marco zatterin

L’Ue: nel 2015 servono 6 miliardi in più

L’Ue: nel 2015 servono 6 miliardi in più

Marco Zatterin – La Stampa

Nessuna sorpresa, a Palazzo Chigi, quando il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble è arrivato ieri mattina all’Eurogruppo e ha espresso apprezzamento per lo sforzo italiano per le riforme, ricordando fra l’altro che da noi «è passata una riforma rilevante del mercato del lavoro». Era il segnale di distensione atteso sulle rive del Tevere, un gesto maturato nella seconda parte della domenica quando Matteo Renzi e Angela Merkel si sono sentiti in una telefonata di messa punto, resa necessaria dal rimbalzare delle polemiche sull’intervista della cancelliera alla Welt am Sonntag. Risulta che i toni di Berlino siano stati accomodanti, che Frau Merkel abbia ridimensionato la questione, e annunciato che Schaeuble sarebbe arrivato a Bruxelles con un ramoscello d’olivo. Così è stato. Messa giù la cornetta, il premier che le cronache davano in precedenza parecchio irritato, si confessava convinto che l’incidente fosse rientrato e il caso potessi dirsi chiuso.

Le interpretazioni contano parecchio di questi tempi, specie perché economia e assetti politici instabili in tutto il continente alzano il livello di sensibilità dei governi europei. Il clima si riflette bene nei toni delle pagelle delle leggi di Stabilità europee riesaminate dall’Eurogruppo, esercizio in cui i ministri economici dell’Eurozona si sono concessi una dose ricca di cerchiobottismo, originando un comunicato che lascia aperte molte letture. Soprattutto sui paesi rimandati a marzo, Francia, Belgio e Italia. E in particolare su quest’ultima. Il dato politico nostrano è che l’Eurogruppo è d’accordo con il rinvio a marzo del giudizio sulla legge di Stabilità e approva l’«ampia agenda di riforme» del governo Renzi. Quello tecnico è che i ministri di Eurolandia condividono l’analisi secondo cui Roma «rischia di non rispettare il Patto di Stabilità», misurano la differenza fra la correzione dei conti richiesta e quella promessa in 0,4 punti, quindi ricordano che «misure efficaci sarebbero necessarie per un miglioramento dello sforzo strutturale».

Il numero è preciso, la strategia no. «Il divario va colmato – spiega il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem -. Lo si può fare con nuove misure o attraverso la valutazione di quelle già prese, o ancora la Commissione può dire che lo 0,1 è lo 0,2…». Basta il risultato. E allora? Facciamo bene e poi vedremo. Ci sono oltre tre mesi per negoziare. Le parole scritte sono più insidiose di quelle pronunciate dagli alfieri dell’Eurozona. In linea con la Commissione Ue – mossiere nel processo di coordinamento economico e finanziario del semestre europeo -, l’Eurogruppo ammette il rischio di sforamento dell’Italia rispetto agli obiettivi di medio termine e, «mentre riconosce che le sfavorevoli circostanze economiche e l’inflazione molto bassa hanno complicato la riduzione del debito», ribadisce che «l’alto debito rimane una ragione di preoccupazione». E’ qui che si rimarca il «gap» di 0,4 punti di pil (6 miliardi abbondanti) sul deficit strutturale e si auspica efficacia nelle misure. «Nessuna richiesta aggiuntiva: legge di stabilità 2015 attuata in modo efficace rilancerà economia italiana», twitta il ministro Padoan. Il testo, in effetti, non ne parla.

Ciò non toglie che lo stesso Dijsselbloem ricordi che ogni paese a rischio di non rispettare l’europercorso «dovrebbe prendere nel momento opportuno le misure appropriate». Bruxelles attenderà marzo e l’olandese – alla stregua di Pierre Moscovici, commissario per l’Economia e pure Wolfgang Schaeuble – ribadisce che «il tempo a disposizioni deve essere utilizzato per colmare il divario». Risponde il ministro Padoan: «Siamo molto determinati a mettere in pratica il programma come l’approvazione della riforma del lavoro ha dimostrato». Pertanto, aggiunge con riferimento alla polemica innescata con la Merkel, «non condividiamo riserve del genere».

Ai piani alti della Commissione le contese bilaterali paiono un elemento di disturbo, ma nessuno lo dice. Moscovici sembra pensare all’Italia quando afferma che «rispettare le regole è assicurarne la credibilità», ma anche alla Germania con il suo «dobbiamo tenere conto di quello che è possibile fare». E se qualcuno non ci riesce? «Non ci mettiamo in questa logica – risponde il francese -. Noi lavoriamo perché le cose vadano secondo i programmi».

Gli e-book come i videogame: l’Ue boccia l’Iva agevolata

Gli e-book come i videogame: l’Ue boccia l’Iva agevolata

Marco Zatterin – La Stampa

Salvo miracoli, i giochi sono chiusi. Una decina di stati dell’Ue resta convinta che un libro di carta e uno elettronico siano due oggetti diversi che richiedono tassazioni differenti. Il tentativo di cucire il consenso unanime necessario per rivedere la rotta risulta fallito, così da gennaio i volumi tradizionali saranno ancora assoggettabili all’Iva ridotta (4%), mentre sugli e-book graverà l’aliquota normale, che in Italia è del 22%. Brutta storia. Perché i prezzi aumenteranno e un’editoria già in difficoltà avrà nuovi problemi di domanda, provocati da una scelta bizzarra che aiuta molti fra i Ventotto a fare i propri interessi più che quelli dei cittadini.

L’ultima chance poteva essere il Consiglio Cultura del 25 novembre, ma le speranze sono ridotte al lumicino. Questa settimana la riunione del Coreper – il conclave dei rappresentanti dei governi che prepara i lavori dei ministri – è finita con un nulla di fatto. Italia e Francia hanno spinto per convincere i partner che «un libro è un libro, comunque lo si serva». Inutile. Per motivi vari – esigenze nazionali e questioni procedurali – Commissione, britannici, nordici e centroeuropei hanno detto «no» a Roma e Parigi, mentre i tedeschi hanno fatto tattica e non si sono pronunciati. Risultato: la bozza di conclusioni per il Consiglio Cultura con l’«invito» ai titolari di cattedra dell’Ecofin perché equiparino letture digitali e cartacee non è stata accolta.

L’oggetto del contendere è la direttiva 112/2006 con cui gli stati dell’Unione intendono delineare dal primo gennaio 2015 un «sistema comune d’imposta sul valore aggiunto». È un dispositivo che nelle intenzioni armonizza l’Iva in modo da limitare al massimo la concorrenza fiscale. Si vuole evitare che si possa scegliere un bene o un servizio in un paese, piuttosto che in un altro, solo per ragioni fiscali. Vuol dire omologare aliquote e criterio di applicazione. E, nel caso degli acquisti online, applicare la tassa del paese dove si consegna e non quella della sede in cui la transazione viene registrata.

La contesa sui libri nasce dalle nozze del nuovo criterio di fatturazione con l’Iva «ridotta». Il testo in discussione prescrive che possano usufruire della minore tassa la «fornitura di libri, gli album, la musica stampata, le mappe, i giornali, non il materiale pubblicitario». Bene, sin qui. Però colpisce ciò che manca, gli ebook che i giuristi della Commissione considerano prodotti elettronici come i videogame, che sono soggetti all’aliquota ordinaria. Se vanno sul Kindle non sono libri, l’essere dietro uno schermo li snatura. «Come se l’uomo dentro la doccia non fosse più un uomo», scherza una fonte Ue. Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, si batte da sempre per l’equiparazione delle letture, ma non è agevolato dall’essere presidente dell’Ue sino a fine mese, deve per definizione mediare. Con lui sono i francesi che nel 2012 hanno abbassato d’arbitrio l’Iva sugli e-book al 7%, sfidando l’Ue e rischiando la condanna in Corte. Più Olanda, Grecia e Slovenia. L’alleato insolito è il Lussemburgo, in nome delle tasse basse più che per la diffusione della cultura. La ragione è presto spiegata: Amazon fa capo al Granducato; un libro venduto a un residente italiano è attualmente tassato al 3% lussemburghese, ma da gennaio passerà al nostro 22.

Londra ambisce a una zona «no tax» per i servizi finanziari, poi però accetta l’Iva alta sugli ebook, confortata dal mercato «reale» che comunque tira. In settembre la Corte Ue ha deliberato che il doppio binario Iva è legittimo, perché «dipende dalla percezione del consumatore». L’Associazione italiana Editori teme che l’Iva normalizzata geli un mercato digitale che decolla a fatica: era il 3% del totale nel 2013, è salito al 5% nel 2014. Il governo Renzi studia cosa fare, ma non pensa al momento di imitare lo strappo di Parigi. «Si stronca la diffusione di un media che piace ai giovani», fanno notare a Bruxelles, dove ammettono che al Consiglio Cultura una fumata bianca sarà difficile. È una di quelle cose difficili da spiegare ai cittadini, una direttiva che tassa gli ebook al 22% e non la vendita di navi da guerra. Cose che fanno male all’Europa.

La recessione ‘salva’ l’Italia, si allontana l’ipotesi della manovra

La recessione ‘salva’ l’Italia, si allontana l’ipotesi della manovra

Marco Zatterin – La Stampa

C’è la recessione, ma c’era anche di peggio. L’azienda Italia poteva produrre qualche magro decimo di punto di crescita e allora, salvo brusche correzioni di spesa e entrate, avrebbe corso il serissimo rischio di sentirsi chiedere altri «sforzi aggiuntivi» per realizzare gli impegni di bilancio presi coi partner europei. Invece no, il copione ora è un altro. Più fonti notano che due trimestri col Pil in rosso possono essere «fattori mitiganti» nella valutazione della contabilità nazionale e dunque che, qualora si arrivi agli esami autunnali senza le carte in regola, Bruxelles potrebbe fermarsi ai rimbrotti. Così, almeno per la competenza 2014, una manovra correttiva costretta dal rispetto degli eurovincoli potrebbe essere in buona sostanza scongiurata.

Sono sensazioni e non verdetti. Il dibattito sulle correzioni possibili a cui potrebbe essere costretto il governo Renzi ha animato l’estate, coi palazzi romani attenti a smentire l’esigenza di tagli improvvisi o tassazioni impopolari. La stessa Commissione non ha in questa fase un vero potere cogente, si limita a misurare la pressione e poi a dire la sua sulle condizioni di salute del paziente. Ci sono però dei percorsi su cui ci si è accordati nei palazzi a dodici stelle. Tradirli minaccia la credibilità e, allo stesso tempo, può comportare un costo secco se la sfiducia dei mercati si traduce in un più oneroso servizio del debito.

L’Italia corre sull’orlo del crepaccio. Da tempo. Bruxelles ha avuto parole di apprezzamento per il programma di riforme di Matteo Renzi e ne chiede una rapida attuazione. Roma punta molto sugli investimenti e la crescita, e sembra aver allentato sulla flessibilità, consapevole che l’ossigeno ottenibile da questa fonte è minore di quello che si potrà avere dal piano da 300 miliardi che la Commissione Ue ha promesso entro metà febbraio. Il problema è arrivarci senza inciampi. E il nodo centrale è il saldo di bilancio strutturale. La tabella originale prevedeva il raggiungimento del pareggio nel 2014. Roma ha chiesto il 2016, l’Ue le ha concesso il 2015. L’ultimo dato nazionale sul deficit strutturale (senza spesa per interessi e una tantum) è di 0,6% del Pil quest’anno che si scontra con lo 0,8 della stima ufficiale della Commissione (circa 3 miliardi di differenza secondo le previsioni di maggio). Il divario per l’anno prossimo è dello 0,5 (0,2 dicono i nostri; 0,7 afferma Bruxelles), cioè 7,5 miliardi, che salgono a 10 se vuole davvero il pareggio.

Ancora. Il Patto di Stabilità richiede un aggiustamento del debito in eccesso ad un passo di un ventesimo l’anno dal 2016, ma anche che per i paesi in fase di transizione perché usciti dalla procedura di deficit eccessivo (come l’Italia) vi sia un percorso cifra di rientro anche prima. Per il 2014, Bruxelles ha richiesto una correzione di 0,7 punti di Pil contro lo 0,1 promesso dall’Italia (cioè 9 miliardi); per il 2015 siamo a 1,4 contro lo 0,1 suggerito da Roma, son quasi 20 miliardi di divario. «Occhio che sono numeri diventati puramente indicativi», avverte una fonte Ue. Vero. Negli ultimi mesi è saltata ogni previsione, la crescita s’è rivelata più fiacca per tutti, per l’Italia soprattutto, ma anche per la Germania. I calcoli per il Bel Paese sono basati su una ripresina dell’0,6% nel 2014 e un’inflazione allo 0,9, dati di giugno, già irrealistici. Fra un mese ci saranno i nuovi e allora – si spera – maggiore sarà la chiarezza.

Il commissario per l’Economia Katainen (destinato a rimanere capo di fila anche con Juncker, pare) attende le leggi di bilancio il 15 ottobre. A dicembre il nuovo esecutivo avrà un quadro preciso di quanto avviene nelle capitali e di come va la congiuntura. Solo allora capiremo cosa l’Ue pensa dell’Italia, quali sono le distanze e i margini di dialogo. Pochi si aspettano che Roma abbia i conti compatibili con gli impegni. Se così fosse, la recessione potrebbe salvarci da azioni correttive per il deficit strutturale in vista dell’azzeramento, partita che si rigiocherebbe in primavera per il 2015. Se pure il terzo trimestre fosse pure negativo, sarebbe una pessima storia con un aspetto roseo. Ci regalerebbe «un fattore mitigante» utile a salvarci da manovre extra. Una ragione di sollievo parziale, forse. Ma che, dicono a Bruxelles, «non implica in alcun modo che si possa frenare sull’attuazione di riforme che non vanno ritardate se si vuole tornare a crescere e a creare occupazione».