luigi zingales

Nessuno è innocente nella tragedia greca

Nessuno è innocente nella tragedia greca

Luigi Zingales – L’Espresso

Nelle tragedie dell’antica Grecia l’eroe era al tempo stesso colpevole e innocente. Si pensi ad Edipo, che uccide il padre e sposa la madre. Ha commesso due orribili crimini, parricidio ed incesto, e in quanto tale è colpevole. Ma ha agito inconsapevolmente. Non è forse anche innocente?

Nella stessa situazione si trova oggi il popolo greco, di fronte alla tragedia economica. Da un lato è colpevole. Colpevole di aver vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità, per di più mentendo al mondo intero sulla reale situazione delle proprie finanze. Una volta ricalcolato correttamente, il deficit di bilancio del governo greco nel 2009 era 16% del Prodotto interno lordo. La cosiddetta austerity, ovvero il taglio della spesa pubblica, non è una cattiveria imposta dalla Troika, ma una necessità, il frutto inevitabile di una colpa. Il popolo greco è anche colpevole di aver dilapidato una fortuna nelle Olimpiadi del 2004 (Renzi pensaci finché sei in tempo) e in spese improduttive e clientelari. Infine il popolo greco è colpevole di aver votato per anni due partiti, uno più corrotto dell’altro: vivevano di clientelismo finanziato dalla spesa pubblica e di favori fatti ai potenti oligarchi, che controllano quel poco di economia privata che funziona, e ai capi sindacali, che controllano il resto. Ma allora hanno ragione i tedeschi che sostengono che la Grecia deve pagare per le sue colpe?

Come nelle tragedie greche, la risposta non è così semplice. Il popolo greco, al pari di Edipo, era per lo più inconsapevole. Inconsapevole dei falsi in bilancio dei propri governi, almeno quanto lo erano i funzionari dell’Unione Europea che oggi si ergono a giudici. Inconsapevole dell’insostenibilità della propria situazione economica, almeno quanto le banche francesi e tedesche che hanno prestato, senza troppa attenzione, i soldi che hanno permesso ai greci di continuare a spendere. Inconsapevole che l’aiuto offerto dall’Unione Europea e dal Fiondo Monetario Internazionale era innanzitutto un aiuto alle banche tedesche e francesi. Ma allora ha ragione Syriza a chiedere un taglio del debito e la fine dell’austerità? Anche in questo caso la risposta non è semplice. Oggi un taglio nominale del debito sarebbe difficile da ottenere e forse nemmeno così necessario. Se in termini nominali il debito rimane elevato, in termini reali no. La maturità del debito è stata allungata a tassi di favore. Quindi il peso reale del debito non è così elevato come appare.

Il vero problema della Grecia rimane la bilancia dei pagamenti. Per lunghi anni il paese ha importato più di quello che ha esportato. Negli ultimi anni si è avvicinata al pareggio, ma lo ha fatto solo grazie a un crollo delle importazioni: la contrazione del reddito interno ha ridotto i consumi e soprattutto i consumi di beni esteri. Purtroppo le esportazioni non sono cresciute. Una ripresa del reddito, quindi, porterebbe inevitabilmente un deficit della bilancia commerciale difficilmente sostenibile. Per risolvere questo problema non c’è che una svalutazione. Ma finché la Grecia rimane nell’euro non ha questa possibilità. Il nuovo governo greco capeggiato da Syriza vorrebbe una ripresa dei consumi in Grecia senza un’uscita della Grecia dall’euro. A meno di un drammatico cambio della competitività della Grecia, i due obiettivi sembrano incompatibili. Prima o poi Syriza dovrà cedere su uno dei due. È più facile che ceda sul secondo.

Nelle tragedie di Euripide, l’ultimo degli autori classici, venne introdotto il “deus ex machina”, ovvero un personaggio divino calato sulla scena mediante una macchina teatrale per risolvere la situazione quando l’azione era tale che i personaggi non avevano più vie d’uscita. Anche l’odierna tragedia greca ha un disperato bisogno di un deus ex machina. Senza di esso, un’uscita della Grecia dall’euro sembra inevitabile, anche contro la volontà del popolo greco, che a stragrande maggioranza vuole rimanere nella moneta comune. Senza un deus ex machina a rimetterci saremo anche noi spettatori.

Bruxelles faccia rotta sull’unione fiscale

Bruxelles faccia rotta sull’unione fiscale

Lugi Zingales – Il Sole 24 Ore

Tra le polemiche su chi si arroga (ingiustamente) il diritto di salire in cattedra e chi dovrebbe fare i compiti a casa prima di protestare, l’eurozona sta sprofondando nella deflazione senza un serio dibattito politico. Il conflitto che contrappone Mario Draghi ai falchi tedeschi, da Hans Werner Sinn ad Axel Weber, non è un dibattito tra italiani e tedeschi o tra buoni e (presunti) cattivi, non è neppure solo un dibattito economico, è principalmente un dibattito politico su quale Europa vogliamo. È un dibattito che non dovrebbe essere lasciato in mano solo ai banchieri centrali (passati, presenti o futuri), ma dovrebbe avvenire ai massimi livelli di governo, perché ne dipende la sopravvivenza stessa dell’eurozona.

Il problema fondamentale dell’area euro oggi è la deflazione. Draghi lo ha sicuramente capito, Hans Werner Sinn meno. Come ho scritto in agosto, però, per combattere la deflazione in Europa non basta il quantitative easing (Qe). Soprattutto non basta il quantitative che la Bce è in grado di fare. Giovedì lo hanno capito anche i mercati, che hanno reagito molto negativamente alle parole di Draghi. Quello che stupisce non è tanto il pessimismo, quanto il ritardo. Gli unici titoli che la Bce può comprare sono i titoli che in condizione normale la Bce può prendere a garanzia per operazioni di finanziamento. Proprio perché facilmente riscontrabili, questi titoli avevano già sul mercato un valore vicino alla pari prima dell’annuncio del Qe. Quindi il Qe non può funzionare aumentando il valore di questi titoli in portafoglio alle banche. Ma non può neppure funzionare aumentando la liquidità in mano alle banche, perché questi titoli erano già impegnati presso la Bce in operazioni di pronti contro termine. Trasformare un pronti contro termine in un acquisto dei titoli da parte della Bce aumenta la liquidità delle banche solo per l’ammontare dell’haircut, ovvero per il margine che la Bce richiedeva in queste operazioni. Presumibilmente questo margine è molto limitato, perché la Bce già da tempo sta cercando di pompare liquidità nel sistema. Ergo l’impatto sarà limitato.

Ma allora perché Draghi si ostina a spingere questa strategia? Perché non ha altre armi nel suo arsenale. Anzi, perfino queste armi spuntate generano l’opposizione da parte dei tedeschi, che le vedono come illegali secondo i trattati. Non sono un giurista, ma da un punto di vista economico non ho dubbio che i tedeschi abbiano ragione sul fatto che queste manovre violino lo spirito dei trattati costitutivi. La Bce è stata creata con un divieto assoluto di operare manovre fiscali, quali la monetizzazione del debito (quello che faceva Banca d’Italia prima del “divorzio” del 1981). Per quanto limitati, gli acquisti di titoli con del rischio di credito (come proposto da Draghi) hanno una componente fiscale. Se le società emittenti quei titoli fanno default, la Bce non può rivendere sul mercato i titoli e quindi ha di fatto monetizzato parte del debito. Date le restrizioni in termini di qualità di credito imposte dalla Bce, questa è una possibilità alquanto remota. Ma agli economisti tedeschi questo non importa: è il principio. Combattono questa battaglia sapendo di perdere, per vincere la guerra: bloccare qualsiasi mossa futura della Bce. L’eurozona è un’unione monetaria, non fiscale e non permetteranno mai che lo diventi attraverso manovre surrettizie.

Anche qui i tedeschi hanno ragione. Le decisioni fiscali sono di competenza dell’autorità fiscale in cui i cittadini sono rappresentati, non di un’autorità monetaria, per lo più un’autorità monetaria disegnata per essere totalmente indipendente dal potere politico. Dove non sono d’accordo con i tedeschi è sulla soluzione. La loro strategia è quella di trascinare il problema il più a lungo possibile, perché questa situazione di stallo beneficia il loro Paese. Per l’Italia e tutto il sud d’Europa questo stallo è devastante. O si procede rapidamente verso un’unione fiscale, o è meglio riconoscere che l’unione monetaria da sola non funziona e procedere a un divorzio consensuale, cercando di minimizzarne gli inevitabili danni collaterali. Rimandare il problema non aiuta a risolverlo e ci costa in termini di disoccupazione e desertificazione industriale. È questo il dibattito politico che vorremmo veder oggi in Europa.

La grande vittoria elettorale alle Europee proprio alla vigilia dell’inizio del semestre di presidenza italiana della Ue aveva offerto a Matteo Renzi un’occasione unica per aprire e condurre questo dibattito. Purtroppo già metà di questo semestre è passata senza un’iniziativa significativa. Tanto meno un dibattito serio su questi problemi. L’interesse di Renzi per l’Europa sembra essersi esaurito dopo la nomina di Federica Mogherini ad Alta rappresentante Ue per la politica estera e la sicurezza. Sicuramente una posizione prestigiosa. Ma procedendo in questo modo Mogherini rischia di trovarsi ministro degli Esteri di un’Unione che non esiste più.

L’elicottero che Draghi non ha (e servirebbe)

L’elicottero che Draghi non ha (e servirebbe)

Luigi Zingales – Il Sole 24 Ore

Non passa giorno senza che un politico, un economista o un giornalista rivolga un appello alla Banca centrale europea perché faccia qualcosa per combattere la deflazione nell’area euro. Nonostante i richiami, la Bce ha offerto solo dichiarazioni di disponibilità ad agire. Alle parole, però, non sono seguiti i fatti, e la situazione si fa ogni giorno più insostenibile.

Il motivo di cotanto ritardo è duplice. Da un lato la Bce non riconosce ancora di aver fallito nella sua missione di garantire la stabilità dei prezzi. Questo dovrebbe essere evidente: l’inflazione media europea negli ultimi 12 mesi è stata lo 0,38% e a luglio 10 dei 18 paesi dell’euro hanno fatto registrare una riduzione dei prezzi al consumo. Il Governing Council della Bce, però, ha definito la stabilità dei prezzi come «un aumento annuale dell’indice armonizzato dei prezzi dell’area euro inferiore al 2%». Come ho spiegato l’altro ieri nel mio blog, l’obiettivo di un’inflazione «al di sotto ma vicino al 2%» è solo una guida pratica della Bce per conseguire l’obiettivo della stabilità, non un obiettivo a sé stante su cui valutare il successo delle politiche. Se la Bce non agisce, è perché non si è convinta che ha l’obbligo di agire.

Il secondo motivo di questa inattività è la mancanza di strumenti. Tutti reclamano un quantitative easing, visto che in America ha funzionato. Eppure anche i migliori economisti sono in disaccordo sul motivo per cui ha funzionato negli Usa e non sono convinti che funzionerebbe in Europa. Il quantitative easing non consiste nello stampare moneta, ma nell’acquisto di titoli da parte della Banca centrale in cambio di depositi presso la Banca centrale stessa (anche chiamati riserve). Si tratta di uno scambio tra titoli e riserve. Perché mai dovrebbe stimolare la domanda aggregata e l’inflazione? Un canale è attraverso l’effetto indiretto del quantitative easing sul deficit pubblico. Riducendo il costo del debito pubblico, il quantitative easing rende meno impellente il taglio della spesa pubblica. Un altro canale è attraverso le aspettative sui tassi futuri. Di fatto il quantitative easing è una garanzia che l’aumento dei tassi avverrà tra molto tempo. Questo favorisce la speculazione finanziaria, ma – si spera – anche gli investimenti reali. Il terzo canale è attraverso la svalutazione del cambio: riducendo i tassi sui titoli, il quantitative easing favorisce la svalutazione della moneta.

Questi tre canali non funzionerebbero in Europa. L’abbassamento dei tassi nominali è già avvenuto. Difficilmente il quantitative easing potrebbe comprimerli ulteriormente. Come se non bastasse, il Fiscal Compact ha imposto piani di riduzione del deficit così aggressivi che qualsiasi effetto del quantitative easing sarebbe limitato o addirittura controproducente (perché ritarderebbe il momento in cui questi piani sono riconosciuti come insostenibili). Anche l’effetto del quantitative easing sulle aspettative future sarebbe limitato. Le aspettative sui tassi nominali futuri sono già molto basse e un po’ di quantitative easing non eliminerebbe lo spauracchio di una Bundesbank in agguato per alzare i tassi. Per finire, il quantitative easing non potrebbe avere un grosso effetto sul tasso di cambio dell’euro: i tassi nominali sui titoli in euro sono già molto bassi e difficilmente il quantitative easing produrrebbe una fuga dall’euro. Siamo dunque condannati a morire di deflazione?