate, lasciando incompiuti i lavori.

Qui m’interessa l’aspetto istituzionale ed economico. Il blocco è stato causato, ha spiegato il ministro Dehio, dall’opposizione della provincia di Trento. Si dà il caso, però, che quella provincia sia socia dell’autostrada potenzialmente concorrente, quella del Brennero. E si dà il caso che fra quei soci ci sia anche la città di Reggio Emilia, di cui era sindaco e rimane parlamentare Delrio stesso. Quegli enti locali partecipano del processo decisionale, fino a disporre addirittura del veto (il che ha assai dubbia legittimità), relativo a lavori che sarebbero conconenti con le società di cui loro stessi fanno parte. Non riesco a immaginare un più monumentale conflitto d’interessi.

Otto motivi per bocciare “la buona scuola”

Otto motivi per bocciare “la buona scuola”

Davide Giacalone – Libero

Stiamo assistendo all’ennesimo spreco. La Camera dei deputati vota la riforma della scuola, consegnandola al Senato in un tripudio di politichese fine a se stesso. Ma per l’istruzione è ancora un’occasione persa. Per anni, ancora, parleremo di riforme scolastiche, con un percorso lineare che, a confronto, l’arabesco sembra un’autostrada nel deserto. Vediamoli, i punti qualificanti della riforma. Ma prima osserviamo il contesto: l’opposizione di destra non è riuscita a trovare una posizione o una tesi che ne rendesse distinguibile la politica; quella di sinistra, interna ed esterna alla maggioranza, insegue fantasmi e slogan che la relegano fra i ferri vecchi di un ideologismo estraneo alla realtà; il ministro dell’Istruzione non ha avuto alcun ruolo significativo, se non quello di essere rimasta al suo posto, cosa che deve all’avere cambiato partito, tradito gli elettori e trasmigrato trasformisticamente nel partito del nuovo capo; il governo esulta per la vittoria, ma, come vedremo, su non pochi punti mente sapendo di mentire. Ora la carovana trasloca al Senato, ove la più risicata maggioranza rende più emozionanti i voti. Il tutto, però, ignorando la sostanza. Cui ora mi dedico, dividendola in 8 punti.

1. ASSUNZIONI

La sostanza più sostanziosa consiste in 160mila assunzioni. Roba da matti, ma è così. Quanti insegnanti servono e a cosa, quindi di cosa devono essere capaci, sarà stabilito dopo averli assunti. Che altro devo dire? Giusto che 100mila sono promessi per quest’anno, dalle graduatorie a esaurimento. Quelle in cui c’è tanta gente che non ha fatto nulla di male, ma non ha mai neanche fatto un concorso. Cittadini truffati, che a loro volta incarnano una truffa. Per assumerli con un pizzico di cervello occorrerebbe fare i piatti entro giugno, quando la legge non sarà stata approvata. Quindi, delle due l’una: o non verranno assunti, o lo saranno a piffero. Propendo per la seconda. Intanto si vota, poi si vede. Achille Lauro sarebbe commosso. Assunta questa massa di persone i precari non saranno esauriti, quindi andranno a prender punti di vantaggio in un ipotetico futuro concorso. Mentre passano in coda quelli che il concorso lo hanno fatto e vinto, nel 2012. Pensare che la scuola sia un diplomificio non è bello, ma questa è un assumificio, che è pure peggio.

2. AUTONOMIA

La legge sventola la bandiera dell’autonomia scolastica. Al punto che nasce il Ptof (Piano triennale di offerta formativa). Il fatto è che quella bandiera garrisce al vento già da tempo, senza che abbia prodotto nulla di men che ridicolo. La libertà culturale non può essere territoriale, semmai individuale. Ha un senso se le famiglie possono scegliere la scuola, portandosi dietro i soldi. L’autonomia è una gran presa per i fondelli, se poi tutto confluisce nell’esame di Stato che presiede al totem baluba del valore legale del titolo di studio. Il Ptof «esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia». Vorrei sapere cosa ha studiato chi compita in tal modo. Ma vorrei anche sapere come può esistere un esame di Stato se ciascuno fa quel che gli pare. Esiste perché la premessa è falsa. Tutto qui.

3. LAVORO

Ci sarà alternanza fra scuola e lavoro. Bene, una buona cosa. Se fosse una cosa, però. Negli ultimi tre anni della secondaria ci sarà alternanza fra scuola e lavoro. Almeno 400 ore nei tecnici e professionali e 200 per gli altri. Occhio al punto rivelatore: si potranno fare anche durante le vacanze. Questi hanno confuso l’attività lavorativa a scopo formativo con i lavoretti per guadagnarsi le vacanze, che da noi non esistono perché il datore di lavoro rischia la galera. Quel sistema funziona dove le aziende mettono bocca nella formazione e le scuole mettono piede nelle aziende. Altrimenti si chiamano «gite». Funzionano, inoltre, se non si limitano a occupare ore, ma se possono poi essere valutate. Chi e come dovrebbe farlo è un mistero che la riforma lascia tale.

4. SUPER PRESIDE

Il super preside non esiste. Egli, infatti «nel rispetto delle competenze degli organi collegiali, garantisce un’efficace ed efficiente gestione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche e materiali». Come ora, che non riesce a farlo. Possono scegliere chi assumere? No, possono piluccare negli albi territoriali. Possono formare una squadra di docenti che li coadiuvino. Funzionava cosi anche nella mia scuola, e parliamo dello sprofondo del secolo scorso. Possono valutare, confermando o allontanando, i neo assunti con contratto annuale. Ma a parte il fatto che quelli sono i 100mila cui è stata promessa la stabilizzazione a vita, come li giudica? Con che criteri? La verità è che tutto il capitolo dell’autonomia e dei poteri è un gran gargarismo, se a quelli non si legano i soldi, se al risultato formativo, misurato sugli studenti, non si associa la destinazione dei fondi.

5. SOLDI

A proposito di fondi, non è passata l’idea del 5 per 1000, che il contribuente potrebbe assegnare alla scuola frequentata dai figli. È stato stralciato, non cancellato. Avrei due obiezioni: a. Pago già, per la scuola, con le imposte sul reddito e le tasse d’iscrizione, quell’idea può venire solo a gente che non s’è mai guadagnata da vivere o ha sempre evaso le tasse, sicché non sa cosa significa pagare due volte la stessa cosa; b. In quel modo i soldi vanno non dove c’è la migliore qualità, ma genitori più ricchi.

6. DETRAZIONI

Buona la possibilità di detrarre, fino a 400 euro l’anno, le spese sostenute per mandare i figli alla scuola privata. Ma trattasi di occasione persa. Intanto perché 400 euro sono pochi. Poi perché si sarebbe dovuto operare in modo da far diventare ricche le scuole pubbliche buone, introducendo il buono di cui la famiglia dispone liberamente. Quello avrebbe comportato libertà di scelta, ma anche di premio alla qualità. Invece no, solo lo sconticino. Buono per il principio, ma solo per quello.

7. TECNOLOGIA

Nuove materie e nuovi insegnamenti restano lettera morta, perché sommersa dai vecchi insegnanti. 30 milioni sono stanziati per favorire l’aggiornamento tecnologico e la cultura digitale. Errore: bastava usare i soldi che ogni hanno si fanno buttare alle famiglie nei libri di testo, in questo modo disponendo di cifre serie (30 milioni non lo è) e digitalizzazione reale. In quanto al bonus di 50 euro a insegnante, dico solo che con le scarpe di Lauro, almeno, si camminava.

8. VALUTAZIONE

In quanto alla nuova scuola, intesa come nuova formazione culturale, è relegata nelle deleghe al ministro. Mica è di quello che si occupa la riforma. Aggiungete che continua a non esserci una valutazione costante, oggettiva e indipendente degli studenti e della loro crescita, quindi dei loro insegnanti e delle loro scuole. Per premiare i migliori. Tutto questo, quindi, non può che andare nel capitolo degli sprechi e delle occasioni perse.