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Le popolari pagano l’incapacità di riformarsi

Le popolari pagano l’incapacità di riformarsi

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

È un fatto che le banche popolari abbiano seri problemi di governance grazie all’uso disinvolto che molti istituti (ma non tutti) fanno del voto capitario. È un fatto che la categoria si sia dimostrata incapace di un adeguato processo di autoriforma, visto che i problemi si trascinano fin dai tempi del Testo Unico, quando le proposte della Commissione Draghi vennero stralciate in attesa di una riforma (ça va sans dire) «più complessiva», il classico termine politichese per “calende greche”. E così infatti è stato. A confronto Penelope sembra un operaio tessile cinese.

Diamo atto al Governo di aver finalmente affrontato il problema della governance nelle banche Popolari. Ma da qui a mettere al bando l’assetto cooperativo imponendo per decreto alle popolari oltre una certa soglia dimensionale la forma di società per azioni, corre un abisso. Non solo, in linea di principio, per la soluzione scelta, ma anche perché le motivazioni indicate prestano il fianco a qualche perplessità.

La prima riguarda il divieto della forma cooperativa per l’esercizio dell’attività bancaria per le popolari più grandi. Lasciando ad altri la valutazione sulla legittimità di un intervento a gamba tesa sulla libertà statutaria, va ricordato che in quasi tutti i paesi le cooperative di credito sono una componente importante dei sistema bancario e in particolare di quello più vicino alle esigenze del territorio. Ci sono ovviamente molti esempi negativi, non solo in Italia, in cui il voto capitario serve a costruire roccaforti inattaccabili per il management o i loro danti causa, ma anche casi – come il Regno Unito – in cui si è dovuto costatare che le grandi building societies che a partire dagli anni Ottanta abbandonarono la forma cooperativa si sono lanciate nelle operazioni più spericolate, fino a crollare miseramente al primo stormire della crisi. Northern Rock è solo l’esempio più clamoroso ma non l’unico.

Il punto debole della corporate governance delle banche popolari è l’uso eccessivo e disinvolto del voto capitario, non il voto capitario in sé. Banche che hanno raggiunto dimensioni ragguardevoli e che hanno nell’azionariato investitori istituzionali anche internazionali non possono limitare le deleghe a numeri micragnosi e soprattutto devono raccoglierle in forma trasparente. Senza dimenticare le popolari non quotate (ma con azioni scambiate sistematicamente) che alimentano mercati assai poco trasparenti delle azioni proprie. Sono questi i nodi fondamentali che la categoria ha eluso per troppo tempo e che a questo punto possono giustificare un intervento dall’alto.

Ma perché tanta fretta da scegliere una soluzione così radicale, per di più con lo strumento del decreto? Stando alle dichiarazioni ufficiali, perché in questo modo si favorirebbero aggregazioni che appaiono indispensabili e perché si creerebbero le condizioni per riaprire i rubinetti del credito, che continua a scarseggiare, soprattutto per le piccole e medie imprese. Al mercato naturalmente le aggregazioni piacciono, perché provocano aumenti nel breve periodo dei prezzi azionari e infatti la borsa ha reagito positivamente, ma non diversamente da quanto ha fatto di fronte ad ogni operazione di fusione, comprese quelle che hanno dato frutti velenosi: se non vogliamo scomodare l’Antonveneta, basta pensare all’acquisizione di Abn Amro da parte di Royal Bank of Scotland, salvata solo grazie al pesante salasso del contribuente britannico. La storia delle fusioni insegna che nell’attività bancaria le economie di scala sono assai difficili da conseguire e che al crescere delle dimensioni i costi unitari non scendono necessariamente. Ogni fusione nasce con il suo corredo di promesse di “sinergie”, certificate da ponderosi studi di banchieri di investimento e consulenti vari, tutti profumatamente remunerati, ma il numero delle delusioni è vicino a quello dei successi.

E ancora: abbiamo “troppi banchieri” come dice il Presidente del consiglio? A parte che pare difficile credere che l’eccesso stia tutto nei vertici delle grandi popolari, il problema – in Europa più che in Italia – è quasi l’opposto. Come ha certificato un recente studio della massima autorità di vigilanza (European Systemic Risk Board) il sistema bancario europeo è troppo grande rispetto all’conomia reale (334 per cento del pil, cioè il doppio degli Stati Uniti), soprattutto perché sono cresciute a dismisura le maggiori banche, che si sono alla fine dimostrate troppo grandi non solo per fallire, ma anche per essere gestite correttamente. Insomma: prima di lanciare la grande corsa alle fusioni nelle fasce dimensionali medio-grandi, bisogna almeno pensarci due volte.

Infine, non è detto che le dimensioni siano la soluzione al nodo del credit crunch. La paralisi del credito ha infatti origini strutturali, tanto che assume particolare gravità in tutti i paesi della periferia d’Europa. E comunque, in Italia, proprio la categoria delle popolari è quella che negli ultimi anni ha ampliato il credito in essere. La Banca d’Italia ha invitato più volte le banche popolari (a cominciare dalle grandi quotate) a risolvere i problemi derivanti dalla rigida applicazione del modello cooperativo, puntando su due criteri fondamentali: l’autodisciplina e i meccanismi di mercato. La riottosità della categoria giustifica l’abbandono del primo criterio, ma il secondo, cioè il rispetto del mercato, rimane sacrosanto.

Cambio insostenibile con l’Europa ferma

Cambio insostenibile con l’Europa ferma

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Non sempre i tappi che saltano fanno allegria. L’improvvisa decisione della Banca centrale svizzera di abolire il tetto al cambio con l’euro ha provocato un terremoto sui mercati e suscita pesanti interrogativi sulla capacità della politica monetaria di influire sui livelli dei cambi nelle condizioni odierne dei mercati finanziari.

Vi erano molte ragioni di buon senso alla base della decisione, nell’agosto 2011, di evitare un eccessivo apprezzamento del franco svizzero, da sempre considerato bene-rifugio per eccellenza. Eliminando la probabilità di un guadagno in conto capitale sul cambio a breve e mantenendo bassi i tassi di interesse interni (addirittura introducendo tassi negativi nel dicembre scorso), si sperava di porre un freno a movimenti di capitale considerati – non senza ragione – destabilizzanti. L’eterogenesi dei fini ha portato la Bns ad acquistare grandi quantità di titoli in euro, riducendo le pressioni sul mercato dei titoli pubblici dei Paesi periferici e togliendo quindi le castagne dal fuoco alla Bce il cui quantitative easing era ancora in attesa del via libera.

Ma sia la mancata ripresa europea e soprattutto la crisi russa rendevano sempre più difficile difendere un tasso di cambio insostenibile rispetto ai movimenti potenziali di capitali. Le crisi degli anni Novanta hanno insegnato che nessuna banca centrale può contrastare flussi che assumono sempre dimensioni multiple rispetto alle riserve che essa può mettere in campo. È stato così per i Paesi del Sud-Est asiatico, quando il flusso di capitali si è improvvisamente invertito; è stato così per Messico e Argentina che avevano ancorato la loro moneta al dollaro. E non può che essere così nelle condizioni odierne, visto che la dimensione complessiva dei movimenti a breve è cresciuta enormemente e il mercato dei cambi, secondo gli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali, attiva ogni giorno scambi per 5mila miliardi di dollari, pari a circa un terzo del Pil mondiale, ovviamente annuale (erano 3,3 nel 2007, cioè prima della crisi). E poiché fra il 5 e il 6 per cento di questa frenetica attività di trading riguarda il franco svizzero, l’impegno della Bns a non sforare il tetto del cambio euro-franco non era più credibile.

La Banca centrale svizzera ha colto i mercati di sorpresa, ma proprio la decisione clamorosa mette a nudo le criticità della strategia di stabilizzazione adottata nel 2011. In primo luogo, perché ha inferto un duro colpo alla credibilità della stessa banca centrale, visto che solo un mese fa essa aveva baldanzosamente dichiarato che il tetto sarebbe stato difeso «con la massima determinazione». Poi, perché ha confermato ex post la strategia di investire sul franco svizzero come bene-rifugio: chi ha investito negli ultimi tre anni mette a segno da ieri guadagni in conto capitale di tutto rispetto. Infine perché sacrifica pesantemente gli interessi dell’economia svizzera ai problemi del cambio. Non a caso, la Borsa ha segnato pesanti perdite, soprattutto per le imprese più orientate all’export: i mercati europei rappresentano infatti metà del commercio estero svizzero. Niente male come bilancio.

La lezione più generale che deriva dai fatti di ieri è che l’economia mondiale e in particolare la finanza non hanno ancora trovato il modo per affrontare gli aspetti macroeconomici della globalizzazione e dei movimenti internazionali di capitali. Alla base dei problemi della Svizzera (prima con l’introduzione del tetto, poi con la sua improvvisa abolizione) sta il potenziale destabilizzante dei movimenti di capitale a breve in un mondo interconnesso, ma con politiche monetarie non coordinate fra loro per effetto degli inevitabili sfasamenti dei cicli.

I global financial imbalances, cioè la polarizzazione del mondo fra Paesi in permanente surplus di parte corrente (Cina e Germania in testa) e quindi esportatori di capitali e Paesi che si trovano nella condizione opposta (Stati Uniti e alcuni Paesi della periferia dell’eurozona) sono stati una delle cause fondamentali della crisi e da allora si sono ridimensionati, ma non in modo decisivo e continuano ad essere il primo alimento di flussi di capitale a breve troppo grandi rispetto alla capacità di contrasto di autorità nazionali. E ovviamente lo sfasamento ciclico amplia i differenziali dei tassi d’interesse e l’intensità dei flussi di capitale.

Il Fondo monetario internazionale ha documentato in un recente rapporto triennale il problema della fragilità del sistema finanziario internazionale e della trasmissione dei problemi da un Paese all’altro. È sempre il problema che si ponevano i padri fondatori del nuovo ordine monetario di Bretton Woods, che diede origine appunto all’Fmi, oltre che alla Banca mondiale. Come ha affermato Paul Krugman, commentando quel rapporto, si ripropone oggi il problema di assegnare al Fondo un ruolo almeno di sorveglianza e di monitoraggio sugli squilibri macroeconomici di ciascun Paese, che danno origine alla trasmissione di spinte destabilizzanti verso l’esterno. Una funzione di vigilanza preventiva, per così dire, basata solo sulla moral suasion nei confronti dei singoli Paesi. Ma fra l’enunciazione di questo principio, che pure non contrasta con lo statuto del Fondo (alla fine, dice Krugman, il Fondo è nato per fare il pompiere delle crisi e prevenire è meglio che curare) e la sua applicazione c’è un oceano intero di difficoltà politiche. E così le cause profonde della crisi non vengono affrontate e le banche centrali sono costrette ad andare avanti in ordine sparso, correndo tutti i rischi del caso come si è visto ieri a Zurigo.

La terapia di Francoforte non basta senza riforme

La terapia di Francoforte non basta senza riforme

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Anche se ha deciso di mantenere invariati i tassi di interesse, il Consiglio direttivo della Bce di ieri può segnare una svolta importante. In primo luogo, perché fa piazza pulita delle voci secondo cui la leadership di Mario Draghi si era indebolita, perché alcuni (di cui è facile indovinare il passaporto) non condividevano sue recenti posizioni sui rischi di deflazione che l’Europa sta correndo. Nella conferenza stampa (e nel testo scritto, si badi) Draghi ha detto due cose fondamentali: che la Bce riporterà la dimensione del proprio bilancio ai livelli dell’inizio 2012 e che il Consiglio direttivo è unanimemente disposto a prendere in considerazione ulteriori interventi «se necessario».

Sul primo versante, questo significa un’espansione rispetto alle dimensioni attuali di circa 1000 miliardi di euro, quindi un’ulteriore iniezione di liquidità particolarmente significativa e che può sembrare inadeguata solo a chi ritiene che lo spettro della deflazione possa essere scongiurato solo con terapie monetarie, purché non si guardi alle dosi. Un’interpretazione che, guarda caso, fa piacere ai mercati che possono sperare in ulteriori giri di una giostra che ha già raggiunto in molti settori livelli di guardia.

Non meno importante è il messaggio contenuto nel riferimento ad ulteriori possibili misure, da realizzare «se necessario». È un chiaro segnale che a Francoforte si è ben lungi dal ritenere di aver già utilizzato tutte le munizioni possibili. I problemi caso mai scaturiscono dal riferimento al mandato della Bce, che continua ad essere la vera camicia di Nesso della nostra banca centrale e non a caso è l’ostacolo principale ad una politica di quantitative easing pura e semplice. Tempi eccezionali richiedono invece soluzioni eccezionali, come dimostra la recente decisione della Bank of Japan di acquistare Etf su azioni giapponesi, facendo cadere così un ulteriore tabù dell’ortodossia della cosiddetta arte del banchiere centrale. Ma la fantasia tecnica a Francoforte non manca, come si è abbondantemente dimostrato dal culmine della crisi europea ad oggi.

Del resto, lo stesso Draghi in un recente discorso ha esplicitamente detto che la Bce «è pronta a modificare la dimensione e la composizione dei nostri interventi non convenzionali». Ciò significa che il riferimento di Draghi all’ulteriore allentamento della politica monetaria «se necessario» può segnare una svolta non meno importante di quando, con parole assai simili, egli annunciò che la Bce era pronta a fare «tutto il necessario» per salvare l’euro. I mercati ormai sanno che se la Bce annuncia misure indispensabili, poi mantiene le promesse.

Il vero problema, come la Bce non si stanca di ripetere, sono le misure di riforma e di rilancio dell’economia, che spettano ai governi e non alle banche centrali e che sono l’altro grande pilastro insieme alla politica monetaria della lotta alla recessione. Non a caso in un recente intervento tenuto alla Brookings Institution di Washington, Mario Draghi ha rievocato le posizioni di Roosevelt e Keynes nel pieno della Grande Depressione e ha affermato che il problema fondamentale è far aumentare il prodotto potenziale dei Paesi europei, caduto ai minimi storici e che nessuna politica monetaria può da sola risollevare, perché il problema dell’Europa è strutturale, non ciclico.

Oggi il prodotto potenziale dell’Europa nel suo insieme e di ciascun paese, Italia in testa, è troppo basso per assorbire la disoccupazione e per rendere sostenibile gli eccessi di debito accumulati in passato, nel settore pubblico e in quello privato. Nel nostro caso, il problema non è confinato (si fa per dire) al primo. Ormai, larghi strati di imprese, soprattutto di piccole e medie dimensioni, fanno fatica a fronteggiare con gli attuali livelli di redditività il debito accumulato negli anni, come continua a ripetere il Fondo monetario internazionale e come dimostra l’emorragia di crediti bancari di dubbia esigibilità.

Sempre a Washington Mario Draghi ha ammonito contro il rischio di un allentamento della guardia sugli impegni di bilancio dei singoli Paesi europei, che potrebbe far ripartire le tensioni del 2011. Ma ha anche detto che esistono spazi per politiche più espansive: i Paesi in regola dovrebbero usare gli spazi disponibili nel bilancio pubblico (e si spera che il messaggio non si sia perso nel tortuoso cammino fra Francoforte e Berlino) mentre quelli sotto osservazione dovrebbero tagliare parallelamente tasse e spese non produttive.

E non basta, perché Draghi ha aggiunto che i governi europei non hanno bisogno che si ricordi loro quali riforme si devono fare, perché lo sanno benissimo. In realtà, un brillante esempio di litote, cioè della figura retorica con cui si afferma qualcosa negandolo. E infatti, si fa riferimento a un altro recente intervento di un membro del Comitato direttivo della Bce, in cui si elencano puntigliosamente le riforme necessarie per aumentare la produttività e dunque il prodotto potenziale. Che non riguardano solo il mercato del lavoro, come forse qualcuno crede, ma spaziano in molti campi che vanno dagli strumenti per la ristrutturazione del debito delle imprese, alla loro ricapitalizzazione, all’aumento della concorrenza nei settori protetti.

Insomma, se occorre una terapia d’urto, questa non riguarda tanto la moneta quanto le condizioni che incidono sulla produttività delle imprese. Misure analoghe nell’intensità, certo non nel dettaglio tecnico, a quelle prese negli anni Trenta. Ma forse il problema è che dovremmo avere, non solo in Europa, più governanti che abbiano la statura politica di Franklin D. Roosevelt.

Ora il bazooka è nelle riforme

Ora il bazooka è nelle riforme

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Il programma di acquisti di titoli privati, al centro delle decisioni di ieri della Bce, dovrebbe dare un ulteriore contributo alla strategia di politica monetaria contro un quadro deflattivo sempre più preoccupante. Ma non dobbiamo attenderci effetti immediati come dopo il famoso annuncio del luglio 2012 e tanto meno credere che la battaglia contro la Grande Depressione possa essere combattuta e vinta solo dai generali di Francoforte.

Sul primo punto, quello più strettamente attinente alla politica monetaria, Draghi sottolinea da tempo la complessità del quadro macroeconomico generale, caratterizzato dalla necessità di riassorbire gli squilibri strutturali accumulati dall’Europa negli anni precedenti la crisi e che nel 2012 rischiavano di far implodere l’unione monetaria. Allora, impegnandosi a fare «tutto il necessario», Draghi ottenne effetti quasi taumaturgici perché, una volta spezzate le aspettative pessimistiche, i mercati si riportarono velocemente verso condizioni di normalità e i tassi di interesse (spread inclusi) crollarono ai livelli attuali. Ma neppure nella città di San Gennaro si può pensare che dalla crisi deflattiva si possa uscire con una manovra analoga, anche se di proporzioni ancora maggiori.

Questo non deve portare a sottostimare l’impatto delle armi che la Bce sta mettendo in campo. Fin da questo scorcio di 2014, le operazioni a lungo termine finalizzate alla concessione di prestiti (Tltro) saranno affiancate da acquisti di titoli provenienti da securitisation di prestiti alle imprese (Abs) e da covered bonds. Considerati i vincoli tecnici e gli ostacoli politici che la Bce ha dovuto superare (ancora ieri sul Financial Times la vestale dell’ortodossia teutonica, Hans-Werner Sinn, tuonava contro gli acquisti di «titoli tossici») si tratta di un risultato estremamente importante. La Bce di Mario Draghi è riuscita a interpretare un mandato fin troppo restrittivo per adattare ai problemi di oggi il concetto del credito di ultima istanza teorizzato nell’Ottocento da Walter Bagehot e che ha portato sempre le banche centrali ad assumersi rischi provenienti dal settore reale dell’economia. Le operazioni Abs di oggi equivalgono al risconto di cambiali industriali di un tempo.

Ma c’è di più. Via via che la crisi si aggrava, la diagnosi si fa sempre più dettagliata e mostra che il problema non è riconducibile solo al fatto che le banche non concedono prestiti all’economia perché hanno accumulato squilibri profondi e perché non hanno abbastanza liquidità. Se così fosse, sarebbe davvero sufficiente imbottirle di fondi a basso prezzo fino a quando si decideranno a trasmetterle al sistema produttivo. Purtroppo non è così semplice.

Pochi giorni fa, un autorevole membro del direttivo della Bce, Benoît Coeuré, ha detto che esiste un circolo vizioso fatto di bassi investimenti, crescita deludente e credit crunch, che tocca tutti i soggetti. Gli investimenti privati sono crollati dopo la crisi non solo per mancanza di fondi e tanto meno di profitti lordi (i conti finanziari dicono che in Europa da tempo le imprese sono fornitrici nette di fondi al resto dell’economia), mentre per l’Italia i dati Mediobanca confermano che le grandi imprese hanno investito più in finanza che in impianti, e hanno oggi proventi finanziari superiori (e non di poco) al costo dei debiti. E per contro ci sono imprese che hanno accumulato debiti difficilmente sostenibili e che non troveranno certo in altre dosi di debito la soluzione ai loro problemi, tanto più che le loro prospettive di reddito peggiorano di giorno in giorno. In mezzo ci sono le imprese che sono riuscite a mantenere o addirittura a migliorare i livelli di attività e di vendite all’estero: è questa la fascia che, come dimostrano anche ricerche della Banca d’Italia è stata ingiustamente colpita dal credit crunch nei giorni peggiori della crisi. Ma gli ultimi dati e un recente documento del Financial Stability Board sembrano indicare che almeno in linea generale questo problema stia rientrando e che dunque il credit crunch sia oggi da attribuire più al peggioramento del quadro macroeconomico che aggrava i rischi per le banche che ad un’indiscriminata restrizione dell’offerta.

Proprio questo rinvia al secondo grande tema della strategia che la Bce sta ponendo in essere. La manovra monetaria da sola è insufficiente se non affiancata da politiche economiche adeguate e da riforme strutturali che diano nuovamente slancio all’economia e che facciano ripartire i meccanismi bloccati dell’investimento privato e pubblico. E anche nel campo della finanza d’impresa ci sono riforme strutturali urgenti, che non a caso si ritrovano nei documenti della Bce e nel discorso di Coeuré prima citato. Le imprese in Europa ma anche (e soprattutto) in Italia hanno bisogno di più capitale, non solo di più debiti e ciò comporta grandi trasformazioni che devono essere agevolate da politiche adeguate, che vanno da quelle per favorire la crescita dimensionale di un sistema produttivo come quello italiano caratterizzato da imprese troppo piccole rispetto alla globalizzazione di oggi, a quelle per ampliare i flussi di finanziamento alle imprese intermediati dal mercato finanziario, passando per quelle che consentano la ristrutturazione finanziaria (con immissione di capitali propri) delle imprese sane ma finanziariamente fragili.

È questo l’elenco dei “compiti a casa” che l’Europa, con la Bce in testa, attende per completare l’azione della politica monetaria. E qui Draghi non solo ha ricordato che il Patto di stabilità e crescita rimane «l’àncora della fiducia sulla sostenibilità del debito pubblico» (e a qualcuno in molte capitali europee sono fischiate le orecchie) ma ha anche ammonito che in alcuni Paesi il processo di riforma sembra decelerare rispetto agli annunci. E qui il sibilo è diventato boato.

Il «cuneo finanziario» che pesa sull’impresa

Il «cuneo finanziario» che pesa sull’impresa

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Cullati dall’abbondante liquidità, i mercati finanziari internazionali continuano ad essere improntati all’ottimismo e assorbono (anche considerando il calo di ieri sulle Borse europee) le cattive notizie che vengono dai venti di guerra sullo scenario internazionale o da un quadro macroeconomico ancora deludente, soprattutto in Europa. Lunedì l’indice S&P500 ha superato quota 2000, mentre in Europa i tassi dei titoli pubblici si mantengono sui minimi degli ultimi tre anni. Ma questi segnali positivi non devono far dimenticare i molti punti critici che riguardano la finanza delle imprese, soprattutto italiane.

La crisi ha messo a nudo e anzi aggravato i tradizionali punti deboli della struttura finanziaria del nostro mondo produttivo e quindi rischia di mantenere, o addirittura aumentare, il ritardo delle nostre imprese rispetto ad altri Paesi, creando un vero e proprio “cuneo finanziario” che si aggiunge a quello fiscale, già di per sé preoccupante. Guardando ad esempio ai dati della Bce sul costo medio dell’indebitamento delle imprese, si osserva che a luglio le imprese italiane pagavano per il breve termine un tasso superiore a quelle di Francia, Germania e Spagna compreso fra 1,68 e 0,31. Il differenziale per i tassi a lungo termine risulta inferiore, ma siccome il nostro è il Paese in cui è più diffusa l’indicizzazione ad un tasso a breve per i prestiti a medio termine (e anche questo è un problema), il primo spread è quello che conta.

La ricerca economica sugli effetti della crisi sulla finanza delle imprese europee è ormai vasta e ha raggiunto risultati che si possono considerare non controversi. Uno di questi, ribadito nel numero di luglio del Bollettino della Bce è che le nostre piccole e medie imprese, cioè i due terzi del mondo produttivo, rispetto a prima della crisi hanno visto aumentare sia il differenziale rispetto ai tassi delle grandi imprese del Paese (per l’Italia questo spread, fatto pari a 100 il 2006, è circa 150) sia i tassi per i nuovi prestiti alle piccole e medie imprese. Mentre in Germania e Francia questi tassi sono oggi inferiori di circa 1,5 punti rispetto al 2006, l’Italia registra un incremento di quasi mezzo punto.

L’articolo della Bce ci avverte che ci sono motivazioni fondate: un’analisi econometrica dimostra che esiste una correlazione molto stretta fra i punti critici della finanza d’impresa e gli ostacoli ad ottenere credito. Le imprese con alto grado di indebitamento, con alto livello di oneri finanziari e bassi profitti sono quelle penalizzate. E ancora una volta è l’Italia (insieme alla Spagna) che risulta svantaggiata rispetto a Germania e Francia. Basta questo per capire quanto sarebbe sterile, prima ancora che ingiusto, prendersela solo con le banche che negano credito e/o lo fanno pagare troppo caro. Intendiamoci: il credit crunch è stato causato anche da fattori di offerta, cioè da comportamenti riconducibili alle banche. Anche qui esiste ormai un’ampia evidenza, in gran parte merito di ricerche della Banca d’Italia, che dimostra che le banche più deboli, in termini di patrimonio e/o di struttura della raccolta sono quelle che hanno stretto in modo più deciso e indiscriminato i cordoni della borsa. E se si potesse mettere fra questi fattori di debolezza anche i prestiti “di sistema” nazionale o locale, i risultati sarebbero ancora più robusti.

L’azione di vigilanza della Banca d’Italia, ora in collaborazione con la Bce, sta gradatamente risolvendo i problemi delle banche e con la ormai imminente pubblicazione dei dati sulla qualità dell’attivo di bilancio e sulla robustezza patrimoniale in condizioni di stress, le condizioni dovrebbero decisamente migliorare, soprattutto per le banche italiane. Rimane però il problema di mettere finalmente mano ai problemi di fondo della finanza delle imprese. Le tanto attese operazioni della Bce condizionate alla concessione di nuovi prestiti rischiano di essere frenate proprio dalla (comprensibile) riluttanza delle banche a concedere prestiti ad imprese finanziariamente fragili, magari privilegiando investimenti delle imprese di carattere finanziario, meno aleatori ma privi praticamente di effetti dal punto di vista produttivo. Lo stesso vale per le annunciate operazioni di securitisation a favore di piccole e medie imprese che dovrebbero essere utilizzate per accedere alle capaci tasche della Bce, risolvendo i problemi di liquidità delle banche. Un’iniziativa di grande rilievo, ma per la quale imprese finanziariamente fragili rischiano di trovare la porta sbarrata.

In altre parole, bisogna evitare di guardare a Francoforte per risolvere problemi che sono di carattere esclusivamente nazionale. Ammesso che il paese dei balocchi esista, non si trova certo in Germania. È vero che in Italia molte iniziative sono state varate e rafforzate nel corso del tempo dagli ultimi governi: dalle garanzie pubbliche agli strumenti alternativi di finanziamento per piccole e medie imprese. Ma il ritardo da colmare è troppo grande per ritenere che questi passi, pur nella giusta direzione, siano sufficienti a portare l’Italia ad avvicinare gli altri grandi paesi e in particolare la Francia che su questo terreno si è sempre mossa con notevole lungimiranza. Diversamente da altre, questa è una riforma che impegna non solo il governo, ma le parti interessate, cioè banche e imprese. E’ ormai tempo che entrambe capiscano che la competitività internazionale, prima ancora che la ripresa economica, richiede menu finanziari ben più sofisticati del solo credito a breve di cui entrambe si sono finora nutrite.