manovra

Danno e beffa ai pensionati, la stangata è pure retroattiva

Danno e beffa ai pensionati, la stangata è pure retroattiva

Antonio Castro – Libero

Non solo Matteo Renzi vuole aumentare le tasse sui rendimenti degli investimenti dei fondi pensione dei professionisti privati (dal 20 al 26%), e innalzare quelle sui guadagni realizzati con l’accumulo dei versamenti delle polizze integrative (dall’11,5 al 20%), ma intende anche farlo retroattivamente partendo dal 1˚ gennaio 2014, ovvero quando a Palazzo Chigi c’era ancora il suo predecessore Enrico Letta.

Spulciando tra le bozze (non bollinate) della legge di Stabilità 2015 è saltato fuori, infatti, che il balzello non si applicherà solo dal 2015, ma è addirittura retroattivo al gennaio scorso, in barba allo Statuto dei contribuenti e al buon senso. Casse private e fondi integrativi saranno sottoposti a un prelievo straordinario che, tirando le somme, supererà complessivamente i 500 milioni di euro. Prelievo che metterà in difficoltà le casse e che azzererà qualsiasi welfare di categoria (sussidi ai disoccupati, prestiti, case di riposo, ecc). Con un patrimonio di oltre 61 miliardi (di cui 8 investiti in titoli di Stato), le 19 casse previdenziali dei professionisti rappresentano del resto un tesoretto che fa gola a qualsiasi governo, ma che mai era stato così violentemente intaccato.

Da qualche anno, ai fini statistici Istat e Eurostat, il patrimonio privato delle Casse viene computato nelle voci in attivo dello Stato, come se si trattasse di asset pubblici. Ma si tratta solo di un giochino contabile (ideato dall’ex ministro Giulio Tremonti), per dimostrare a Bruxelles che i conti dell’Italia non sono/erano poi così disastrosi. In verità gli enti pensionistici rientrano nel «perimetro dello Stato», solo perché gestiscono un servizio pubblico (la previdenza), sono sottoposti al controllo dei ministeri vigilanti (Lavoro e Tesoro), ma neanche un euro di questi soldi viene dalle casse pubbliche. La privatizzazioni degli enti, e l’autonomia di gestione e investimento, è stata barattata decenni addietro (1995) dimostrando la sostenibilità attuariale dei conti previdenziali e garantendo così che la fiscalità pubblica non sarà costretta a coprire eventuali disavanzi. Di più: con la famosa ministra Elsa Fornero alle casse venne chiesto uno sforzo ulteriore: dimostrare la sostenibilità previdenziale e finanziaria a 50 anni.

Insomma, sono stati fatti i calcoli e applicati interventi e riforme per non far esaurire il patrimonio e garantire così, per il prossimo mezzo secolo, l’erogazione delle pensioni. Le casse hanno tutte (tranne una), superato questo stress test previdenziale, ottenendo dal ministero del Welfare il sigillo della sostenibilità. Se ora però si cambiano le regole e si raddoppia quasi la tassa sui rendimenti degli investimenti (unico caso in Europa di doppia imposta), c’è il rischio che alcuni enti non riescano a far quadrare i conti. E senza la sostenibilità futura potrebbe scattare il commissariamento da parte del Welfare e quindi l’assorbimento (patrimonio incluso) nel SuperInps, che nell’immediato avrebbe solo da guadagnarci dall’ingoiare i patrimoni dei professionisti. Solo che dopo questa annessione le pensioni accumulate (e i relativi contributi e rendimenti) verrebbero regolate dall’Inps, quindi dal governo. Domani, 23 ottobre, i presidenti delle Casse riuniti nell’Adepp, decideranno le contromisure. E hanno già minacciato di vendere in blocco gli investimenti in titoli della Repubblica italiana (8 miliardi circa).

E che dire del salasso sulla previdenza integrativa? Per decenni (dal 1993 all’altro ieri), governi ed esperti previdenziali ci hanno fato venire il mal di testa ripetendoci che dovevamo mettere da parte qualcosa in più per la vecchiaia, perché con il sistema contributivo meno generoso del retributivo sarebbero statiti guai. Ora la legge di stabilità consente di dilapidare il trattamento di fine rapporto (Tfr) per campare oggi da cicale, fregandosene del futuro di povertà. L’aumento della tassazione dei proventi percepiti dai fondi pensione integrativi (patrimonio 2013 110 miliardi), passa infatti dall’11,5% (era l’11% fino ad aprile, primo scippo targato Renzi), al 20%, e avrà efficacia retroattiva dal 1˚ gennaio 2014. C’è di buono che per chi avesse già incassato al momento della pubblicazione della legge (fine dicembre 2014?) il tesoretto personale messo da parte (per i vecchi iscritti è possibile infatti chiedere la liquidazione di tutto quanto accumulato invece di incassare una rendita mensile), dovrebbe scattare una parziale compensazione, ovvero il fisco non reclamerà le maggiori tasse sui riscatti avvenuti nell’anno. Anche per gli enti non commerciali e le fondazioni bancarie aumenterà retroattivamente l’imposta. In tutto Renzi è a caccia di 3,6 miliardi. Nero su bianco, sulle slide della scorsa settimana.

Le certezze che mancano

Le certezze che mancano

Federico Fubini – La Repubblica

Il passo del governo di recente è così rapido che è mancato il tempo di ripensare a un dettaglio. È un peccato, perché su di esso si giocano la legge di Stabilità o il rapporto dell’Italia con il resto d’Europa. E quel dettaglio è ingombrante: quest’anno le previsioni di crescita si sono dimostrate fuori bersaglio di 15 miliardi. L’Italia credeva di essere in ripresa, ma era in recessione.

Si tratta di capire come sia stato possibile sbagliare la mira di tanto. È una domanda decisiva per la legge di Stabilità in gestazione, perché nella soluzione di quel rebus il governo di Matteo Renzi può trovare una guida che gli eviti nuove trappole. L’Italia nel 2014 è andata peggio del previsto in parte perché l’export ha deluso, anche a causa della frenata in Cina, Russia o Germania. Ma l’altra origine della recessione del 2014 è più vicina a casa ed è questo che conta per la legge di Stabilità 2015: il Pil è sceso perché gli italiani hanno investito in costruzioni e macchinari industriali molto meno del previsto. Gli investimenti dei privati sono scesi del 2%. È mancata la fiducia: chi ha denaro da mettere al lavoro per creare impianti lo ha tenuto fermo, incapace di farsi un’idea su cosa lo aspetta sulle tasse, le regole del lavoro o i tempi della giustizia.

L’incertezza produce paralisi, ma proprio per questo ha un ruolo di primo piano nella legge di Stabilità di cui ieri al Quirinale hanno parlato Giorgio Napolitano e Matteo Renzi. Il nuovo bilancio potrà contenere o togliere un premio ai ceti medio-bassi o ai fondi pensione, togliere tasse dalle imprese o dai nuovi contratti e imporre tagli agli enti decentrati. Ma non otterrà quello che vuole – il primo anno di crescita dal 2010 – se non produce certezze su ciò che gli italiani si devono attendere da ora in poi. In assenza di questo ingrediente immateriale, nessuno investirà per ampliare un cementificio, aprire un ristorante, situare una fabbrica in Italia anziché in Romania.

Quanto a questo, i fotogrammi che passano sotto gli occhi in queste ore non aiutano. Non c’è dubbio che la Ragioneria generale dello Stato alla fine metterà il suo timbro sulla legge di Stabilità, né che il capo dello Stato assecondi – nel suo ruolo – la spinta di Renzi per disincagliare l’economia. Qualche dubbio invece può esserci sulla capacità di questa legge di bilancio di produrre certezze. L’aggiornamento al documento di economia e finanza del Tesoro, un paio di settimane fa, annuncia che anche nei prossimi anni gli italiani cammineranno su un terreno mobile. L’Iva può salire in automatico di 12 miliardi nel 2016 e fino a 21 nel 2018 se non fossero raggiunti gli obiettivi di deficit. Il Tesoro stesso avverte che ciò può portare a una caduta di consumi e investimenti e meno Pil per circa 10 miliardi. Sulla base di una nota a pie’ di pagina nei documenti del governo, non è facile rischiare i propri soldi per produrre beni o servizi al consumatore in Italia. Più difficile ancora se, per varare la legge di Stabilità su un terreno solido in termini contabili, una clausola simile fosse inserita già dal 2015.

L’incertezza ha un suo modo virale di trasmettersi e questa viene da quella di certi provvedimenti inseriti a copertura dei tagli di tasse nella legge di Stabilità. Già da ora il governo per esempio prevede entrate in più per 3,8 miliardi dalla lotta all’evasione. Le novità su questo fronte sono importanti e una di queste è il pagamento dell’Iva da parte dei committenti, non più da parte di imprese di pulizia o costruzioni che spesso “dimenticano” di farlo. Yoram Gutgeld, consigliere di Renzi, è in buona fede quando prevede che le risorse dalla lotta all’evasione saranno anche maggiori del previsto. Ma tredici anni di impegno su questo fronte hanno prodotto dieci miliardi e, se avverrà, il 2015 segnerebbe dunque un balzo straordinario. Certo quest’anno le risorse dall’evasione sono state di 300 milioni, dieci volte meno. Prudenza imporrebbe di non dar quasi niente per scontato e tenere conto dei risultati solo a fine anno: così farà la Commissione europea nel giudicare il bilancio italiano, non a caso il governo deve ricorrere alle maxi-clausole sull’Iva che bloccano la visibilità sul futuro.

Altri dubbi si potrebbero poi avere sui 6,2 miliardi di tagli su regioni e enti locali. La realtà dell’Italia di oggi è che moltissime amministrazioni hanno conti in parte falsi, da ripulire dolorosamente: trovare sei miliardi in più di economie presuppone una profonda riorganizzazione dei poteri locali, del loro numero e dei loro statuti autonomi o speciali. Eppure nessuno ne parla, meno di tutti il governo. Renzi ha impostato una legge di Stabilità per dare una scossa positiva alle famiglie e alle imprese, a costo di sfidare la Commissione Ue. Ormai non gli serve a nulla trovare nuovi capri espiatori se qualcosa non va. Il suo compito, più faticoso, adesso è solo produrre certezze.

Troppa confusione sui servizi alla natalità

Troppa confusione sui servizi alla natalità

Il Sole 24 Ore

In attesa del testo definitivo della legge di Stabilità valgono alcune prime considerazioni sul nuovo fondo per la maternità da 500 milioni di euro del Governo Renzi. La prima: lo soglia di 26mila euro Isee (e senza limiti dal quinto figlio) individuata è molto elevata per un paese nel quale ci sono 1,4 milioni di minori in povertà assoluta e per i quali ancora non esiste una misura universale di assistenza. Basti ricordare che l’attuale social card da 40 euro al mese va a beneficiari con un Isee non oltre i 6mila euro. Così si rischia, come avvenuto in passato, di dare soldi a mamme che non ne hanno alcun bisogno. Seconda considerazione: nel resto d’Europa le politiche per il sostegno della natalità si fanno con i servizi sul territorio, non con trasferimenti monetari. Terzo: attualmente esistono già cinque istituti che destinano risorse per 15 miliardi con criteri del tutto scoordinati e che potrebbero essere razionalizzati. Insomma la confusione è ancora tanta, speriamo che nelle prossime ore e durante l’iter parlamentare ci siano i margini per rimediare.

Tasse retroattive, il vizio dei governi

Tasse retroattive, il vizio dei governi

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere della Sera

Il tempo, per il Fisco, assomiglia a una sorta di variabile indipendente. E il calendario, a pensarci bene, può persino girare al contrario. Dicembre, novembre, ottobre, settembre. Accade spesso, anzi troppo spesso che, per esigenze di bilancio, si decida di spostare all’indietro le lancette dell’orologio. E introdurre così aumenti delle tasse con effetto retroattivo. Un vizio comune a tutti i governi degli ultimi anni e che ha contagiato lo stesso Parlamento. Un giochetto (di prestigio) che consente, in pratica, di concedere sgravi a qualche contribuente, penalizzandone, però, altri. O di tappare, per questa via, improvvise falle nei conti pubblici.

L’ultimo esempio è quello dell’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive. Nella legge di Stabilità è appena stato deciso di alleggerirla per chi farà nuove assunzioni, soprattutto con contratti a tempo indeterminato, con una riduzione dell’aliquota dal 3,9 al 3,5%. Peccato che ci sia l’altro lato della medaglia: per tutti gli altri imprenditori, che non assumeranno, non perché sono cattivi ma perché non possono, l’imposta torna al livello precedente, al 3,9%. Da quando? Non dall’entrata in vigore della legge di Stabilità fissata per gennaio 2015 – dopo, probabilmente un estenuante dibattito parlamentare e la stesura di un maxi emendamento -, ma da gennaio scorso. Sì, da gennaio 2014, con dodici mesi d’anticipo.

Si dirà che anche i vantaggi sono retroattivi, ma in questo caso, come accade con il Codice penale, la norma dovrebbe essere favorevole al reo (in questo caso il cittadino-imprenditore). Retroattivi, ad esempio, sono stati i tagli ad alcune detrazioni fiscali (polizze vita). Come gli aumenti delle addizionali locali del 2011. Retroattivo rischia di essere anche l’incremento dall’11,5% al 20% del prelievo annuo sui rendimenti dei fondi pensione. E, quando non si aumentano le tasse, si cambiano le regole del gioco. A vantaggio dell’Erario, ovviamente. Si calcola che, solo nel biennio 2011 e 2013 siano state approvate imposte retroattive per un valore di circa 5,5 miliardi.

Viene quindi da chiedersi quale validità abbia ancora lo Statuto del contribuente, varato nel 2000 e presentato come il provvedimento che avrebbe reso più equilibrato e corretto il rapporto tra il Fisco (lo Stato) e i cittadini. Lo Statuto, articolo 3, stabilisce che «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. Relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo». Ma questa norma viene spesso bypassata spiegando che si tratta di un’eccezione.

Secondo lo Statuto, le leggi che trattano un argomento diverso da quello tributario non possono intervenire in materia fiscale, se non per la parte di stretta pertinenza. E invece le tasse si moltiplicano proprio là dove non dovrebbero esserci e dove nessuno se le aspetta. Un esempio? Il taglio alla deducibilità dei costi delle auto aziendali introdotto per finanziare la legge Fornero sulla riforma del mercato del lavoro. All’articolo 4 si stabilisce che non si può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti. Mentre molte imposte sono state introdotte proprio con decreto legge. Perché? Siamo in emergenza.

E così, di eccezione in eccezione, lo Statuto del contribuente è stato violato innumerevoli volte dal legislatore. Almeno qualche centinaio di volte. E non solo sulla retroattività. Uno statuto con i buchi, insomma. Un provvedimento che fa ancora la sua bella figura nella vetrina del Fisco made in Italy. Ma dagli effetti pratici quasi nulli. La trasformazione da sudditi a cittadini, che doveva avvenire proprio grazie allo Statuto, non è stata ancora completata. E sono già passati 14 anni.

Non solo fondi pensione: colpite dal DDL stabilità anche le polizze vita

Non solo fondi pensione: colpite dal DDL stabilità anche le polizze vita

Federica Pezzatti – Il Sole 24 Ore

Crolla un altro caposaldo delle polizze Vita. Il governo Renzi dal prossimo 1° gennaio, se le misure annunciate saranno confermate, tasserà al 26% anche le plusvalenze delle polizze Vita incassate dagli eredi dell’assicurato che finora erano esentati. Al contrario di quanto è scritto sui contratti, dunque, i beneficiari pagheranno le tasse sui guadagni maturati dalla sottoscrizione del contratto fino al momento della morte dell’assicurato. È bene precisare, per evitare fraintendimenti, che le polizze resteranno comunque esenti da tasse di successione.

Si tratta di una novità, che riguarda ramo I e ramo III, che coglie di sorpresa l’industria assicurativa che giudica il provvedimento come un segnale poco favorevole, tenuto conto che ci sono forme tecniche a “vita intera” finalizza te proprio alla tutela degli eredi. Una nuova tegola che si abbatte sul settore dopo il provvedimento di rialzo della tassazione delle plusvalenze passata dal 20% al 26% dallo scorso luglio (salvo per i guadagni originati dagli investimenti in titoli di Stato e equiparati che saranno tassate al 12,5%) e che ammontano a circa il 60% delle riserve Vita.

La legge di stabilità colpisce dunque duramente un investimento sempre più utilizzato: nei primi otto mesi del 2014 la nuova produzione Vita è aumentata del 43% rispetto allo stesso periodo del 2013, con 72,2 miliardi di euro di raccolta. Non sono stati risparmiati ovviamente i Pip, piani di previdenza assicurativi. In quanto prodotti di previdenza complementare, le plusvalenze da essi originate di anno in anno saranno tassate, stando alle bozze, al 20% (contro l’11,5% valido da luglio) salvo, la componente investita in governativi ed equiparati (aliquota al 12,5%). Come consolazione ai possessori di prodotti Vita, ma solo di ramo I, resta l’esenzione da bollo: le rivalutabili sono le uniche (insieme ai fondi pensione e fondi sanitari) a non pagare il balzello sugli investimenti dello 0,2% annuo e questo vantaggio appare conservato.

Legge di stabilirà

Legge di stabilirà

Davide Giacalone – Libero

Più che una legge di stabilità si avvia a essere una legge di stabilirà. Nel senso che si modella e adatta con il passare delle ore. Il tempo passato dall’annunciazione alla presentazione è servito anche per far tesoro dello sgomento suscitato nel sentir dire alcune cose. Per esempio: la decontribuzione annunciata, sulle assunzioni a tempo determinato, era di 6200 euro, ma trattavasi di un errore, perché già ci sono aziende che avrebbero diritto a una decontribuzione superiore, sicché nel testo che sarà presentato in Parlamento (dove ancora neanche c’è) quel limite sarà alzato a 8060. Vedremo cosa combineranno con il Tfr, i cui errori sono stati qui illustrati per tempo.

Originale la teoria illustrata da Yoram Gutgeld, consigliere economico di Matteo Renzi: se le norme esistenti si dimostrassero più convenienti di quelle che stiamo preparando, il contribuente potrà attenersi a quelle che preferisce. Lui si riferisce alle agevolazioni per le partite Iva, ma, certo, ha tutta l’aria d’essere un bislacco principio generale: noi ideiamo agevolazioni, che annunciamo a raffica, ma se, eventualmente, la legge preesistente fosse migliore di quella da noi magnificata, niente paura, potrete continuare a usarla. In espansione, se non altro, c’è la fantasia.

Direi che dalla scuola alla giustizia la nouvelle vague governativa s’è l’asciata un po’ prendere la mano dall’ebrezza della consultazione popolare: noi annunciamo una cosa, stilando un menù che non comporta scelte, e voi siete liberi ciascuno di dire la propria. Tanto nessuno sta a sentire. In campo fiscale sembra ci sia un salto di qualità: mettiamo in parallelo un paio di sistemi e voi scegliete quello in cui vivere. La legge di stabilirà. Intanto, per non rendere noiosa la vita, continua la serrata campagna degli annunci. Immagino che al Quirinale si siano domandati: ma se ci hanno appena consegnato il testo della legge di stabilità, perché l’idea degli 80 euro alle mamme non c’è e sono andati a illustrarla in un salotto televisivo? Non so cosa si siano risposti. Di certo, un tempo erano più arcigni e meno comprensivi.

Una cosa buona, comunque. O no? No, non lo è. È una roba demagogica e controproducente. Lasciando da parte la fissazione per il numero 80, che non si capisce per quale logica quantifica i regali governativi, è bene rendersi conto che questa perversione laurina comporta una concezione della società come fossimo tutti minorenni, pronti a gioire per le mance temporanee. In una società maggiorenne le famiglie hanno bisogno dei servizi che le affianchino nella gestione dei bambini, a cominciare dagli asili nido. In una società maggiorenne la fiducia nel futuro discende dalla crescita economica, quindi dalla ragionevole certezza che lavorando si possa giovarsene. Mentre è tipico di una società minorenne il supporre che si possa dare e prendere senza che questo sia legato al produrre. Certo che 80 euro, al mese, tornano utili quando si affrontano le spese per un bambino, e certo che prendere gli applausi è cosa piuttosto semplice, annunciandoli, ma il bambino sopravvive ai tre anni e se non ci sono asili a sufficienza si perde partecipazione al lavoro degli adulti. Poi supera i sei anni, e se nelle scuole trova gli stabilizzati anziani avrà un’istruzione carente. E se lo mandiamo in scuole analogiche, con testi stampati e senza digitalizzazione non solo gli rubiamo capacità, ma rubiamo soldi alle loro famiglie, come capita anche quest’anno. Poi supera i diciotto, e se si trova in università chiuse alla concorrenza e autoreferenziali nell’assegnazione delle cattedre diventerà un analfabeta laureato. Ci sono toghe che non compitano nell’italico idioma. A quel punto che gli diamo, il contributo per disadattamento al lavoro e al mondo?

Quando i soldi sono troppi può capitare di contrarre i vizi dell’agio e dell’improduttività. Ma ora i soldi sono pochi e spenderli fuori dal rilancio di istruzione e produzione è un delitto. Salvo prendere applausi, per la legge che solo poi stabilirà

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Dopo tanti annunci e tante promesse la montagna della legge di Stabilità ha partorito meno di un topolino. Il governo Renzi è tornato indietro perfino rispetto a quanto prodotto dall’esecutivo Letta in materia di credito di imposta per la ricerca. Così da un biennio l’Italia, in piena crisi da mancanza di investimenti privati e da competitività dell’offerta, non ha una bonus che incentiva gli investimenti in ricerca ed in innovazione.

L’ultimo intervento in materia è stato quello del governo Berlusconi che aveva introdotto una vera discontinuità per l’Italia: un credito di imposta pari al 90% degli investimenti fatti nel biennio 2011-2012 con università o enti di ricerca, recuperabile per quote paritetiche in tre anni. I 155 milioni di euro a suo tempo stanziati in bilancio non sono stati neppure tutti utilizzati dal mondo produttivo, a riprova che i timori della Ragioneria spesso cozzano con la realtà della recessione. Prima il bonus fiscale, sempre deciso dal governo Berlusconi, era stato commisurato al valore complessivo degli investimenti fatti dalle imprese: il 10%.

A fine 2013 Enrico Letta vara un credito di imposta pari al 50% delle spese incrementali in ricerca a partire dall’esercizio 2014. La burocrazia ha lasciato la norma inattuata e così le imprese che hanno creduto nella serietà della Repubblica italiana e hanno fatto nel corso del 2014 investimenti in ricerca confidando nel credito di imposta si ritrovano oggi con un deficit di cash flow da dover finanziare. In pieno credit crunch non è un gap facile da chiudere attingendo al credito bancario.

Ora la legge di Stabilità cambia nuovamente le carte in tavola: credito di imposta dimezzato al 25%, sempre solo per gli investimenti incrementali e con effetti che si produrranno, ragionevolmente, solo a partire dalla seconda parte del 2016 quando i bilanci saranno stati depositati. Sarebbe stato molto più serio, onde evitare di impattare nuovamente sulle aspettative delle imprese, lasciare la norma Letta invariata e non eliminare il 2014, esercizio ormai chiuso e quindi con effetti risibili sui conti pubblici, dall’applicazione della norma. In questo modo si potevano premiare in pochi mesi le imprese che, nel corso del 2014, hanno avuto il coraggio di investire mentre il pil crollava e la deflazione prendeva il largo, cioè già il prossimo maggio.

In Francia per il triennio 2013-2015 il Cir, il credito di imposta per la ricerca francese, varato nel 1983, è stato dotato di un fondo annuo di 5 miliardi di euro perché raddoppiato dal presidente François Hollande. La legge di Stabilità di Renzi è stata coraggiosa sull’Irap e sugli 80 euro ma troppo timida sulla ricerca.

I quattro filtri

I quattro filtri

Giuseppe Turani – La Nazione

Il premier Renzi è uno che corre veloce, e infatti anche la sua Legge di Stabilità è arrivata in perfetto orario. Adesso, però, la corsa rallenta obbligatoriamente: infatti l’aspettano ben quattro filtri importanti. Il primo è quello della coerenza delle cifre. Si sa che Renzi ha molta voglia di fare e quindi è possibile che da qualche parte si sia stati un po’ larghi. Oggi, però, c’è il testo definitivo e chiunque (opposizione compresa) potrà valutare se c’è coerenza fra quello che si promette di spendere e quello che si spera di incassare. È un esame che sarà fatto da economisti, giornali, opinione pubblica: tutta gente che non ha ruoli istituzionali ma che conta in un paese in cui tutti si sentono commissari tecnici della Nazionale e primi ministri.

Il secondo  filtro sarà probabilmente il più severo. Si tratta infatti dei guardiani dell’Unione europea fra cui spiccano tedeschi e esponenti dei paesi nordici. In pratica dei puritani del bilancio pubblico in ordine. Si può star certi che nei confronti della prima Legge di Stabilità di Renzi saranno attentissimi. E non disposti a fare sconti. È vero che il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan dovrebbe rappresentare un buon scudo. Oltre a essere un uomo di riconosciuta prudenza e ben noto negli ambienti internazionali, tutti sanno che non avrebbe mai firmato una legge tenuta insieme con lo spago e gli elastici. Però questa Legge è, in buona sostanza, un bilancio di previsione: sta insieme se le previsioni che si sono fatte, a proposito ad esempio della crescita economica (e quindi delle entrate fiscali) sono ragionevoli. In questi ultimi anni l’Italia è diventata famosa per mettere nero su bianco previsioni di crescita manicomiali: a un certo punto si era persino detto che quest’anno avremmo avuto una crescita dell’l,1 per cento. Invece andremo indietro dello 0,3 per cento, ma c’è anche chi parla dello 0,4 per cento. Su questo punto, che poi è il cuore della Legge di Stabilità, si può stare certi che il confronto con di Bruxelles non sarà semplice.

Il terzo filtro è rappresentato dal Parlamento. E qui la faccenda si complica. Per due motivi. In primo luogo c’è che i deputati approfittano sempre dell’arrivo della Legge di Stabilità per cercare di infilarvi dentro qualcosa per i loro protetti. Ma c’è un altro aspetto parlamentare da tener presente. Non è un mistero che a molti deputati e senatori questa manovra non piace. Inoltre c’è una certa quota di onorevoli che farebbe qualunque cosa pur di vedere Renzi ruzzolare insieme alla sua Legge di Stabilità. Il confronto parlamentare, quindi, sarà una prova politica fra le più difficili per il premier.

Infine c’è l’ultimo filtro: i sindacati. Renzi ha dato l’impressione, fin qui, di non curarsene molto, a causa della loro relativa impopolarità presso gli elettori. Però, se alla fine ci si trova davvero con un milione di persone in piazza e con la prospettiva di uno sciopero generale, bisognerà inventarsi qualcosa. Non sono più i tempi del governo Rumor, quando bastava l’annuncio di uno sciopero generale per provocare le dimissioni del governo. Però, insomma, non si potrà nemmeno cavarsela con due battute e tre tweet. Oggi nessuno può dire che cosa resterà della Legge di Stabilità dopo il passaggio in questi quattro filtri. Si sa solo che “qualcosa” entro la mezzanotte del 31 dicembre va approvato.

Stabilità, rotta da correggere

Stabilità, rotta da correggere

Davide Giacalone – Metronews

La legge di stabilità dovrà essere riscritta. Non tutto è sempre riconducibile a questioni di schieramento politico. Non tutto può essere considerato risolto solo perché si ha una maggioranza parlamentare. Esiste anche la realtà, con cui fare i conti. Il governo ha impostato la legge di stabilità volendo darle un carattere espansivo. La scommessa consiste nell’avere introdotto facilitazioni e sgravi fiscali, oltre a una fetta significativa di spesa pubblica in deficit, che inducano le imprese ad assumere e investire, mentre i consumatori a spendere e comprare. Scommessa politicamente legittima e, nella sua enunciazione, anche apprezzabile. Ma nella sua stesura ci sono contraddizioni.

Prendiamo il caso del Tfr: mettere parte del Trattamento di fine rapporto, da subito, nelle buste paga, significa puntare a dare più liquidità, infondere fiducia, invogliare a usare quei soldi. Sarebbe un bene, se non fosse negato dalla legge stessa, visto che incassare immediatamente un rateo di Tfr sarà a scelta del lavoratore, ma se sceglie di incassare dovrà pagare più tasse subito (perché perde l’aliquota agevolata) e se sceglie di continuare ad accantonare paga più tasse sui risparmi. Qualsiasi cosa scelga, gli costerà fiscalmente più di quel che gli costa oggi. Difficile credere che una roba simile risvegli l’ottimismo. Ragionevole immaginare che, anzi, solleciti la necessità di mettere da parte (magari nel materasso), visto che il fisco grattugia quel che serve per il domani.

Contraddizioni analoghe si trovano anche in altri punti della medesima legge. Lo scomputo del costo del lavoro dall’Irap vale solo per i contratti a tempo indeterminato, ma è a tempo determinato, vale solo tre anni. L’impresa non vive di sconti momentanei, ma di certezze sulla struttura dei costi. Fisco compreso. Non avvio un costo di lunga durata sol perché c’è un’agevolazione momentanea. Non si tratta solo degli esami europei. Sui quali molto ci sarebbe da dire. Prima di tutto occorre sanare le contraddizioni della legge. Non sempre buscando ponente si trova il levante, e se buschi il nord per il sud vai incontro a morte per congelamento. Se una rotta contiene errori, meglio correggerla prima di salpare.

Fra l’uscio e il muro

Fra l’uscio e il muro

Marcello Mancini – La Nazione

I tagli del patto di stabilità hanno messo le Regioni fra l’uscio e il muro. Ora dovranno trovare il verso di far quadrare i conti. I governatori attaccano: «Saremo costretti noi ad alzare le tasse»; «Renzi invita a cena con i soldi degli altri». Detto così può sembrare anche un ragionamento giusto: il premier si fa un altro spot («È la più grande riduzione di tasse mai fatta da un governo della Repubblica») mentre scarica sulle Regioni l’antipatica responsabilità di recuperare da qualche parte i finanziamenti che i rubinetti statali smetteranno di erogare.

L’istantanea e rabbiosa reazione di tutte le Regioni, però, non convince per nulla. Prima di tutto perché non può piangere miseria e minacciare di ritorsioni (più tasse) sui cittadini, una categoria di politici che negli ultimi anni ha prodotto le evoluzioni di Fiorito-Batman, le aragoste a colazione, le mutande verdi di Cota e le prodezze di un esercito di inquisiti che hanno fatto man bassa dei nostri soldi, sottraendoli alle casseforti regionali. Proviamo invece a leggere i tagli di Renzi come una spallata alla Casta, un modo per dire: arrangiatevi voi. Troppo facile rifarsela con i cittadini.

Che le Regioni siano una sacca di sprechi e di burocrazia non è una scoperta recente. Gonfiate negli anni da assunzioni clientelari, consulenze esterne milionarie, missioni e uffici all’estero, appropriazione di funzioni figlie della megalomania di qualche assessore, hanno creato canali di spese inarrestabili. Perciò molti hanno pensato – soluzione assai condivisibile – che invece di abolire le Province sarebbe stato più logico ridimensionare le Regioni. a questo avrebbe comportato una botta per migliaia di posti di lavoro. Allora la strada scelta da Renzi è un modo per costringere i governatori a guardarsi in casa e tirare la cinghia sul serio. Il presidente dei governatori, Sergio Chiamparino, si è avventato su patto di stabilità con una tale violenza, nonostante sia un renziano della prima ora, da far pensare che i cannoni della manovra abbiano centrato il bersaglio.

Costa fatica muoversi dalla pigrizia amministrativa, che ha lasciato correre soldi senza badare troppo a dove finivano (pensate alle spese dei gruppi consiliari che, fuorché in Toscana, sono sotto inchiesta), salvo poi bussare alla porta del salvifico decreto romano. È il momento di studiare soluzioni nuove e far calare la spending review su qualche allegra scampagnata finanziaria, sopravvissuta ai risparmi. In Toscana il non-renziano Enrico Rossi ha già messo le mani avanti – eppure con il freno a mano tirato, rispetto a Chiamparino – e ha ipotizzato un superticket sui servizi nella Sanità. «Paghino i ricchi» è il ritornello trotskista di Rossi, già brandito per difendere i servizi dei treni pendolari divorati dall’Alta velocità colpevole di non costare abbastanza ai privilegiati passeggeri. A parte che bisognerebbe capire fin dove Rossi – in questo nostro disgraziato sistema – estende il concetto di «ricchi», gli consigliamo di ripensare anche ai costi della politica sanitaria, agli sprechi trascorsi (il buco Asl di Massa; il magazzino Estav di Calenzano, pagato 20 milioni e inutilizzato) e alle future strategie: la scelta, per esempio, di dirottare su Massa tutta la cardiochirurgia, non chiarisce quale sarà il ruolo del Meyer di Firenze, sul quale la Regione ha investito ma che sta ignorando in settori delicati come oncoematologia, traumatologia e urologia. Vanno bene tutti i ticket del mondo – tanto pagano i ricchi! – ma almeno i soldi spendeteli bene.