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Scuole belle, l’inganno del governo Renzi per dare lavoro ai lavoratori socialmente utili

Scuole belle, l’inganno del governo Renzi per dare lavoro ai lavoratori socialmente utili

Lorenzo Vendemiale – Il Fatto Quotidiano

“Non siamo partiti dall’edilizia, ma dall’annoso problema dei lavoratori socialmente utili e della gara per i servizi di pulizia”. A svelare il bluff dell’operazione “Scuole belle” sono gli stessi vertici del ministero dell’Istruzione. L’obiettivo non erano le scuole: i soldi, 450 milioni di euro in totale, sono stati in realtà stanziati per risolvere il problema degli ‘ex Lsu’, migliaia di lavoratori che svolgono le opere di pulizia nelle strutture scolastiche del Paese, messi in difficoltà dal ribasso dell’ultima convenzione Consip. Il progetto di manutenzione è solo il modo di garantire a questi dipendenti la continuità occupazionale perduta. Così gli istituti scivolano in secondo piano: fondi distribuiti a pioggia, senza considerare gli interventi realmente necessari; importi, in alcuni casi di decine di migliaia di euro, spesi per operazioni marginali, perché solo queste rientravano nelle competenze dei lavoratori da occupare.

“Scuole Belle” insomma si trasforma, diventa la storia un’iniziativa che riguarda sì la scuola italiana, ma non è stata calibrata sulle esigenze della scuola italiana. Non più il grande progetto annunciato in pompa magna dal presidente del Consiglio, ma i classici due piccioni con una fava. Anche i presidi ne sono consapevoli. “Il progetto non è come l’hanno presentato: pensavamo di poter gestire quelle risorse, con certe cifre avremmo potuto fare cose importanti. In realtà c’è solo da scegliere tra alcune opzioni di lavori possibili. È tutto incanalato perché quei soldi servono a dare da mangiare ai lavoratori socialmente utili, le scuole vengono dopo”, spiega Fernando Iurlaro, dirigente dell’Istituto comprensivo Copertino, in provincia di Lecce.

I soldi dove ci sono più lavoratori

La riprova sta proprio nel processo con cui l’esecutivo ha elaborato la graduatoria e quantificato gli importi. I 150 milioni per il 2014, che diventeranno 450 milioni fino ai primi mesi del 2016, sono esattamente quanto serve a colmare il gap aperto dall’ultimo bandoConsip. E i fondi sono stati distribuiti tra le varie province del Paese non sulla base delle richieste delle scuole ma sul numero dei lavoratori. Tanto che su 450 milioni totali 330 finiscono al Meridione – la Campania da sola ne prende 171, la Puglia 68 – solo perché la maggior parte degli Lsu si trova in queste regioni. Non certo perché le strutture del Sud siano messe peggio di quelle del Nord.

A ricostruire l’iter è Sabrina Bono, capo dipartimento Miur per le risorse finanziarie: “Quella dei lavoratori socialmente utili è un’emergenza che nasce dalla gara per i servizi di pulizia: l’esternalizzazione, se da un lato ha razionalizzato i costi, dall’altro ha generato una pressante questione sociale. Per affrontarla, il nuovo governo ha pensato ad una soluzione che non fosse il solito ricorso agli ammortizzatori sociali. E visto che sul tavolo c’era già il tema dell’edilizia scolastica, si è deciso di inaugurare un filone riguardante la piccola manutenzione”. Questo genere di lavori, infatti, ricade proprio all’interno della convenzione Consip che riguarda gli “ex Lsu”. Così sono stati messi in cantiere un tot di opere in base al fabbisogno di questi lavoratori, non delle scuole. Legittimo. Anche lodevole, a sentire alcuni protagonisti come i sindacati o i vertici del ministero, soddisfatti di aver raggiunto un duplice obiettivo: “Per noi è una bella iniziativa, fino all’anno scorso in alcune scuole si facevano collette fra i genitori per riverniciare le aule. Abbiamo ricevuto tante lettere di ringraziamento”, afferma la Bono. Sicuramente, però, non è quello che aveva raccontato il premier Renzi, che negli ultimi mesi aveva più volte sbandierato l’intenzione di mettere la scuola al centro dei piani del governo. Mentre le cose sono andate diversamente.

Gli effetti negativi sui lavori

La particolare genesi del progetto, infatti, ha comportato alcune storture nella destinazione dei fondi alle scuole e nel loro impiego. La prima, la più macroscopica, è che il principale criterio di ripartizione è stato il numero di lavoratori presenti nella provincia: i soldi, insomma, non sono andati alle scuole che ne avevano più bisogno. Del resto, non c’è stato alcun bando a cui gli istituti potevano partecipare, nessun censimento specifico per monitorare gli interventi da effettuare (se non la consueta comunicazione che all’inizio di ogni anno i presidi fanno ai Comuni di appartenenza). Così nelle province più “munificate” dal progetto (come ad esempio Napoli con 37 milioni di euro, o Lecce con 10 milioni) è capitato che alcune scuole, le più grandi, si vedessero assegnati fino 200mila euro. Cifre ben lontane dai 7mila euro fissati come importo minimo dal Miur, o dalla media di 20mila euroscarsi per plesso. Sempre, però, per fare interventi “di cacciavite”. La lista delle operazioni possibili, poi, è abbastanza ristretta: verniciatura delle pareti e cancellazioni di scritte; riparazioni degli infissi; rimozione e riallocazione delle strutture didattiche (praticamente montare o spostare mensole, armadi, lavagne); piccoli interventi all’impianto idrico-sanitario (caldaie escluse, però); rifacimento e manutenzione del giardino.

È possibile spendere decine, a volte centinaia di migliaia di euro solo in questo tipo di lavori? Evidentemente sì. Si doveva farlo, del resto. Al massimo è stata concessa la possibilità di destinare fondi avanzati per pagare a canone servizi di pulizia e giardinaggio per i prossimi mesi. E pazienza che in alcuni casi gli stessi presidi abbiano avanzato dei dubbi. “A me alcuni costi sono sembrati spropositati. Ad esempio, il 15% secco solo per pulizie di fine cantiere (altra voce della circolare, ndr) mi è sembrato esagerato”, spiega Tonino Bacca, dirigente scolastico del circolo “Livio Tempesta” a Lecce. La sua direzione didattica si è vista assegnare 166mila euro, di cui 25mila circa se ne andranno solo per smontare i cantieri. “A casa mia non avrei mai fatto quei lavori a quelle cifre”, conclude. “Se avessi potuto decidere, avrei speso solo una parte dei fondi in manutenzione e il resto li avrei destinati a migliore la qualità delle attrezzature e dell’offerta formativa”. Discorso simile in un’altra scuola della provincia: qui la preside (che ha preferito rimanere anonima) ha speso circa 50mila euro per riverniciare 16 aule; ma pochi mesi prima la ritinteggiatura di 10 aule, a spese del Comune, era costata solo 17mila euro; in proporzione, meno della metà. È il genere di inconvenienti che si verifica con i finanziamenti a pioggia. Il risultato, alla fine della giostra, è una “mano di fresco” ai 7.751 plessi interessati, che ha lasciato parzialmente soddisfatti i presidi: da una parte felici di aver migliorato le condizioni delle loro strutture, dall’altra convinti che con le stesse cifre si sarebbe potuto fare di più e di meglio. Tutti contenti, invece, i lavoratori impiegati dal progetto, i veri beneficiari dell’iniziativa.

Lsu: chi e quanti sono

Per capire di chi si tratta e da dove nasce questa esigenza bisogna fare un passo indietro. In totale parliamo di circa 21mila uomini e donne in tutta Italia, concentrati per oltre il 50% nelle regioni del Sud. Alcuni provengono dai cosiddetti “appalti storici”, impiegati in questo settore sin dagli anni Ottanta. Altri, la maggior parte, sono appunto gli ex “lavoratori socialmente utili” (Lsu): disoccupati o cassaintegrati che nel 2001 il governo Prodi decise di stabilizzare all’interno delle scuole per i lavori di pulizia, impegnandosi a stanziare ogni anno le risorse necessarie per mantenerli. La loro situazione si è però complicata nel corso degli anni: le opere di pulizia sono state prima sottratte agli enti locali nel 2007, poi esternalizzate. E l’ultima gara Consip del 2011 ha visto dei ribassi tali (in alcuni casi anche del 30-50%) da indurre le ditte a presentare un piano di riduzione consistente dell’orario di lavoro. Si tratta della Dussmann in Puglia e Toscana; della Manutencoop in Emilia-Romagna, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia e Trentino Alto-Adige; e del consorzio Rti in Sardegna, Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo Molise, Valle D’Aosta, Piemonte e Liguria (nelle altre regioni la gara non è stata completata).

Già negli scorsi anni erano state varate delle operazioni straordinarie di pulizia, per far fronte all’emergenza. Quindi, nel febbraio 2014, il lancio di “Scuole belle”, per dare una svolta alla questione. Con i soldi del progetto, infatti, i lavoratori dovrebbero essere a posto almeno per due anni. Poi alcuni di loro dovrebbero andare in pensione, il bacino cominciare a svuotarsi. E il “bubbone” sgonfiarsi. Con piena soddisfazione del governo. Un po’ meno delle scuole, che per essere pulite meglio dovrebbero sperare in una disoccupazione maggiore.

Cinque corpi di pubblica sicurezza in Italia, chi sono e cosa fanno

Cinque corpi di pubblica sicurezza in Italia, chi sono e cosa fanno

Lorenzo Vendemiale – La Stampa

Senza il blocco dei contratti, il giro di vite sul turnover e norme più severe per premi individuali, come ha certificato poco tempo fa la Corte dei Conti, l’Italia non sarebbe certo riuscita a mettere sotto controllo il monte salari dei dipendenti pubblici. E invece da qualche anno a questa parte il peso sul bilancio dello Stato pian piano sta scendendo al punto che l’Italia è entrata a far parte del club dei Paesi più virtuosi, collocandosi ben sotto la media europea: nel 2016 scenderemo infatti sotto la soglia del 10% del Pil. Oggi siamo ancora al 10,5%, contro il 19% della Danimarca, il 14,4 della Svezia, il 13,4% della Francia e l’11,5 della Gran Bretagna. Tra i grandi Paesi solo la Germania, con l’8%, riesce a fare meglio.

Comunque sia, anche se gli stipendi medi non sono altissimi (34.576 euro di media nel 2012), si tratta pur sempre di un mucchio di soldi: parliamo di ben 164 miliardi di euro di spese complessive nel 2013, 8 in meno rispetto al 2010 (-4,6%) quando il blocco dei salari ha toccato tutti i settori e tutti i comparti della Pa. Stando all’ultima versione del Def 2014 non solo la discesa non sarebbe terminata, ma anzi si prevede un’ulteriore riduzione dello 0,7%. Solo dal 2018, per effetto della ripresa del turnover e del pagamento dell’indennità di vacanza contrattuale 2015-2017, è prevista una inversione di tendenza con un aumento dello 0,3 per cento della spesa.

Ovviamente parliamo di medie, se si scende nel dettaglio, in un mondo dove i dirigenti sono tra i più pagati in assoluto di tutta l’area Ocse e dove la «truppa» è invece agli ultimi posti delle graduatorie, si vede che a patire di più i tagli sono stati i dipendenti degli enti locali che hanno dovuto sopportare «per intero» la diminuzione della spesa, mentre il settore statale si è mantenuto su livelli stabili (+0,2%) ed i dipendenti degli enti previdenziali hanno messo a segno un lieve aumento (+1%).

Ma se è vero che la spesa dello Stato ha beneficiato di queste norme sempre più rigide sul pubblico impiego, è anche vero – lo ammette la stessa Corte dei conti – che si è trattato di «misure severe ed eccezionali, non replicabili all’infinito e non aventi natura di riforma strutturale». Dopo cinque anni e più sostengono i magistrati contabili, il blocco della contrattazione va superato. Perché ha di fatto «impedito» la piena attuazione della riforma del 2009 quando vennero «privatizzati» i contratti del pubblico impiego con l’obiettivo di aumentare la flessibilità e riforma il meccanismo di calcolo degli stipendi.

Se il governo, come ha più volte detto, vuole procedere con la riforma del salario accessorio, spingere l’acceleratore sul recupero dell’efficienza e la valorizzare del merito individuale è obbligato a riprendere l’attività negoziale. È una questione «fisiologica», sottolinea la Corte dei Conti. E certamente, dopo sette anni di blocco, non è immaginabile una contrattazione che riguardi solo le regole e non i salari. Il problema è che riaprire il «file» contratti ha un costo non indifferente. È lo stesso governo, nei documenti di bilancio, ad indicare in base agli aumenti medi concessi nelle tornate precedenti un costo che a regime arriverà a quota 6,5 miliardi di euro. Ecco spiegato l’impasse di questi giorni. Al quale difficilmente si potrà sopperire con ulteriori tagli del numero dei dipendenti, già scesi di 200 mila unità nel giro di 4 anni. Perché andrebbe utilizzata di nuovo la leva del turnover e questo farebbe ulteriormente aumentare l’età media dei nostri travet, che in larga parte (50%) già oggi hanno più di 50 anni contro una media europea del 30% e dove la quota di laureati (34%) sfigura se rapportata ad esempio a quella inglese (54%). Con tutto ciò che ne conseguenze in termini di competenza, efficienza e produttività.