marco valerio lo prete

Nemmeno Renzi cambia verso al carrozzone municipale (per ora)

Nemmeno Renzi cambia verso al carrozzone municipale (per ora)

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

In origine ci fu un tweet, ovviamente: “#municipalizzate: sfoltire e semplificare da 8.000 a 1.000″. Parola di Matteo Renzi, presidente del Consiglio, nell’aprile 2014, a poche settimane dall’insediamento. Poi in agosto il “programma di razionalizzazione delle partecipate locali” di Carlo Cottarelli, allora commissario governativo alla spesa pubblica: sono 7.726 le società che hanno come azionista – maggioritario o meno – le amministrazioni locali, anche se “non si conosce il numero esatto delle partecipate” (sic!), per un totale di 235 mila dipendenti. Poi di nuovo Renzi che annuncia: “Le ridurremo a un ottavo di quante sono oggi”. Quindi, al rientro dalle ferie estive, la rassicurazione del potente sottosegretario Graziano Delrio: “Il governo affronterà la questione in modo organico nella legge di stabilità”. “Una vergogna inaccettabile”, ha ribadito Renzi all’inizio di dicembre alla Camera sulla scorta del tormentone “Mafia Capitale”.

Adesso però il testo definitivo della legge di stabilità c’è, e le municipalizzate sembrano continuare a godere ancora di ottima salute, che si tratti del prosciuttificio o della società del trasporto pubblico locale. A dire il vero di un “processo di razionalizzazione” del capitalismo municipale, in Finanziaria, si parla. In maniera però poco radicale o rottamatrice, a giudicare dai commi 610 e seguenti del maxiemendamento governativo. “Una novità positiva è il riferimento alla soppressione delle partecipate “inutili”, cioè quelle non indispensabili al perseguimento delle finalità istituzionali, come agenzie di stampa, assicurazioni e farmacie, nel caso specifico in cui siano ‘composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti’ dice al Foglio Serena Sileoni, vicedirettore generale dell’Istituto Bruno Leoni. Per il resto il governo si muove, ma come i gamberi, per tornare indietro. infatti la liquidazione delle partecipate inutili doveva avvenire entro il 31 dicembre 2014, cioè entro pochi giorni. Invece, parlando di una nuova scadenza, il 31 dicembre 2015, di fatto si concede un anno in più di tempo agli enti locali. Una proroga che ricorda quella contenuta nel dicembre 2013 nella Finanziaria del governo Letta.

Nel 2012 il decreto Spending review del governo Monti prevedeva lo scioglimento entro il 31 dicembre 2013 delle società “strumentali”, quelle che lavorano quasi totalmente per l’ente pubblico che le controlla; o la loro alienazione dal 2014. In più c’erano le norme ad hoc per le municipalizzate “inutili”, introdotte addirittura nel 2007 e da allora periodicamente rinviate. Fino al rinvio voluto dal governo di grande coalizione di Enrico Letta, appunto; un esecutivo che in alcune fasi sembrò navigare con l’obiettivo di evitare i dossier più spinosi. Ma perché Renzi, sulle municipalizzate, avanza pure lui a suon di annunci e proroghe? La spiegazione ufficiale – che soprattutto i tecnici del ministero dell’Economia (Mef) offrono agli investitori internazionali – è la seguente: “Non si poteva mettere troppa came al fuoco nella legge di stabilità”. Tuttavia negli ultimi mesi c’e stato un altro ostacolo: Palazzo Chigi sembra preferire che sia il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, a tirare le fila dell’iniziativa riformatrice, incentivando così un continuo palleggio tra i due dicasteri (Mef e Pa). Se Delrio annunciava norme chiare già in legge di stabilità, Madia finora sul tema è intervenuta poche volte in pubblico, dando l’idea di un work (molto) in progress: parlò di “riduzione delle municipalizzate” al punto 36 (su 44) della lettera inviata in aprile a tutti i dipendenti della Pa; poi in una recente intervista al Messaggero ha annunciato un “Testo unico” sulle partecipate in arrivo il prossimo anno.

Nella maggioranza dicono che fino a oggi tra i “frenatori” bisogna annoverare proprio l’ipercinetico Renzi, come dimostra la sorte dell’emendamento Lanzillotta-Chiavaroli (di due partiti della maggioranza, Scelta civica e Ncd) che almeno introduceva sanzioni per gli enti locali che non dismettono le partecipate inutili, emendamento cassato a notte fonda dal governo (cioè dal Pd). Il “partito dei sindaci”, con le sue ramificazioni societarie, ha ancora uninfluenza sull’ex primo cittadino di Firenze; visto che Renzi per mesi non ha escluso elezioni nella primavera 2015, finora ha preferito accarezzare quel partito nel verso giusto. D’adesso in poi si cambia?

Il Fus resiste (o no?)

Il Fus resiste (o no?)

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

Ammesso pure che per le regioni non ci sia la possibilità di “scontare” risorse dai fondi aggiuntivi per la sanità concordati con l’esecutivo, alcuni governatori adesso si mostrano pronti in linea di principio ad accogliere la sfida di Renzi. Il presidente della Toscana, Enrico Rossi, ieri ha annunciato per esempio l’intenzione di “riorganizzare il servizio in tre aziende sanitarie ospedaliere universitarie al posto delle attuali 16. Tuttavia – e questa per certo sarà la seconda linea di difesa rispetto all’esecutivo – anche le riorganizzazioni più drastiche richiedono tempo per generare risparmi. Linea cui si potrebbero opporre alcuni dati pubblicati dalla Corte dei Conti, non esattamente un bastione di turbocapitalisti prevenuti con la Pubblica amministrazione: dal 2003 al 2008, cioè alla vigilia dell’inizio della crisi, la spesa regionale è cresciuta dell’53 per cento all’anno, con una frenata soltanto a partire dal 2009. Poi ci sono vicende patologiche che arrivano ai giorni nostri, e che contraddicono la retorica di chi agita lo spauracchio degli ospedali da chiudere: la stessa Corte dei Conti infatti, nella sua Relazione sulla gestione finanziaria delle regioni, osserva che “spesso i bilanci regionali si giovano delle risorse destinate alla sanità per far fronte ad esigenze di liquidità in altri settori”.

Non a caso alcune regioni tentano timidamente di differenziare la propria posizione rispetto a quella del “Fronte unico spendaccíone”: “Il fronte unico si forma per contrastare la palese irragionevolezza della proposta – dice al Foglio Massimo Garavaglia, assessore all’Economia della Lombardia, già deputato e senatore della Lega nord – Dopodiché al governo, che nella legge di stabilità propone di suddividere i 4 miliardi di tagli in base a popolazione e pil delle diverse regioni, chiediamo piuttosto di applicare i “costi standard”. Garavaglia fa un esempio, diverso da quello più noto della siringa che ha un costo diverso da Asl a Asl: “In Lombardia la spesa pro capite per il personale e di 19,8 euro. Quella della Basilicata è di 97,1 euro. Ridurre la spesa in modo ragionevole vorrebbe dire per esempio portare tutti e due a 18 euro, così da accrescere i risparmi. E non invece concedere con la stessa legge di stabilità 40 milioni di euro, o 1.200 euro pro capite alla sanità del Molise solo perché alla vigilia di un voto locale”. L’esecutivo della regione Lombardia, inoltre, è certo di avere “la giurisprudenza” dalla propria parte: già nel 2013, conclude infatti Garavaglia, la Corte costituzionale si è espressa contro i tagli lineari alle regioni. Procedere con la legge di stabilità di oggi vorrebbe dire dunque andare incontro a un’altra bocciatura, facendo automaticamente mancare le coperture per le misure dell”esecutivo Renzi.

Conquistateci tutti!

Conquistateci tutti!

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

«Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. (…) Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutit i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base nazionale». Tutto vero, solo che con gran dispiacere dello stesso Karl Marx – che questo scriveva nel 1848 – la “presa di coscienza del proletariato” non ha distrutto l’economia di mercato. Resta dunque intatto, a quasi due secoli di distanza, l’effetto trasformativo del capitalismo globalizzato, magistralmente descritto dal filosofo di Treviri, e restano gli annessi sentimenti e le resistenze di stampo “reazionario”. Lo dimostra, periodicamente, l’atteggiamento allarmistico di pezzi dell’establishment e della stampa nazionale di fronte agli investimenti esteri in Italia. Gli emiratini di Etihad mettono sul piatto 1,2 miliardi (tra capitale e investimenti) per resuscitare Alitalia, compagnia di bandiera ridotta prima a carrozzone pubblico e poi di nuovo tramortita dalla gestione privata dei “capitani coraggiosi” col passaporto italiano? Allora ecco che arriva la minaccia di veto della Cgil che non accetta esuberi di sorta (980 su oltre 12mila dipendenti) dettati dal conquistatore straniero. La scorsa settimana Indesit, azienda di elettrodomestici, viene acquistata dalla statunitense Whirlpool? Apriti cielo, ecco pronta da pubblicare la lista dei marchi che “scappano” all’estero. Al punto che il presidente del Consiglio Matteo Renzi, steccando rispetto al coro lagnoso, ha detto al Corriere della Sera: «La considero un’operazione fantastica. Perché non si attraggono gli investimenti e poi si grida “al lupo”, riscoprendo un’autarchica visione del mondo che pensavamo superata».

I “reazionari” però insistono. Perché gli investimenti esteri, escludendo i casi in cui assumono le sembianze della cannibalizzazione utile solo a preservare monopoli altrui, hanno conseguenze perfino più profonde e innovatrici di quelle solitamente messe in conto, cioè Pil e posti di lavoro aggiuntivi. Che pure, in un paese a crescita anemica e col debito pubblico in aumento – ieri è stato raggiunto il record di 2.166,20 miliardi – non sarebbe poca cosa. Gli investitori esteri, in Italia, spesso portano infatti con sé sistemi produttivi più efficienti della media nazionale, modalità di gestione d’azienda che fanno più volentieri ricorso al capitale proprio e generano maggiore redditività, per non dire dello svecchiamento delle relazioni industriali. Capitalismo e concorrenza, dunque, fuori da certi canoni cui una parte del mondo produttivo italiano si è abituata.

«Dell’investimento estero tendiamo a offrire sempre e comunque un’immagine catastrofica – dice al Foglio Giorgio Barba Navaretti, ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Milano, autore per il Mulino di “Fiat Chrysler Automobiles – Così guardiamo con sospetto sia la Fiat che si espande all’estero e diventa Fiat-Chrysler, sia l’italiana Indesit che viene comprata dall’americana Whirpool». Fenomeno curioso che secondo Navaretti è dovuto al fatto che «non abbiamo un’idea chiara di cosa voglia dire “competere” oggi. Diventare globali, infatti, è parte di un processo ormai normale. Piuttosto dovremmo ragionare sul fatto che le nostre aziende, per una struttura di governance che non riesce a trasformarsi da “familiare” a “manageriale”, faticano a espandersi e quindi a emanciparsi per esempio dal solo capitale bancario. Perciò tendiamo ad avere più “prede” che “predatori”».

C’era da attenderselo, in un paese che è al 65° posto su 189 nella classifica mondiale in quanto a facilità di fare impresa. Meglio di noi Spagna (52° posto), Francia (38°) e Germania (21°). Tra inefficienza del sistema giudiziario, fisco laborioso e asfissiante, burocrazia onnipervasiva gli autoctoni barcollano, figurarsi col fardello aggiuntivo della cattiva congiuntura. Gli stranieri, al netto di occasioni troppo ghiotte per rifiutarle, si tengono alla larga: comprano titoli di Stato se Mario Draghi garantisce «whatever it takes», ma poi negli ultimi vent’anni indirizzano nel nostro paese soltanto l’1,6 per cento di tutti gli investimenti esteri realizzati nel mondo, contro il 3,5 per cento della Spagna e il 5,5 per cento della Francia. E noi, quando gli investitori esteri ci sono, come li accogliamo? «Come fossero delle sanguisughe che nel migliore dei casi succhiano il nostro sangue per pagare all’estero meno tasse sugli utili», dice al Foglio l’economista industriale Riccardo Gallo. Idea sbagliata, spiega, perché «i dati raccolti da Mediobanca su un campione rappresentativo delle medie e grandi imprese a controllo estero presenti nel nostro paese dimostrano che queste imprese creano più valore aggiunto delle italiane, hanno nell’insieme una redditività positiva, hanno pagato oltre 40 miliardi di tasse negli ultimi 10 anni e continuano a rischiare più capitale proprio di quanto non facciano le concorrenti italiane. Altro che sanguisughe». E poi «basta con questo senso di avvilimento!» esclama Gallo. «È datata la visione delle multinazionali straniere che si contrappongono alle microimprese italiane. Il processo produttivo è diventato davvero globale. Oggi dunque anche una microimpresa italiana, se primeggia nel suo campo, si può aggiudicare un anello di una lunga catena di montaggio».

Nelle scorse settimane Paolo Ciocca, economista di Bnl-Bnp Paribas, ha pubblicato una ricerca sulle 13.527 imprese a controllo estero residenti al 2011 in Italia (escludendo attività finanziarie e assicurative). Ha scoperto che hanno una dimensione media maggiore di quelle nazionali: 88,6 addetti contro 3,5. Che ogni loro singolo addetto crea il doppio del valore aggiunto rispetto a un addetto di un’azienda tutta italiana, il 20 per cento in più se il confronto si limita alle medio-grandi. Queste imprese poi investono in media il doppio di quelle a controllo italiano, anche in ricerca e sviluppo. Più produttività e più ricerca, nemmeno a dirlo, generano in media una redditività maggiore. Obiettivo perseguito perfino a costo di scuotere la foresta pietrificata delle relazioni industriali. «C’è il caso di Ducati che, una volta acquisita dai tedeschi, ha importato un modello più partecipativo di relazioni coi sindacati, ma anche di maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro – dice al Foglio Paolo Tomassetti, ricercatore di Adapt. E c’è il caso di Fiat che, uscendo dal contratto collettivo nazionale del settore metalmeccanico in occasione della fusione con Chrysler, ha spinto tutto l’indotto ad adeguarsi alle nuove esigenze». Nello svecchiamento delle relazioni industriali di stampo concertativo tra sindacati e Confindustria, dunque, «un effetto emulazione rispetto agli investitori esteri è sicuramente possibile». Difficile stupirsi, in definitiva, se di fronte al borghese col passaporto straniero s’ode solo la lagna dei “reazionari”.