manovra

Nel secolo di Internet tutti in attesa della bollinatura

Nel secolo di Internet tutti in attesa della bollinatura

Massimo Tosti – Italia Oggi

I retroscena sulla mancata «bollinatura» della ragioneria generale dello stato alla legge di stabilità porta ulteriore acqua al mulino di Renzi. Pare che la verifica sulla copertura finanziaria sia stata effettuata da una signora, alto funzionario della ragioneria, incaricata dei rapporti con palazzo Chigi (e delegata anche a partecipare alle riunioni preparatorie del consiglio dei ministri e del Cipe). Il ragioniere generale dello stato, Daniele Franco, si sarebbe irritato per essere stato scavalcato e, quindi, si sarebbe preso il tempo necessario per «bollinare» il provvedimento. Piccole beghe interne all’alta burocrazia, che (non a caso) il premier ha additato tra i responsabili dei ritardi, causati da procedure logoranti, che ostacolano l’azione di governo (e anche le attività imprenditoriali, e persino la vita dei comuni cittadini, costretti a riempire quintali di moduli inutili per sentirsi in regola con la piovra statale).

La «bollinatura», non a caso, è una pratica che risale all’Ottocento, quando il ragioniere generale aveva un bollo di stagno che apponeva sulla legge di bilancio. Erano i tempi di Silvio Spaventa e del pareggio di bilancio: preistoria rispetto alla comunicazione via web ed e-mail e al deficit spending. La burocrazia si muove ancora con la lentezza di centocinquant’anni fa, e dietro l’andatura da bradipo si nascondono anche le gelosie fra gli altri dirigenti. Il presidente Napolitano si è giustamente angustiato quando si è visto recapitare la manovra economica del governo senza i necessari bolli e controbolli, temendo che il governo avesse eluso l’obbligo di sottoporre all’organo di controllo la copertura finanziaria del provvedimento. Ma le cose non starebbero così (stando al gossip successivo).

Renzi esce rafforzato nel suo proposito di semplificare le procedure e di eliminare, per quanto possibile, l’onnipotenza dei funzionari. Quando, una decina di anni fa, Berlusconi denunciava l’impossibilità di governare questo paese, diceva una cosa giusta. Ma aveva il torto di essere l’uomo sbagliato per protestare. Renzi, che gode di un consenso popolare vastissimo, ha la chance di modificare le regole ed evitare le trappole insite in un sistema che fa acqua da tutte le parti.

Un bluff i conti del governo

Un bluff i conti del governo

Mario Baldassarri – Panorama

Il governo ha detto che la manovra per il 2015 «pesa» 36 miliardi di euro, con 18 miliardi di tagli di tasse e 15 miliardi di tagli di spesa. Questi numeri sono poi stati diffusi e amplificati pedissequamente da tutti i media. C’è un problema. però. Quei tagli di tasse e di spese sono riferiti ai valori «virtuali» delle previsioni tendenziali per l’anno prossimo, numeri che non sono ancora «entrati» nell’economía reale e finanziaria italiana. Ciò che invece conta per l’economia sono i dati «veri» del prossimo anno, che si avranno «dopo» aver tagliato o aumentato i valori virtuali delle previsioni tendenziali. Se quest’anno ho speso 1.000 euro e prevedo di spenderne 1.200 l’anno prossimo, un «taglio» di 100 euro sui 1.200 «previsti» significa un aumento di 100 euro rispetto a quest’anno e non una diminuzione. I numeri riferiti ai dati tendenziali virtuali del 2015 (che esprimono la manovra da 36 miliardi) e i numeri che si ottengono dopo i tagli di tasse e di spese proposti vanno confrontati con i dati veri dell’anno in corso, cioè il 2014.

Sul fronte delle entrate si vede allora che:
1) Gli 11 miliardi di deficit in più in realtà determinano un deficit pubblico del 2015 esattamente uguale a quello di quest’anno. Quindi. .. nessuna risorsa in più o in meno.
2) I 15 miliardi di spending review sono in realtà 10,3, poiché 2,7 miliardi sono già stati fatti quest’anno e i tagli alle regioni determinano rispetto a quest’anno una riduzione di soli 2 miliardi.
3) Dei 3,6 miliardi di aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, 2,2 miliardi sono già stati realizzati nel 2014: il vero effetto sul 2015 è di 1,4 miliardi in più.
4) I 3,8 miliardi da lotta all’evasione si possono contabilizzare dopo averli realizzati e non ex ante (su questo la Commissione europea potrebbe avere da ridire).
5) Il miliardo di riprogrammazione significa solo spostare nel tempo futuro quelle spese e non ha niente a che vedere con il confronto con le spese del 2014.

Sul fronte delle spese si verifica che:
1) Dei 9,5 miliardi di bonus fiscale, 6 miliardi sono già stati dati quest’anno, quindi nel 2015 avremo soltanto 3,5 miliardi in più.
2) Dei 5 miliardi di riduzione Irap, 1,5 miliardi erano già stati dati nel 20l4, quindi le imprese avranno un ulteriore sgravio pari a 3,5 miliardi. Va detto inoltre che il gettito totale Irap è pari a circa 24 miliardi di euro. Il costo del lavoro rappresenta il 50-60 per cento della base imponibile. Se si eliminasse totalmente il costo del lavoro dall’Irap il mancato gettito sarebbe di 12-13 miliardi
di euro. Pertanto, con 5 miliardi si riuscirà a ridurre solo il 35 per cento del costo del lavoro dall’Irap.
3) 1,9 miliardi assegnati alla decontribuzione dei nuovi assumi a tempo indeterminato non possono essere considerati come maggiori spese o minori entrate. Infatti, se si attiverà più occupazione che altrimenti non si sarebbe ottenuta, l’Inps non riscuoterà i relativi contributi, ma lo Stato riscuoterà una maggiore Irpef che controbilancia quasi esattamente il mancato gettito contributivo. Se invece il provvedimento non attivasse nuove assunzioni non ci sarebbe allora alcun onere da parte del bilancio pubblico.
4) L’eliminazione delle maggiori imposte per 3 miliardi che sarebbero scattate l’anno prossimo è cosa «buona e giusta». Ma questo non significa alcuna riduzione di imposte rispetto al 2014 visto che ancora per nostra fortuna non c’erano.
5) La somma messa sugli ammortizzatori sociali per l,5 miliardi sembra essere aggiuntiva. Ma rispetto a cosa? Se, come tutti speriamo, i cassaintegrati si riducono forse dovremo spendere anche meno di quanto speso quest’anno. E se aumentassero?
6) I 3,4 miliardi di «riserva» potrebbero svanire se qualcuno non accettasse di contabilizzare i 3,8 miliardi di lotta all’evasione.
7) I 6,9 miliardi di conferma di provvedimenti della legislazione vigente erano già compresi nei numeri virtuali delle previsioni tendenziali e corrispondono, più o meno, a spese effettuate anche quest’anno.

Nel complesso, nell’economia italiana nel 2015 rispetto al 2014 ci saranno 13,3 miliardi veri in più di entrate (e non 36) e 11,8 miliardi in più di spese «vere» (e non 36). Dei 13,3 miliardi di maggiori entrate ne avremo 10,3 da tagli di spesa e 3 da maggiori tasse. E questi tagli di spesa sugli enti locali sono pressoché lineari. Infatti, non sono mirati alle tre voci di spesa che, in tutti gli enti pubblici, contengono sprechi, malversazioni e ruberie: acquisti di beni e servizi, fondi perduti ed ex municipalizzate. In più c’è il rischio che regioni ed enti locali aumentino le tasse anziché tagliare le spese.

Degli 11,8 miliardi di maggiori spese avremo 4,8 miliardi di sgravi fiscali alle famiglie. Tra questi appaiono 500 milioni di euro che andranno come buono-bebè agli oltre 500 mila bambini che nasceranno nel 2015. Ma se il bonus va dato per 3 anni, allora il costo nel 2016 è pari a l miliardo e dal 2017 in poi a 1,5 miliardi. Da dove si prendono? Ci sono poi 3,8 miliardi di sgravi fiscali alle imprese e 3,2 miliardi di maggiori spese per le assunzioni nelle scuole, per l’allentamento del Patto di stabilità interno, per il cofinanziamento e per le briciole a Giustizia, Roma Capitale e Milano Expo.

Alla luce del peso vero della manovra, appare quindi condivisibile e coerente la previsione del governo che stima, con la legge di stabilità e le riforme strutturali, una maggiore spinta alla crescita pari al più 0,1 per cento nel 2015 e al più 0,2 dal 2016 in poi. Purtroppo però con questi impulsi la disoccupazione aumenta almeno fino al 2016. Da dove verranno allora gli annunciati 800 mila occupati in più?

Renzi tassa più di Letta

Renzi tassa più di Letta

Franco Bechis – Libero

Al momento la differenza è di 10 miliardi di euro, cifra che è sicuramente destinata a cambiare quando finalmente sarà rivelata la relazione tecnica alla legge di stabilità 2015. Ma fino a quel documento – che non incide sui conti del 2014 – la differenza fra il governo di Matteo Renzi e quello di Enrico Letta è esattamente quella: 10 miliardi. E non è poco, perché si tratta di tasse. Con i suoi provvedimenti fino ad oggi il governo Renzi ha segnato nelle relazioni tecniche che li accompagnavano 13 miliardi e 414 milioni di euro di nuove entrate fiscali. Durante tutto il governo di Enrico Letta, con la sola esclusione delle clausole di salvaguardia future (che vengono contabilizzate solo quando scattano), le nuove entrate nette furono di 3 miliardi e 436,5 milioni di euro (anche in questo caso la fonte è nelle relazioni tecniche dei provvedimenti che accompagnavano disegni di legge e decreti).

Sarete sorpresi dal Renzi tassatore. Il premier in carica sostiene infatti di avere fatto la più grande operazione di alleggerimento della pressione fiscale nella storia di Italia. E si riferisce al suo bonus 80 euro e alla riduzione Irap per le imprese. Gli 80 euro sono effettivamente arrivati in busta paga. Ma tecnicamente quelli erogati nel 2014 non hanno toccato nemmeno di un decimale di punto la pressione fiscale prevista. Era un bonus, una sorta di elargizione da parte dell’esecutivo in carica proprio alla vigilia delle elezioni europee (che infatti hanno premiato Renzi e il suo Pd più o meno come al- l’epoca la scarpa donata ai napoletani prima del voto aveva premiato Achille Lauro e la dc dell’epoca). È stato contabilizzato in aumento della spesa pubblica fra i trasferimenti alle famiglie, e così è stato inserito anche nei provvedimenti di finanza pubblica del governo. Non è andato quindi a diminuire la pressione fiscale complessiva, come invece ha fatto (per cifre molto inferiori) lo sconto Irap alle imprese che ora verrà completamente riassorbito nei 5 miliardi del 2015 previsti dalla nuova legge di stabilità.

Il cosiddetto decreto sugli 80 euro (che comprendeva anche l’Irap) aveva invece in relazione tecnica 10,8 miliardi di maggiori entrate tributarie, altri 4,7 miliardi di maggiori entrate extratributarie e 7,2 miliardi di minori entrate tributarie. La variazione netta che si è portata dietro era di 8,3 miliardi di maggiori tasse. Tre di queste erano state conteggiate per l’aumento di sei punti dell’aliquota di tassazione sulle rendite finanziarie, che è passata dal primo luglio scorso dal 20 al 26 per cento. Al governo Renzi spetta la firma anche sul decreto che fa entrate in vigore la Tasi: è stato il suo primo provvedimento, e poco importa che sia conseguente alle previsioni della legge di stabilità precedente. In quel decreto veniva di fatto riassorbita l’Imu sulla prima casa che il governo Letta aveva cancellato nel 2013: si tratta di 3,7 miliardi di tasse in più sulle famiglie. Ma la cifra è indirettamente aumentata, perché il governo precedente aveva approvato un fondo da 500 milioni per il 2014 da girare ai Comuni finalizzato per legge alla concessione delle detrazioni prima casa e figli per le famiglie con redditi più bassi (per loro la Tasi rappresenta una stangata imprevìsta, perchè di fatto con le detrazioni prima l’Imu non la pagavano).

Come suo primo atto Renzi ha incrementato di 125 milioni di euro quel fondo per i Comuni, ma ha abrogato la finalizzazione.Via le detrazioni, è come fosse aumentata la pressione fiscale sulla prima casa per 625 milioni di euro. Nei mesi scorsi con altri due provvedimenti Renzi ha aumentato la tassazione dei tabacchi di 163 milioni di euro l’anno e – per finanziare l’Ace – le accise sulla benzina di 435,4 milioni di euro in più anni futuri (ma già decisi con legge). Altre piccole tasse messe vanno da quelle inserite nel decreto sulla cultura, al nuovo contributo unificato previsto per i pignoramenti, alle maggiori entrate contributive obbligatorie previste dal primo decreto sul jobs act.

Anche Letta non ha scherzato con le nuove tasse, ma è riuscito ben più del suo successore a equilibrarle con la cancellazione di altri tributi. Ha tolto l’Imu e inserito le detrazioni sulla Tasi (poi cancellate da Renzi). Nella sua legge di stabilità ha messo nuove entrate da 8,5 miliardi di euro (in parte sulle banche), e previsto cali di tasse per quasi 3 miliardi di euro al netto delle clausole di salvaguardia. In tutto 5,6 miliardi in più. Ma ha tolto tasse sulla prima casa e anche su alcuni immobili produttivi per quasi 4,5 miliardi di euro. Ha aumentato la tassazione sui giochi e concesso sgravi contributivi più o meno per la stessa cifra. Ha costretto le imprese ad anticipi di imposta anche consistenti per 655 milioni di euro. Si è trovato di fronte a una clausola di salvaguardia messa da Mario Monti sull’Iva. È riuscito a rimandarla di tre mesi con uno sgravio di 1,05 miliardi di euro. Non è riuscito a farlo per gli ultimi tre mesi dall’anno, con un aggravio identico. Sul 2013 il risultato netto è stato nullo.

LA SCHEDA

Sgravi e aggravi
A fronte di sgravi Irap concessi alle imprese pari a 4,1 miliardi di euro la legge di Stabilità ha cancellato di fatto tutti i benefici sulla medesima Imposta introdotti dal governo Letta: 1,9 miliardi.

Clausola capestro
Qualora in corso d’anno (2015) le previsioni contenute nella finanziaria non fossero rispettate scatterebbe la clausola di salvaguardia che farebbe scattare nuove tasse, sotto forma di Iva e accise. Ben 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017 e addirittura 28 l’anno successivo.

Tagli lineari
Sia sui ministeri sia sulle amministrazioni centrali viene operato un taglio che complessivamente vale 6,1 miliardi. Il meccanismo è quello del taglio lineare applicato dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti e tanto criticato.

Regioni spremute
Altri 4 miliardi di risparmi dovrebbero arrivare da «efficientamenti» della spesa nelle Regioni. In questo caso, addirittura, l’esecutivo non fissa neppure le linee guida degli interventi. La scelta spetterebbe ai governatori. Palazzo Chigi non ha tenuto conto nemmeno del lavoro svolto al riguardo dall’ex commissario alla spending review Cottarelli.

Le patrimoniali nascoste nella manovra

Le patrimoniali nascoste nella manovra

Oscar Giannino – Panorama

Il problema del fisco in Italia è che continua a dar ragione a Mark Twain. Lui diceva che c’è una sola differenza tra l’impagliatore e l’esattore pubblico: l’impagliatore si accontenta della vostra pelle. Purtroppo, continua a essere vero anche nella bozza di legge di stabilità varata dall’attuale governo, che pure ha il vanto di abbattere di 18 miliardi le entrate, di azzerare la componente lavoro dell’Irap, di aggiungere 1,9 miliardi di incentivi agli assumi a tempo determinato, mezzo miliardo di bonus bebè, confermare gli eco-incentivi e quelli alla ristrutturazione, e via continuando. Che cosa fa storcere il naso a un irriducibile liberale, allora? Parecchie cose. Una certa qual disinvoltura su numeri e saldi, per cominciare. E poi tre scelte di fondo.

Sui numeri è presto detto: se si dice che ci sotto meno entrate per 18 miliardi, quanto meno insieme bisognerebbe dire che ce ne sono di aggiuntive per 3 miliardi e mezzo, che diventano 4 e mezzo a dire il vero se ci aggiungiamo il prelievo straordinario annunciato sui giochi legali (al momento nessuno ci fa caso o quasi, ma per i conti delle aziende concessionarie è una botta clamorosa, visto che lo Stato da loro ha ricavato 8,4 miliardi in tasse nel 2013). Direte voi: non sottilizziamo. Mica vero. In altri tempi, assumere 3,8 miliardi di euro di incassi dalla lotta all’evasione come copertura ex ante di nuova spesa pubblica avrebbe fatto urlare allo scandalo assoluto. Si tratta di questioni di sostanza, di sana e prudente gestione della contabilità pubblica, non di sfumature. Ma le cose più dure da mandar giù sono altre: le tre scelte di fondo che ispirano la filosofia delle entrate della legge di stabilità.

La prima è la stangata sul risparmio previdenziale, venduta come «allineamento alle medie europee». Si passa dall’11,5 per cento di tassazione dei fondi di previdenza integrativa, al 20. Per le casse previdenziali professionali, l’aliquota sale dal 20 al 26 per cento. L’allineamento all’Europa, già utilizzato per elevare al 26 l’aliquota sui conti correnti mentre i titoli di Stato restano tassati al 12,5, non c’entra assolutamente nulla. L’idea vera è quella di scoraggiare gli italiani al risparmio, perché occorre incentivare i consumi. È la tenaglia fiscale che risponde alla stessa filosofia del bonus di 80 euro sul versatile della spesa, confermato per il 2015.

Ma questa idea è profondamente sbagliata. Per almeno due ragioni. La prima è che viviamo in un Paese dove la previdenza pubblica, malgrado il drastico innalzamento dell’età pensionabile disposto dalla legge Fornero, pesa per il 16 per cento del Pil cioè 3 punti più della media europea e oltre 4 rispetto alla media Ocse. E questo bel peso si regge solo grazie a oltre 50 miliardi di euro l’anno che vengono dalla fiscalità generale, rispetto ai contributi raccolti, che sono l’unica fonte per pagare i trattamenti visto che il sistema resta a ripartizione. In un sistema tanto squilibrato, dopo anni trascorsi a tentare di convincere gli italiani a metter da parte quote crescenti del proprio salario per una pensione integrativa che si aggiunga a quella molto più magra di un tempo che maturerà col sistema non più agganciato alle ultime retribuzioni, diamo oggi agli italiani un messaggio totalmente opposto. Spendete cari italiani, perché sulla pensione integrativa lo Stato allunga le mani. Come le allunga sul Tfr sia che decidiate di ritirarlo in busta, visto che vi alzerà il prelievo Irpef complessivo, sia che lo facciate restare accantonato, visto che l’aliquota sale anche in quel caso di 6 punti rispetto a oggi.

Dicono che sia un’impostazione keynesiana. Non è vero per nulla. Dimenticano che per il buon economista invocato dai fautori di Stato e deficit la leva essenziale per uscire dalla crisi sono gli investimenti: e colpire il risparmio previdenziale significa proprio disboscare le masse finanziarie che, accantonate con versamenti rateali, intanto vengono impiegate sui mercati acquistando titoli privati e pubblici, e a sostegno delle imprese.

Ma la cosiddetta stretta sulle rendite finanziarie non è solo sbagliata economicamente, è anche una vera e propria trappola verbale cara alla sinistra. Oggi tornata platealmente di moda, citando a raffica Thomas Piketty e il suo tomo che invoca tasse patrimoniali à gogo. L’aliquota del 26 per cento sul conto corrente, che con il concomitante bollo titoli patrimoniale può arrivare per interesse composto anche a una tassa superiore al 40 per cento del rendimento maturato, colpisce il ceto medio e basso, non certo magnati e industriali. La stessa cosa avviene con lo stellare aumento della tassazione sugli immobili, ascesa in 4 anni da poco più di 9 miliardi annui a, ci scommetto, oltre 28 miliardi in questo 2014 (e occhio alla local tax semplificata annunciata dal governo, perché nelle bozze fino a due settimane fa si parlava di un plafond «contenuto»›, si fa per dire, in 30 miliardi annui di entrata, cioè un ulteriore aumento nel 2015).

E oggi si aggiunge un terzo pilastro: la sberla al risparmio previdenziale. Paragonare risparmi, pensioni e case alla manomorta dei latifondisti da colpire nel Settecento illuminista è un trucco che solo a dei malati di mente può risultare accettabile. Eppure così va il mondo, in un’Italia in cui parole e fatti coincidono in sempre minor misura.

Infine. Ancora una volta nella legge di stabilità lo Stato gioca da baro con la retroattività degli aumenti fiscali. Lo sgravio Irap annunciato per 5 miliardi nel 2015 in realtà vale poco più della metà, perché contestualmente si rialza al 3,9 per cento l’aliquota e lo si fa retroattivamente, cioè a partire dal primo gennaio 2014 quando alle imprese si era detto che quest’anno pagavano un 10 per cento in meno, sgravio che ovviamente scompare. Idem dicasi per gli aggravi di aliquota sul risparmio previdenziale. Anche quelli retroattivi dal 2014. Con tanti saluti alla delega fiscale innovativa, allo Statuto del contribuente, all’impegno di retrocedere al contribuente onesto almeno parte dei proventi della lotta all’evasione invece usati per coprire nuova spesa.

Peccato. Peccato continuare a prevedere clausole di garanzie con ulteriori aumenti fiscali nel triennio a venire: se i governi toppano sui conti dovrebbe bloccarsi automaticamente la spesa come negli Usa, non aumentare automaticamente le entrate. Peccato che le imprese ancora non saldate dallo Stato non siano ammesse a compensazione fiscale immediata. Peccato non far pagare all’Agenzia delle entrate un 15 per cento del petitum al contribuente come ristoro del danno e tempo perso, se è questi a vincere. Niente di tutto questo. Speriamo di essere ancora in grado di pagare qualcosa, quando il fisco italiano deciderà di cambiare strada e di non essere un impagliatore di cadaveri.

Flessibilità e coperture

Flessibilità e coperture

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Se la scommessa della manovra “espansiva” da 36 miliardi varata dal governo è provare a invertire il ciclo negativo, non ha molto senso limitare la partita con Bruxelles a una «promozione» o a una «bocciatura». Certo va salvaguardato il rispetto formale delle regole, preoccupazione che sembra nutrire soprattutto la Commissione uscente, ma l’impressione è che ancora non si sia colto il vero problema: con gli attuali tassi di crescita, con la miscela esplosiva di stagnazione e deflazione, occorre imboccare in fretta una strada fatta di investimenti, regole di bilancio più flessibili, sostegno deciso alla domanda interna.

Per quel che riguarda l’Italia, la strategia che il governo sta imbastendo nei contatti di queste ore con Bruxelles non è evidentemente priva di rischi e incognite. Il ricorso alle «circostanze eccezionali» motiva la scelta di rallentare il percorso di consolidamento fiscale, con l’obiettivo di evitare manovre restrittive che avrebbero effetti ulteriormente depressivi del ciclo economico. Poi la scommessa delle riforme. Infine il confronto certamente tecnico ma con risvolti evidenti di policy, sulle stime utilizzate da Bruxelles in particolare per quel che riguarda il calcolo del pil potenziale. Tutti temi al centro della trattativa che si aprirà tra breve con la nuova Commissione Juncker. Nell’immediato – e dunque da qui al 29 ottobre, data in cui la Commissione uscente dirà la sua – si tratta di trovare la sintesi su una posizione di compromesso, anche per non trasformare (è il timore del presidente permanente anch’egli uscente Herman Van Rompuy) il vertice europeo di domani e venerdì in un pericoloso braccio di ferro tra la Commissione e i paesi cui sono dirette le missive, in primis l’Italia, e poi Francia, Slovenia, Malta.

Per salvare la forma, può bastare allora una lettera di richiesta di chiarimenti di Bruxelles, cui seguirà una probabile lettera di risposta in cui vengano riassunti gli intendimenti programmatici del governo e la ratio della legge di stabilità, se necessario mettendo in campo la “dote” di 3,4 miliardi di euro appostata ad hoc nella legge di stabilità? Questione che diverrebbe secondaria, qualora venisse accordata al nostro paese non una cambiale in bianco, ma un’apertura di credito sul versante delle riforme e su una manovra “espansiva” che prova a scommettere sulla crescita. L’alternativa non è nei fatti perseguibile, se ispirata a logiche esclusivamente rigoriste. Per avere una qualche chance di successo, la manovra che ieri sera è approdata al Quirinale finalmente corredata della “bollinatura” della Ragioneria, deve poter contare su coperture certe, soprattutto per quel che riguarda l’effettiva realizzabilità dei tagli alla spesa. In caso contrario, sarebbe arduo difenderla in sede europea. La vera partita con Bruxelles potrebbe così essere direttamente rinviata alla prossima primavera, quando la legge di stabilità comincerà a dispiegare i suoi effetti e si potrà fare il punto sulle riforme approvate.

Leggere una legge

Leggere una legge

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

Secondo le migliori tradizioni del giornalismo economico, quando ci si trova dinanzi a una manovra finanziaria di fine d’anno e per giunta di questa portata, prudenza impone di leggere prima le norme e poi dare un giudizio completo. Come si sa, infatti, il diavolo si nasconde nei dettagli. Detto questo, una prima valutazione può essere fatta sulla base delle dichiarazioni del presidente del Consiglio e sulle tabelle consegnate in sala stampa. Diciamo subito che questa legge di stabilità presenta alcune luci, diverse ombre e due bugie.

Partiamo dalle luci. La riduzione dell’Irap escludendo dal suo calcolo il monte salari è una scelta che va nella giusta direzione perché alleggerisce il carico fiscale sulle imprese oppresse da diversi anni da una pressione tributaria e contributiva anomala e da una grave crisi della domanda interna e internazionale. È vero che questa norma premia maggiormente le medie e le grandi aziende, ma d’altro canto sono quelle che hanno il maggior numero di occupati. Altra scelta positiva è la vecchia fiscalizzazione degli oneri sociali (cosi si chiamava all’epoca) per i nuovi assunti con un contratto a tempo indeterminato e per soli tre anni, Questa norma abbassa, insieme alla riduzione dell’Irap, il costo del lavoro in maniera significativa e orienta le imprese ad assumere con questo tipo di contratto rispetto alle altre tipologie vigenti. Ma qui finiscono le luci, salvo scoprire nell’intero provvedimento qualche altra cosa di buono.

Le ombre, invece, sono diverse e nella sostanza riguardano i tagli per 15 miliardi di spesa. Innanzitutto è da verificare nel concreto se questi tagli esistono per davvero, e se esistono come noi crediamo perché parte di essi sono tagli lineari ai trasferimenti alle regioni, province e comuni, bisogna capire a cosa danno origine. La cosa più probabile è che parte di essi si trasformeranno in più alte imposte locali mentre un’altra parte si trasformerà in una riduzione della spesa in conto capitale delle regioni e degli enti locali. Entrambi gli effetti andranno a vanificare in parte quelle misure che abbiamo definito come le luci del provvedimento approvato. D’altro canto, affrontando un equilibrio dei conti pubblici e un rilancio della crescita con gli ordinari strumenti a disposizione, difficilmente si può sfuggire a questi effetti uguali e contrari. Come è noto, noi eravamo e siamo tra quanti ritengono che solo un abbattimento di una parte significativa del debito può dare delle risorse fresche perché riduce quella spesa per interessi che da circa 80 miliardi alla finanza nazionale e internazionale, senza dover ricorrere a tagli che amplificano gli input recessivi. Non è un caso che l’Italia quest’anno sarà l’unico paese dell’Eurozona a rimanere con un pil negativo.

E qui passiamo alle bugie. Le prime sono le previsioni in gran parte sbagliate. Quest’anno la nostra crescita negativa, se avviene un miracolo nelll’ultimo trimestre, si può fermare a meno 05-0,6 per cento, cioè circa il doppio di quanto previsto nel documento finanziario con un trascinamento negativo anche sulla prima parte dell’anno prossimo che prevede, peraltro, una striminzita crescita positiva dello 0,6 per il 2015 e che sarà a rischio. Perché in questa manovra manca l’altro tassello fondamentale per fare uscire l’ltalia dal tunnel, e cioè gli investimenti pubblici. Viviamo una crisi della domanda, che non si accresce mettendo un po’ di soldi in più nelle tasche di chi ha già un reddito (80 euro o il tfr nella busta paga), perché in costanza di crisi questi soldi si trasformano in risparmi per un futuro che resta ancora incerto. La domanda si accresce se si allarga la base occupazionale e il “la” lo danno gli investimenti pubblici che languono e ora rischiano di diminuire ulteriormente sul versante degli enti locali. Alla stessa maniera manca qualunque incentivo per gli investimenti privati, come un più rapido ammortamento degli investimenti fatti nei prossimi 18 mesi, una norma premiante a termine, capace di sollecitare le aziende a cogliere questa opportunità e ad anticipare i propri investimenti.

Abbiamo lasciato per ultima la bugia più grande perché ci intenerisce come una vecchia gag di Totò. Il presidente del Consiglio ha detto che con questa manovra si tolgono 18 miliardi di tasse. Non è vero. Renzi calcola come riduzione di tasse il mantenimento dei famosi 80 euro del maggio scorso. Se non li avesse confermati noi avremmo avuto un aumento delle tasse; avendoli confermati, l’aumento non c’è stato, ma nemmeno la riduzione rispetto all’anno che sta per finire. Per dirla meglio, se la detrazione che produce il beneficio degli 80 euro viene fatta con norme che si rinnovano anno dopo anno, secondo Renzi dopo 5 anni avremo ridotto la pressione fiscale di 50 miliardi o saremo rimasti sempre al palo di quelle detrazioni che danno i famosi 80 euro? Si dia una risposta! Se non volessimo bene a Renzi, ai suoi lupetti e ai tanti dc presenti nel governo e nel Pd, diremmo che questa comunicazione è un imbroglio. In verità è il frutto di una velenosa tentazione mediatica e di una giovinezza goliardica. Certo è che la riduzione della pressione fiscale è solo quella dell’Irap e quella contributiva è nei limiti di due miliardi per l’esenzione contributiva dei nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato. Non pochi ma molto lontani da ciò che serve all’Italia per uscire dalle secche.

Radiografia di bonus, sconti e sgravi. La trappola delle tasse che verranno

Radiografia di bonus, sconti e sgravi. La trappola delle tasse che verranno

Mario Sensini – Corriere della Sera

Una manovra tutta puntata al rilancio della crescita, con un cospicuo taglio delle tasse, forti incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato e molte riforme, che segna una svolta espansiva nella politica economica, finora restrittiva. Ma che non è povera di rischi, legati all’efficacia delle misure e ai giudizi della Ue, ed impliciti nel mantenere il deficit ancora a lungo appena un pelo sotto il tetto massimo del 3% del prodotto interno lordo. Per la prima volta dopo tanti anni, è una legge di bilancio che dà più di quanto non toglie. Ma solo nell’immediato, perché lascia in eredità al futuro molte più tasse di quante non ne elimini oggi: 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017, 28 nel 2018. Almeno secondo quanto prevede il testo non ancora vidimato dalla Ragioneria generale e non ancora arrivato in Parlamento.

La riduzione delle tasse
Il bonus di 80 euro, dal quale si attende un rilancio dei consumi che finora non c’è stato, viene confermato, ma la platea non viene allargata. Restano, dunque, i problemi legati all’equità della misura, che non riguarda ad esempio gli incapienti o i pensionati (il che rende anche problematica la sua trasformazione in detrazione fiscale, a rischio costituzionale), e che ha qualche effetto perverso, come quello di penalizzare le famiglie povere monoreddito. Oltre al bonus per le famiglie arriva quello per i bebè, con un limite di reddito molto alto per poterne beneficiare, 90 mila euro, che fa discutere.

Per le imprese ci sono forti incentivi alle assunzioni. Non si pagherà più l’Irap sulla componente lavoro, ma vengono annullate le riduzioni precedenti dell’aliquota. Con effetto, sembra di capire, già sull’anno di imposta corrente, il 2014. Lo sgravio, così, vale 4 miliardi, e premia soprattutto le imprese ad alta intensità di manodopera. Accanto c’è la decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato, ma non c’è molta chiarezza sui costi. Un miliardo, aveva detto Renzi, forse più si dice oggi. Lo stanziamento, in ogni caso, coprirebbe 850 mila nuovi contratti, più o meno metà di quelli che si fanno di solito in un anno.

Per le partite Iva viene esteso il cosiddetto regime dei minimi ad una platea più vasta, ma entro limiti di reddito più bassi e con l’aliquota passata dal 5 al 15%. La legge di Stabilità, poi, stanzia 1,5 miliardi per i nuovi ammortizzatori sociali, anche se per la Cig in deroga, nel 2013, si è speso quasi il doppio. E prevede l’opzione per il trasferimento del Tfr in busta paga. Soldi subito, anche a caro prezzo perché in molti casi si pagherebbero tasse più alte, e una pensione di scorta più leggera domani.

Tagli e nuove entrate
Finché si tratta di dare, i problemi sono relativi. Molto meno quando si tratta di recuperare le risorse. La manovra prevede 6,1 miliardi di tagli alle amministrazioni centrali dello Stato, di cui 4 dai ministeri e 2 dalla riduzione delle cosiddette spese «a politiche invariate», dalle missioni di pace al 5 per mille, che ora vengono coperte strutturalmente. Ma spuntate. I ministeri dovrebbero approfittare della centralizzazione degli acquisti, ma 4 miliardi sono comunque una cifra enorme. Tagliare usando discrezionalità è stato sempre difficile e lo è ancor di più con il bilancio ridotto all’osso: il rischio, di nuovo, è che per ottenere il risultato si ripiombi sui tagli lineari, molti dei quali creano un rimbalzo della spesa negli anni successivi. I tagli agli enti locali sono egualmente pesanti (4 miliardi per le Regioni, 2,1 per i Comuni, 1 per le Province), ma con il Patto di Stabilità interno il rischio di non portarli a casa è basso. Come, d’altra parte, è elevato quello di un parallelo aumento delle tasse locali. Con sindaci e governatori non sarà facile arrivare a un’intesa. C’è la possibilità che la sforbiciata finisca per colpire anche la spesa sanitaria.

La manovra prevede poi quasi 4 miliardi di recupero dall’evasione. È un punto critico, perché in passato queste cifre non venivano messe in bilancio come incasso sicuro, o a copertura di spese certe. Alcune misure danno un maggior gettito automatico, come il «reverse charge» sull’Iva (900 milioni), o il prelievo delle banche, a titolo di acconto, sui bonifici relativi alle fatture per le ristrutturazioni edilizie ( altri 900). Meno sicuro è il gettito atteso da altre misure, dal nuovo ravvedimento operoso alla stretta sugli «split payments», cioè i pagamenti frazionati per ridurre l’imposta. Tanto che si affaccia la possibilità di sostituire queste coperture col classico aumento delle accise.

Le incognite sul futuro
Per coprire le spese e per correggere il deficit, dopo un 2015 di pausa nel percorso di risanamento, la manovra prevede fin da ora un forte aumento dell’Iva e, ancora una volta, delle accise. E sconta tuttora una riduzione molto forte delle detrazioni Irpef. Nel 2016 l’aliquota Iva del 10% passerebbe al 12, poi al 13% nel 2017, mentre quella del 22 salirebbe prima al 24, poi al 25 e al 25,5% nel 2018. Nello stesso tempo si prevede un taglio delle detrazioni Irpef per 4 miliardi nel 2016, e 7 negli anni successivi. La manovra, per ora, ha solo scongiurato una parte del taglio degli sconti fiscali, quello che doveva scattare già quest’anno, poi rinviato al 2015, da 3 miliardi. Sul futuro, dunque, pende un fortissimo aumento delle imposte, quasi 20 miliardi nel 2015, e 30 nel 2018. Misure che potranno essere sempre sostituite da altri provvedimenti, come i tagli di spesa. Anche se a blindare la manovra, ora, ci sono più tasse di quelle che si riducono.

Una manovra di respiro strategico

Una manovra di respiro strategico

Marco Leonardi – Europa

I commenti alla manovra finanziaria si sono concentrati principalmente sui saldi di una manovra che ad alcuni appare coraggiosa e ad altri pare un azzardo. Vorrei invece concentrarmi sul disegno complessivo della manovra e sul progetto politico sottostante. Prima ancora che essere un insieme di poste di entrate e di uscite, la legge di stabilità è la principale proposta politica che un governo fa al paese e merita quindi di essere analizzata dal punto di vista della coerenza.

Matteo Renzi per la prima volta ha adottato un atteggiamento diverso nei confronti dell’Europa rispetto i suoi predecessori. Oggi è possibile fare una manovra che prevede 11 miliardi di debiti in più di quello che era stato previsto per via delle condizioni di crisi persistente e per via della posizione similmente critica della Francia che, nella sua legge finanziaria, va bene oltre il limite del 3 per cento del deficit. Tuttavia è da notare che l’atteggiamento di Renzi verso l’Europa è rovesciato rispetto ai tempi che lo precedono. Mentre finora i presidenti del consiglio sostenevano di dover fare a malincuore delle riforme impopolari per far fronte alle richieste dell’Europa, ora Renzi sostiene di agire non perché ce lo chiede l’Europa ma perché le riforme, anche se impopolari, servono all’Italia. In questa cornice di una nuova assunzione di responsabilità nazionale si legge meglio l’architettura e il merito dei provvedimenti della Finanziaria 2015.

L’architettura principale della legge di stabilità mantiene la promessa che tutti i tagli di spesa verranno utilizzati per ridurre in maniera equivalente le tasse e non andranno a finanziare nuova spesa. Questo punto non è affatto scontato visto che nelle passate manovre finanziarie erano previsti aumenti di tasse accanto a tagli di spesa. E visto che ancora oggi la critica principale da sinistra della manovra finanziaria è proprio che non si prevedono nuovi investimenti pubblici. La filosofia della manovra è incentrata sulla visione che i tagli di tasse (necessariamente a livello nazionale) siano il miglior volano della crescita, mentre gli investimenti pubblici sono meglio concepiti su scala europea piuttosto che nazionale (i famosi 300 miliardi di Juncker). All’interno delle riduzioni di tasse c’è lo spostamento del carico fiscale dal lavoro alle rendite, già iniziato con l’aumento della tassazione sulle rendite nei mesi passati.

Al di là di qualche spesa aggiuntiva come quella per l’assunzione dei precari della scuola e lo stanziamento per le forze dell’ordine, tutte le altre maggiori uscite sono riduzioni di tasse. Oltre alla conferma del bonus di 80 euro per i lavoratori dipendenti, che dall’anno prossimo prenderanno forma di riduzione fiscale, l’abolizione dell’Irap sul costo del lavoro (limitata al lavoro a tempo indeterminato) e la previsione di 1,9 miliardi per la decontribuzione dei contratti a tempo indeterminato firmati nel 2015 per tre anni costituiscono il cuore della legge finanziaria 2015.

Il disegno della manovra non si comprende se non in un contesto collegato alla riforma del mercato del lavoro. La proposta del governo è infatti quella di passare gradualmente da un mercato del lavoro fatto principalmente di contratti a termine per i giovani ad un mercato del lavoro costituito da contratti a tempo indeterminato. Per fare questo sì è affrontato il tema spinoso dell’articolo 18 e nella legge finanziaria coerentemente con questo disegno sono presenti due misure necessarie a far funzionare il contratto a tempo indeterminato: il taglio dei contributi sociali per tre anni e il taglio dell’Irap sul costo del lavoro, non a caso entrambe le misure sono limitate ai soli contratti a tempo indeterminato.

Questo è il tratto di coerenza della manovra finanziaria: il governo scommette tutto sulla trasformazione del mercato del lavoro. Il decreto Poletti ha rilanciato le assunzioni con la liberalizzazione del contratto a termine e la semplificazione dell’apprendistato, ma certamente il contratto a termine non può essere considerato il centro della proposta politica del governo. La sfida sta nella trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato e possibilmente nell’aumento complessivo dell’occupazione.

Anche il provvedimento sul Tfr in busta paga assume un senso diverso se inteso nel progetto complessivo di trasformazione del mercato del lavoro. Se si passa a un mondo in cui la tutela del posto di lavoro non è più reale (l’articolo 18) ma è un’indennità monetaria, allora si può pensare che il Tfr sia meno necessario di prima. L’istituto del Tfr (che è un unicum italiano) nacque infatti nel contesto di un mercato del lavoro in cui il posto di lavoro era presumibilmente per sempre ma nello sfortunato caso del licenziamento non c’era altra forma di compensazione (se l’impresa non avesse avuto la cassa integrazione). Il Tfr quindi non è solo una forma di risparmio “forzoso” a integrazione della pensione ma anche il sostituto di un’indennità monetaria in caso di licenziamento. Oggi, dopo la riforma, questa indennità monetaria ci sarebbe per legge e quindi una delle due ragioni per accumulare Tfr viene meno. Se si utilizza il criterio della coerenza interna della legge finanziaria si capiscono anche il perché di alcune scelte che a prima vista possono sembrare penalizzanti. In primo luogo il governo ha deciso di sottoporre a tassazione ordinaria invece che all’aliquota agevolata il flusso di accantonamento del Tfr che il lavoratore, dal 2015 potrà chiedere gli venga messo nello stipendio anziché andare al fondo pensione o restare in azienda ai fini della liquidazione. Allo stesso modo ha deciso di innalzare il prelievo sui rendimenti del Tfr dall’11,5 al 17% (e dei fondi pensione dall’11,5 al 20%). Può essere una misura penalizzante della previdenza integrativa ma è sicuramente coerente con il progetto di trasferire parte del carico fiscale dal lavoro alle rendite finanziarie: saranno pure Tfr o fondi pensione ma pur sempre rendite finanziarie sono. In secondo luogo la deducibilità totale del costo del lavoro dalla base imponibile riguarda esclusivamente la forza lavoro a tempo indeterminato. Ed è controbilanciata dalla cancellazione del taglio del 10% dell’aliquota Irap decisa ad aprile. L’Irap torna quindi al 3,9% (dal 3,5%) sulla componente lavoro a tempo determinato (e sui profitti e interessi passivi). Significa che il governo fa sul serio nel tentativo di promuovere il contratto a tempo indeterminato. Si è sempre detto che il miglior modo per incentivarlo è farlo costare di meno rispetto ai contratti a termine. Ecco un modo concreto per farlo.

Merita un commento anche la scelta della decontribuzione per tre anni dei nuovi contratti a tempo indeterminato. La preoccupazione è che lo stanziamento di 1,9 miliardi non basterà. Con questa somma, le aziende potrebbero assumere poco più di 300mila persone a tempo indeterminato mentre ogni anno vengono attivati circa un milione e mezzo di contratti a tempo indeterminato. Per questo è possibile che si metteranno dei vincoli all’utilizzo degli incentivi (tipicamente si limita la platea alle aziende che creano occupazione addizionale rispetto all’anno precedente). Senza esagerare però, perché anche i due governi precedenti avevano stabilito degli incentivi ai nuovi contratti a tempo indeterminato ma le difficoltà burocratiche per accedere agli incentivi stessi e il loro limitarsi agli occupati con livelli di istruzione bassi e ai disoccupati di lungo periodo, li hanno resi inefficaci.

Certo è che l’esperienza internazionale ci insegna che i sussidi all’occupazione sono efficaci se oltre ad essere universali sono strutturali, ma il governo anche in questo caso ha scelto degli incentivi generosi e brevi (tre anni) invece che incentivi più modesti ma strutturali. A mio parere è il segno ancora una volta che si punta tutto sul contratto a tempo indeterminato sapendo che dovrà superare la concorrenza del contratto a termine e che su questo il governo verrà giudicato a breve. Solo in un futuro più certo si potrà agire per via legislativa e limitare la facilità dei contratti a termine. Solo quando si è sicuri che è cambiata la percezione del contratto a tempo indeterminato nella testa degli imprenditori e quindi non si rischia, limitando il contratto a termine, di ostacolare la creazione di posti di lavoro.

Regioni senza cassa, Stato in bolletta

Regioni senza cassa, Stato in bolletta

Roberto Sommella – Europa

Se si vuole cercare una data precisa per capire da quando le finanze pubbliche hanno cominciato a prendere una brutta piega, non ci si può sbagliare. è il primo gennaio 2002, l’anno della nascita dell’euro e della concreta attuazione della riforma del titolo V della Costituzione. Se l’avvento della moneta unica ha comportato un passaggio storico in termini di minore costo del denaro, dall’altra ha segnato una costante devoluzione dei poteri economico-monetari alle istituzioni comunitarie.

La stessa cessione di sovranità che è avvenuta in contemporanea a favore delle regioni, sulla base della nuova suddivisione delle funzioni legislative tra stato centrale e periferico. è allora che si è aperta la forbice che sta ora dilaniando i rapporti tra il governo (Renzi arriva buon ultimo dopo Berlusconi, Monti e Letta) e i governatori. Il primo, a causa della crisi finanziaria del 2008 e della recessione che dura dal 2011, ha dovuto varare manovre per oltre 200 miliardi di euro, soprattutto fatte di tasse, per ottemperare ai Trattati. I secondi, si sono trovati a fare i conti con una situazione sempre più precaria dal punto di vista dei trasferimenti dello Stato alle regioni, governando di fatto in mezza Italia uno situazione di pre-default finanziario.

In sostanza, con la riforma fatta a maggioranza dal centrosinistra nel 2001, mentre lo Stato centrale si consegnava mani e piedi alle rigide regole di bilancio di Bruxelles e di Francoforte, inevitabilmente indebolendosi, dall’altra gran parte del peso della gestione amministrativa locale si spostava sulle spalle di regioni ognuna diversa dalle altre, in un federalismo del tutto incompiuto. Con il risultato all’amatriciana: abbiamo i lander, ma chi li presiede non ha poteri compiuti dal punto di vista della devolution fiscale né dei costi standard da applicare alla spesa per beni e servizi. Sono proprio questi gli anni (dal 2001 ad oggi) in cui, non sarà un caso, il debito pubblico italiano è passato da 1.620 miliardi di euro (solo il 108% del Pil) a 2.148 miliardi (oltre il 133% del Pil, ora 127% per via dei nuovi criteri di calcolo Eurostat): in termini assoluti, 528 miliardi in più, uno score catastrofico.

Eppure basta rileggersi con attenzione l’articolo 117 della Costituzione, novellato proprio da quella revisione di inizio millennio, per capire che si sarebbe andati a sbattere. È lunghissima e piena di ricadute finanziarie la lista delle cosiddette materie “di legislazione concorrente” e cioè di competenza esclusiva delle regioni, un mare magnum che soffoca ogni logica senza un adeguato sistema di controlli ex ante della spesa e un analogo potere impositivo territoriale, che permetterebbe agli elettori di giudicare i propri amministratori anche e soprattutto dal punto di vista dei servizi offerti. Vale la pena ricordarli, solo per farsi un’idea della mostruosità e economica e forse anche giuridica. Rapporti internazionali e con l’Unione europea; commercio con l’estero, tutela e sicurezza del lavoro; istruzione (salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale); professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Gran parte di queste mansioni va gestita con i soldi dello Stato centrale. Un’assurdità.

L’interminabile elenco spiega più di tante altre parole come sia potuto accadere che oggi, nel 2014, lo Stato abbia un debito pubblico che lo impegna per 80 miliardi di euro di interessi all’anno e ben sei regioni (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio, Molise, Sicilia) siano costrette ad attuare forzosi piani di rientro dal deficit sanitario che per alcune di esse supera e di molto il miliardo di euro. Spetta alla Corte dei conti, ma solo a babbo morto e quindi ex post, cercare di fare luce su una situazione al limite del collasso; ai governi, come quello attuale, tocca invece il gravoso compito di chiedere sacrifici anche agli amministratori locali tagliando, come nel caso della legge di stabilità, 4 miliardi su 36 di computo totale.

È una strada ancora percorribile quella di impugnare le forbici a palazzo Chigi quando molti poteri (persino molti beni, come nel caso della devolution immobiliare) sono volati via? Se si ragiona nell’ottica dei sacrifici necessari data l’urgenza del momento, la risposta è affermativa. Ma in un’ottica di lungo periodo diventa impossibile andare avanti così. Esecutivo e amministratori regionali devono mettersi intorno ad un tavolo non tanto per avviare il consueto balletto di modifiche ai tagli inseriti nella manovra, quanto per porre mano alla doverosa e non più procastinabile revisione della riforma del Titolo V. Se è vero che senza rappresentanza non può esserci tassazione, a maggior ragione senza poteri fiscali non si possono delegare funzioni cruciali del vivere sociale a mega-organismi dai piedi (e dai bilanci) d’argilla. Questo al netto degli scandali che hanno colpito quasi tutti i consigli regionali e delle inchieste che ne seguono in alcuni casi l’evolversi. Lo Stato è diventato una Ferrari che deve consumare come una Panda, il sistema delle Regioni è l’esatto contrario. La benzina è la stessa e sta finendo per tutti.

Una condotta inaccettabile

Una condotta inaccettabile

Davide Giacalone

Mettiamo, per pura ipotesi teorica, che la Ragioneria generale dello Stato abbia avuto ragioni per non “bollinare” la legge di stabilità, non convalidandone le coperture, o che il Quirinale, dopo l’attento esame promesso, ne abbia rilevato le incongruenze e ne chieda la riscrittura. A quel punto il governo italiano dovrebbe ritirare il testo inviato alla Commissione europea, totalizzando una continentale figura barbina. Uscendo dall’ipotetico e dal teorico, quindi, se qualche aggiustamento dovrà essere fatto si dovrà procedere quasi di soppiatto, per evitare di danneggiare l’Italia.
Ciò significa che l’invio temerario, l’esposizione scoppiettante, l’integrazione nelle trasmissioni televisive innescano un pericoloso conflitto istituzionale, mettendo la Ragioneria e il Colle nelle condizioni di dovere rinunciare al proprio ruolo (più la Ragioneria, per la verità, perché questa storia che al Quirinale si debbano sempre rifare i conti e rivedere tutto è fuori dai binari costituzionali, è un allargamento smisurato della prudenza che volle la firma del Colle).
In altre parole, sono con le spalle al muro: o validano o ci espongono a pericoli eccessivi. Proprio per ragioni di convenienza, nel braccio di ferro che si è determinato nell’intera Unione europea, era stato suggerito al governo italiano di anticipare la legge di stabilità. Di presentarla ben prima della scadenza ultima (15 ottobre). Hanno preferito attendere l’ultimo minuto. Per essere precisi, però, lo hanno sforato, perché è vero che il testo è stato spedito entro i termini, ma, come si dimostra, privo dei necessari visti. Senza contare che il dibattito pubblico, da una settimana, si sviluppa senza che esista un testo da leggere e studiare, ma solo slides e interviste da commentare. Non è semplice malcostume. È una condotta inaccettabile.