mario draghi

Quelle riforme che non riusciamo mai a fare

Quelle riforme che non riusciamo mai a fare

Stefano Lepri – La Stampa

Le riforme sono ciò che l’Italia deve fare per sottrarsi al declino. Sono quelle necessarie a un Paese che aveva già cominciato a impoverirsi all’inizio dello scorso decennio, prima della grande crisi e molto prima delle regole di bilancio europee ancora ieri difese da Angela Merkel. In più, solo cominciare a farle darà forza alla battaglia per il futuro dell’Europa da condurre nei prossimi mesi.

La nuova Commissione europea, la cui squadra è stata completata ieri, mostra una prevalenza di conservatori (soprattutto nel senso della continuità delle politiche attuali). Allo stesso tempo, la svolta di Mario Draghi il 22 agosto ha aperto una fase nuova. Occorre ascoltarlo sia quando dice che senza riforme nessun altro rimedio funzionerà, sia quando aggiunge che la politica di bilancio europea è nell’insieme troppo austera. In Italia conta più il primo punto. Ad esempio l’incapacità di usare appieno i fondi strutturali europei, ricordataci nell’intervista dal presidente uscente della Commissione José Barroso, non può essere scaricata su capri espiatori di comodo: dipende solo dall’inettitudine dei nostri politici locali a formulare progetti capaci di essere approvati da Bruxelles. Non interessa quel denaro perché non rientra negli schemi nazionali di che cosa occorre fare per conquistarsi il consenso degli elettori. E si badi bene che a risolvere il problema hanno provato in tanti, a cominciare dal governo Ciampi 21 anni fa, maggioranze di ogni colore, ministri anche di grande competenza; metodi assai differenti sono stati sperimentati via via.

In altri casi misure che i governi riescono a prendere vengono bloccate dal pulviscolo dei piccoli poteri interessati a che nulla cambi. La struttura del nostro Stato rende facile a troppe entità il non fare, nel calcolo di ricevere prima qualcosa in cambio. Così la burocrazia intralcia le norme attuative, le amministrazioni locali stentano a conformarvisi. Tagliare il nodo con procedure accelerate è spesso peggiore del male: l’arbitrio crea spazio per maxi-tangenti, come emerge dagli scandali della Protezione Civile o del Mose a Venezia.

Ancora più spesso, corporazioni compatte pretendono influenza sul potere politico a danno dell’insieme degli elettori. L’esempio dei 45 giorni di ferie difesi dai magistrati sembra fatto apposta. Non possiamo fare a meno di riformare la giustizia civile quando esistono di fatto una franchigia per i reati (sotto una certa cifra non vale la pena di affrontare costi e tempi di una causa) e una ampia incertezza del diritto (su troppe minuzie si rischia di essere portati in causa). E se si andrà avanti, più ancora dei giudici protesteranno gli avvocati. L’insieme di corruzione politica, inefficienza burocratica e arroganza delle lobbies accresce a valanga la sfiducia nell’azione collettiva. Dilaga la paura di ogni novità; molta propaganda grillina si fonda sul principio del «meglio non fare perché facendo qualcuno ruba»; si finisce a diffidare della stessa parola «riforme».

O si incide su tutto questo, o l’Italia continuerà a deperire; la nostra economia non sarebbe in grado di rispondere agli stimoli forse nemmeno se i vincoli di bilancio sparissero da un giorno all’altro. Nello stesso tempo, il ristagno collettivo dell’area euro va curato con strumenti nuovi; e questo lo deve capire la Germania. Il rischio non è più di un crack da instabilità finanziaria, come nel 2011. Se si continua cosi, senza ripresa e senza lavoro, l’unione monetaria può invece andare incontro a una crisi tutta politica: basti pensare ai correnti sondaggi di opinione in Francia. Eppure a Berlino per fermare l’ascesa degli anti-euro basterebbe calare le tasse, dato che lì le risorse ci sono.

C’è meno tempo

C’è meno tempo

Davide Giacalone – Libero

È tardi, è tardi”, ammoniva l’agitato coniglio bianco, in Alice nel paese delle meraviglie. Correre, muoversi, avverte il governatore della Banca d’Italia. C’è tempo, risponde il ministro dell’Economia. Intanto Maria Elena Boschi va a Cernobbio e si chiede, divertita, ma si può essere accusati d’andare troppo veloce e troppo piano allo stesso tempo? Non ha torto, infatti è un raggiro. Che ella contribuisce ad alimentare. Qui contano due cose: la direzione e il tempo di marcia. Dire di volere riscrivere lo statuto dei lavoratori per favorire sia la mobilità che la stabilità significa indicare direzioni opposte. Bloccare contratti statali e assumerne 190mila in più, sono direzioni opposte. Volere il merito e premiare le graduatorie sono cose opposte. E veniamo ai tempi, che sono una cosa seria.

Nessuno si faccia illusioni: le iniziative monetarie illustrate da Mario Draghi non aumentano il tempo a disposizione dei governi europei rimasti inerti, ma lo diminuiscono. C’è un colossale equivoco, su questo punto. Forse qualcuno pensa che il gioco funzioni come quando, nel luglio del 2012, il presidente della Banca centrale europea bloccò le speculazioni contro l’euro imbrigliandone il sintomo, ovvero la divaricazione esagerata degli spread. Lì si poteva essere beneficiati e immobili. Ora no. Ora non basta chiedere la grazia a santa Bce. Ora vale il diverso adagio: aiutati che Dio t’aiuta. E fai in fretta.

La riduzione del tasso d’interesse non ha effetti immediati sul sistema produttivo, né quel differenziale nel costo del denaro risulterà decisivo (si tenga presente che con il tasso Bce allo 0,15% i tassi reali, pagati dal sistema produttivo, oscillavano dal 4 al 9%). In quanto all’effetto riduttivo del cambio, avvantaggiandoci sul dollaro, ha effetti sicuramente positivi per le esportazioni, ma queste, importantissime, riguardano solo un pezzo del nostro mercato. Si avvantaggiano di più i tedeschi, se la mettiamo su questo piano. Iniziative come Tltro (rifinanziamento a lungo termine), ora targhettizzato sul sistema produttivo, non portano automaticamente i soldi dalle banche alle imprese. Non sono vasi immediatamente comunicanti. Serve che ci siano imprese intenzionate a chiedere credito per crescere ed espandersi, non solo per salvarsi e galleggiare. Tltro non sfiora i problemi di chi ha chiuso o si è trasferito. O si accinge a farlo. Se le aziende non assumono e licenziano non è solo perché il credito scarseggia, ma anche perché il fisco e la burocrazia abbondano e straripano. Gli stimoli monetari sono utili, ma da soli non producono effetti ragguardevoli. È un po’ come dare il Viagra a un paziente anestetizzato: se ne può anche (forse) propiziare la turgidezza, ma non ne può trarre alcun dinamico utile.

Il bello è che, tanto a Jackson Hole quanto nella conferenza stampa di Francoforte, Draghi lo ha detto e ripetuto chiaro e tondo: provo a fare la mia parte, ma senza riforme che fluidifichino i sistemi produttivi e li adeguino alla realtà della globalizzazione (le riforme definite “strutturali”, con una formula che più la si ripete e meno significa) e senza pulizia dei bilanci pubblici, non servirà a nulla. A questa evidenza dobbiamo aggiungere una postilla: la Bce parla dell’euroarea, giustamente, ma non sta scritto da nessuna parte che si muoverà tutta in modo omogeneo, anzi, sappiamo per certo che è avvenuto e avverrà il contrario. Questo significa che le iniziative Bce porteranno giovamento maggiore a chi si è mosso, minore a chi si muove in ritardo, nessuno a chi resta fermo. Possono anche mettere la stessa camicia, ma mentre il francese Manuel Valls (buttando fuori un ministro dell’economia che diceva di ispirarsi a Matteo Renzi) ha varato tagli per 50 miliardi, qui si cincischia su 20. Se continuiamo a parlare senza costrutto e senza concretezza, se continuiamo a biascicare gnagnere come “riforma degli ammortizzatori sociali” o “premio al merito”, “semplificazione” o “velocizzazione”, senza né dire che cosa significano, nello specifico, cosa comportano e come si ottengono, il solo effetto sarà l’aumento della distanza relativa fra l’Italia e gli europei che hanno capito.

A ciò aggiungete il peso e il costo del debito pubblico e avrete un risultato impressionante. La disputa sui tempi è surreale, se letta con i cronometri delle sceneggiate interne, mentre è decisiva se misurata con quelli delle opportunità da cogliere. La Bce ha prima conquistato e comprato tempo, favorendo anche chi era al volante ma faceva brum-brum con la bocca, ora passa a distribuir carburante, sicché i piloti immaginari resteranno al palo, mentre altri correranno altrove.

Risparmiare è un bene, non può diventare il paracadute della paura

Risparmiare è un bene, non può diventare il paracadute della paura

Daniele Manca – Corriere Economia

L’Italia ha una grande fortuna. Si chiama risparmio. Per Kenneth Rogoff, uno dei maggiori studiosi al mondo di debiti sovrani, che lo raccontava al Corriere lo scorso sabato, è il motivo che rende più sopportabile e gestibile persino l’enorme indebitamento pubblico del Paese. Le famiglie non hanno perso la propensione a mettere da parte e a investire i propri soldi. E quando è accaduto, è stato solo perché la crisi o le tasse glielo hanno imposto. Ma anche in questi difficili momenti, l’atteggiamento non è cambiato.

Secondo Assogestioni nei primi sei mesi di quest’anno ai fondi sono arrivati circa 60 miliardi: la stessa cifra dell’intero 2013. Anche la consueta indagine della Coop sul consumi nota questa aumentata propensione al risparmio (per chi può permetterselo). Il segnale ha sicuramente un aspetto positivo che è quello di continuare a far affluire denaro (soprattutto attraverso una gestione professionale) al sistema economico. L’elemento che impensierisce è che questo risparmio contenga in sé la preoccupazione per il futuro. Che si tratti cioè di denaro accantonato per costituirsi delle riserve per fare fronte o a maggiori tasse o a maggiori spese dovute al cattivo stato dei conti pubblici. In poche parole un paracadute della paura.

Con le mosse e le dichiarazioni di Mario Draghi, presidente della Bce, c’è in Europa chi sta lavorando per rafforzare la ripresa fragile del Vecchio Continente. E allora da che cosa nascono queste preoccupazioni? Si sa che le aspettative di famiglie e imprese giocano un ruolo decisivo nell’andamento di un Paese. Se il quadro politico e incerto, se le riforme delle quali si parla stentano a decollare, se l’attività economica viene continuamente ostacolata e non agevolata, se crescita e sviluppo non sono la prima priorità, è difficile che le aspettative diventino positive.

Un rischioso senso di impotenza

Un rischioso senso di impotenza

Francesco Guerrera – La Stampa

A prima vista, la differenza non si vede. Come sempre, il lago di Como risplende nel sole autunnale, Villa d’Este pullula di potenti italiani e stranieri e i dibattiti vertono su argomenti profondi, seri e ambiziosi («Agenda per cambiare l’Europa»; «Oggi il mondo di domani»; «Un’alternativa per l’Italia» e così via). Ma a ben guardare c’è qualcosa di strano al forum economico Ambrosetti versione 2014. L’élite di politici, economisti e scienziati vede riflessa nelle acque cristalline del lago l’immagine della propria impotenza.

Dai conflitti dell’Est-Europa alle barbare decapitazioni nel Medio Oriente, dall’anemia economica che affligge l’Europa alla riluttanza a investire da parte d’imprenditori e aziende, i più importanti esponenti della politica e della finanza mondiale poco possono. Se ne parla, dei problemi annosi e di quelli più recenti, si cercano di mandare messaggi a Putin, a Draghi, a Renzi; si critica la leadership di Obama e la strategia pappamolla dell’Unione Europea nei confronti della Russia. Ma sembra un copione un po’ stanco. Un dovere più che un desiderio vero di affrontare le sfide enormi che la geopolitica e i mercati stanno ponendo alla classe dirigente del pianeta. «Nell’era del terrore, non ci sono vittorie, solo successi temporanei», ha detto uno dei partecipanti alla platea. Si riferiva al terrorismo che sta sconvolgendo il Medio Oriente, ma è una frase che si addice anche ad altre questioni.

Il simposio della Ambrosetti stava per iniziare giovedì quando la Banca Centrale Europea ha sorpreso i mercati con un nuovo taglio ai tassi d’interesse e l’inizio di una manovra di stimolo enorme. Gli investitori hanno applaudito, gli imprenditori, soprattutto quelli che esportano, si sono preparati a godersi un euro in ribasso e le banche hanno promesso di prestare di più. Ma il «magic moment» non è durato nemmeno ventiquattr’ore. Venerdì mattina, è arrivato Peter Praet, uno dei luogotenenti di Mario Draghi, a stemperare gli entusiasmi. «Le politiche monetarie possono solo comprare del tempo e non risolvere i problemi strutturali delle nostre società», ha spiegato il barbuto belga, che siede nel comitato esecutivo della Bce. Traduzione: noi banchieri centrali abbiamo fatto tutto il possibile e forse di più, se i politici non ci aiutano, la ripresa economica ve la scordate e i miliardi di stimolo staranno buttati al vento. I mercati questo lo sanno e hanno già ripreso il tran-tran di prima del taglio dei tassi. La differenza cruciale con l’America, dove queste dosi da cavallo di stimolo hanno evitato la depressione e rilanciato l’economia, è che l’economia Usa è più flessibile. Lascio ad altri i giudizi politici e morali sui diritti dei lavoratori e i costi della sanità e altri servizi, ma non c’è dubbio che gli Stati Uniti sono un atleta più agile: quando cadono al tappeto si rialzano più velocemente della vecchia Europa. Gli investitori se sono accorti e stanno spingendo le Borse americane da record a record, nonostante i venti di guerra provenienti dall’Est e dal Sud del mondo.

Non è che la mossa di Draghi non avrà effetti positivi: l’euro scenderà aiutando i produttori europei che vogliono vendere all’estero. E anche gli spread sui buoni del Tesoro andranno giù, consentendo a debitori cronici come l’Italia di respirare un pochino. Ma non sono vittorie definitive, solo successi di tappa, traguardi della montagna in una corsa in cui non si sono ancora affrontati né le Alpi, né i Pirenei.

Quando ho chiesto a un imprenditore straniero perché non investisse di più in Italia, ha guardato per un po’ il lago, forse cercando di non offendermi con la sua risposta. «Che le devo dire?» ha sospirato. «Qui ci vogliono mesi per ottenere permessi e il mercato del lavoro è ossificato».

«Però il posto è stupendo», ha aggiunto, quasi scusandosi per le parole sincere e crudeli. Non è il solo. Quando i partecipanti del forum hanno dovuto indicare il loro livello di fiducia nelle sorti economiche dell’Ue, quasi la metà ha risposto «basso» o «molto basso». E’ una statistica preoccupante, soprattutto perché rilevata a meno di due giorni dall’annuncio dello stimolo massiccio della Bce. La realtà è che le fantomatiche «riforme strutturali» – il mercato del lavoro, le pensioni, la sanità, le tasse ecc. ecc. – non le fa o non le vuole fare nessuno. Non i politici, né tantomeno l’elettorato. Forse l’attuale governo italiano sarà un’eccezione, ma per ora quasi tutta l’Europa è afflitta dalla sindrome «nimby», l’acronimo inglese per «Not In My Back Yard»: fate pure qualsiasi riforma, ma non nel mio cortile di casa.

L’impotenza dell’economia fa da contrappunto alla debolezza della politica estera dei blocchi occidentali. Dietro le quinte settecentesche di Villa d’Este il dialogo su l’Ucraina e il terrorismo islamico è stato un misto deprimente di dichiarazioni aggressive e ammicchi al compromesso, con l’Europa e l’America impegnati in un gioco transatlantico di scaricabarile. «Putin non ha niente di cui temere da questi qui», mi ha detto un esperto di politica estera dopo l’ennesimo briefing fine a se stesso. Niente è ancora perduto perché l’economia e la politica offrono spesso un’altra chance, ma sprecare giorni, settimane e mesi non facilita la situazione. I terroristi si sentono più forti, i nemici ai confini osano di più e i cervelli e gli investitori vanno altrove. Forse il problema è l’esistenza del salotto buono, come crede il primo ministro. Oppure il fatto che quelli seduti sui divani si ostinano a passare il tempo tra il futile e il dilettevole.

Chi guadagna e chi perde con la mossa della Bce

Chi guadagna e chi perde con la mossa della Bce

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Mario Draghi ha salvato ancora l’Europa? L’abbassamento dei tassi allo 0,05% e l’annuncio dell’acquisto di covered bond e Abs (titoli cartolarizzati) sono mosse che aumenteranno la liquidità sul mercato e allontaneranno il rischio di deflazione. Ma a quale prezzo? E, soprattutto, la tanto auspicata ripresa economica arriverà veramente? Per rispondere a queste domande bisogna valutare alcune circostanze.

Risorse limitate
Draghi non ha usato il bazooka, ha dovuto accontentarsi di un più modesto mitragliatore. Le pressioni tedesche hanno evitato un intervento monstre che forse sarebbe stato necessario. Secondo i dati Bce di fine giugno, Abs e covered bond dell’Eurosistema ammontano a poco più di 2.100 miliardi di euro. Il centro di ricerca Bruegel stima i titoli effettivamente acquistabili ammonterebbero a circa mille miliardi. Considerando anche i prestiti Tltro alle banche (400 miliardi), l’intervento di Francoforte sarebbe inferiore alla metà di quanto messo in campo dalla Fed americana tra il 2010 e oggi (3.300 miliardi di dollari). Non può non preoccupare, infine, il fatto che Draghi non abbia fornito cifre dettagliate.

Svantaggi per i risparmiatori
Ovviamente, i titolari di un mutuo a tasso variabile stanno ancora festeggiando per la discesa degli interessi. Ma bisogna considerare il rovescio della medaglia: se qualcuno guadagna, c’è anche qualcuno che perde. In questo caso, sono i risparmiatori che non solo si vedranno offerti tassi minori sui depositi, ma troveranno meno convenienti le offerte del mercato obbligazionario quando i bond che hanno ora in portafoglio andranno a scadenza perché i rendimenti saranno meno vantaggiosi. I maggiori guadagni andranno agli Stati centrali che offriranno le nuove emissioni (come Bot e Btp in rampa di lancio) a tassi meno costosi. Idem per le aziende che approfitteranno della strenna per emettere obbligazioni. È proprio questo il succo delle critiche arrivate ancora ieri da Berlino a «SuperMario» sia dal rigoroso Handelsblatt («Draghi fuori controllo») che dalla Frakfürter Allgemeine («La lampada di Aladino»). La paura tedesca non è solo quella di dover pagare per i Paesi meno virtuosi, ma di dover pure subire i contraccolpi dell’abbassamento dei tassi.

Rischio-stagnazione
I principali studi economici realizzati sulle recenti manovre espansive di politica monetaria (Usa, Giappone, Gran Bretagna) hanno evidenziato come la crescita economica non abbia particolarmente beneficiato dello stimolo. Negli Usa è stato «salvato» il mercato immobiliare dalla bolla dei subprime , il Giappone è uscito, momentaneamente, dalla spirale deflazionistica e solo la Gran Bretagna ha visto aumentare considerevolmente il Pil rispetto al trend potenziale (solo il 10% del prodotto interno lordo viene dall’industria). Insomma, non c’è nessuna garanzia che l’aiutino della Bce si trasferisca direttamente al tessuto industriale.

La tagliola del fiscal compact
L’avvio del piano di Draghi, inoltre, non comporta certo la sospensione del fiscal compact . Passata l’euforia, gli aggiustamenti dei bilanci pubblici da realizzare torneranno a far paura. Anzi, la situazione potrebbe in un certo senso peggiorare se il calo dei rendimenti (e la minore spesa per interessi) costituisse per il governo italiano un alibi per non intervenire sulla spesa pubblica improduttiva. Gli spazi di manovra per Renzi & C. continueranno a essere limitati.

Ma più di così sarà difficile

Ma più di così sarà difficile

Danilo Taino – Corriere della Sera

Ieri sera, un importante banchiere svizzero diceva che Matteo Renzi è un ragazzo fortunato. Le misure di politica monetaria annunciate da Mario Draghi, in effetti, sono il massimo che ci si potesse aspettare: anzi, vanno al di là delle aspettative della gran parte degli economisti. Attraverso misure convenzionali e non convenzionali – cioè ordinarie e straordinarie – e anche dividendosi al proprio interno, la Banca centrale europea ha ridotto al minimo possibile i tassi d’interesse; si prepara a comprare debiti degli operatori economici (raccolti in pacchetti) per liberarne i bilanci e spingerli a chiedere credito; fornirà denaro alle banche a costi che più bassi non potranno mai essere in modo che li prestino a imprese e famiglie. È lo stimolo monetario più poderoso che i Paesi dell’Eurozona abbiano mai avuto: quel Quantitative Easing (allentamento monetario) teso a spingere la crescita, a creare inflazione e a indebolire il cambio dell’euro.

Renzi è un ragazzo fortunato nel senso che nessun presidente del Consiglio ha mai avuto un aiuto del genere dalla Bce. Questo però significa che non potrà chiedere più nulla a Draghi: il governatore è arrivato al limite estremo (salvo un difficile, eventuale programma di acquisto di titoli di Stato) a cui poteva arrivare. D’ora in poi, tutto è nelle mani dei governi. E, anche da questo punto di vista, Draghi è stato esplicito nel chiarire il suo pensiero su cosa occorre fare, pensiero in una certa misura distorto dalle letture che del suo discorso al seminario dei banchieri di Jackson Hole (Wyoming), a fine agosto, avevano dato alcuni media (ad esempio il Financial Times ) e alcuni leader europei (ad esempio il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble).

Il governatore ieri ha chiarito ancora una volta che dei tre strumenti per rafforzare la crescita – politica monetaria, politica di bilancio, riforme strutturali finalizzate a liberare l’offerta – «il primo e prioritario» è quello delle riforme strutturali. Senza un’economia efficiente, ogni stimolo finisce nella sabbia. In più, ha precisato di non avere mai messo in discussione il Patto di stabilità europeo, che anzi ritiene «l’àncora per la fiducia» economica. Le flessibilità di cui ha parlato – ha detto – sono interne al Patto, non ne devono «danneggiare l’essenza» e, affermazione non secondaria, ha spiegato che nella politica di bilancio il taglio delle tasse stimola (sempre mantenendo i conti in ordine) l’economia più di quanto non faccia l’aumento della spesa pubblica. «Il punto chiave – ha ribadito – sono le riforme strutturali», che devono essere «ambiziose, importanti e forti». Inoltre, ha voluto fare un’aggiunta che va inevitabilmente letta come indirizzata all’Italia: dal momento che le basse aspettative sul futuro e sulle prospettive dell’economia limitano le possibilità di ripresa, sarebbe bene recuperare la fiducia con «prima una discussione molto seria sulle riforme strutturali e dopo sulla flessibilità».

Draghi e la Bce hanno dunque preso tutte le decisioni di politica monetaria possibili. Ora, le scelte cadono sui governi nazionali. In Italia, significa che Renzi e il governo devono realizzare riforme economiche vere e serie; almeno una, ad esempio quella del mercato del lavoro, in fretta, prima del vertice europeo sulla crescita del 7 ottobre. Non può essere come nella canzone di Jovanotti, dove al «ragazzo fortunato» di dieci cose fatte (o dette) ne è «riuscita mezza».

Un buon inizio, ma il fisco rovina tutto

Un buon inizio, ma il fisco rovina tutto

Francesco Forte – Il Giornale

Il programma che Draghi ha lanciato, operativo dal 3 ottobre, è massiccio, ricco di opportunità e sfide, per combattere la deflazione oramai diffusa in tutta Europa prima che diventi endemica e quindi difficile da sradicare e da rimpiazzare con una normale crescita. Ci sono tre misure inattese che servono a espandere il credito e ad abbassare l’euro (che già ha perso un punto col dollaro). C’è un ribasso del tasso di interesse sui prestiti ordinari alle banche, al livello di 0,05, che è soprattutto simbolico, perché indica la possibilità di una mossa successiva, di tasso negativo su prestiti Bce.

Ci sono poi due misure non convenzionali rivolte direttamente agli operatori economici, cioè imprese e famiglie. Una è l’acquisto da parte della Bce di prestiti obbligazionari coperti da ipoteca o garanzia di primo grado (covered bond), tra cui rientrano i mutui ipotecari immobiliari e le obbligazioni garantite da Stati con rating di A. L’altra è l’acquisto da parte di Bce di crediti di imprese garantiti da garanzie reali e da credibili fatture verso la clientela e le pubbliche amministrazioni (asset backed securities). In futuro Draghi potrebbe varare operazioni non convenzionali rivolte alle banche con prestiti assistiti da loro crediti costituiti da obbligazioni bancarie e titoli pubblici. Non ha fatto ciò ora un po’ per riservarsi questo «colpo di pistola fumante» e un po’ per l’opposizione intema al suo comitato esecutivo. Le misure sono state approvate a maggioranza, non all’unanimità perché la Bundesbank non le gradisce. Forse anche altri avrebbero storto la bocca se ci fossero stati prestiti alle banche con garanzie di titoli del debito pubblico di Stati come il nostro (la Spagna ora ha fatto la riforma del mercato del lavoro e le case tedesche ora assemblano le auto in Spagna).

Renzi ha ricevuto una grossa opportunità da Draghi, perché i prestiti alle imprese e alle famiglie garantiti seriamente possono ricevere prezioso denaro fresco dalla Bce, saltando l’intermediazione bancaria. Ma perché i cavalli (le imprese) e le cavalle (le famiglie) possano fruire adeguatamente di queste opportunita ci vogliono due condizioni: bisogna disporre di regolamentazioni snelle per consentire agli intermediari finanziari di far affluire questi crediti alla Bce; e le famiglie devono essere convinte che convenga investire in immobili (prima casa, ma anche altre) e quindi che le imposte su ciò siano moderate e non siano aumentate all’insegna della «caccia alla rendita», che mette paura. Inoltre occorre che le imprese non siano oberate di imposte e possano disporre di un mercato del lavoro doppiamente flessibile, mediante contratti aziendali orientati al merito e alla produttività e mediante l’impiego anche di addetti a tempo determinato, part time e partite Iva, essenziali nelle economie basate sui servizi (commercio, artigianato e turismo) e su industria e agricoltura, in cui il made inItaly si nutre di servizi specializzati, ma anche nelle pubbliche amministrazioni. Secondo la Banca mondiale in Italia la pressione fiscale sulle imprese è ora il 65,8%: un record mondiale. Seconda la Francia con il 64,7 e terza la Cina con il 63,7. A grande o grandissima distanza la Spagna con il 58,6, la Germania con il 49,4, gli Usa col 46,3, il Regno Unito col 34%. Il cavallo e la cavalla vogliono bere alla fonte di Draghi, ma dirigismi, giustizialismi e fiscalismi populisti mal impostati come l’Irap o gli 80 euro finanziati dalle imposte sugli immobili, impediscono loro di bere.

Il programma Draghi potrebbe servirci a vivacchiare: ci aiuta per gli effetti sul cambio, che in ogni caso faciliteranno l’export verso aree dollaro, yuan e yen e verso i Paesi euro che riusciranno a utilizzare bene le misure della Bce. Inoltre i prezzi aumenteranno un po’ e il nostro Pil aumenterà in moneta, così si ridurrà il rapporto debito/Pil e aumenterà il gettito Iva. Ma noi dobbiamo crescere un po’ di più di 0,5 punti l’anno, per migliorare l’economia, ridurre il debito e la disoccupazione. Non possiamo vivacchiare al traino degli altri. Renzi non sprechi questa occasione, che – comunque – ci aiuterà ma non durerà mille giorni. Nella favola della volpe e del cigno, dall’anfora riuscì a bere il cigno, non la volpe, furba ma con il muso corto.

Ultima chiamata

Ultima chiamata

Paolo Giacomin – La Nazione

Fedele alla linea del fare «tutto ciò che occorra» per salvare l’euro, Mario Draghi ha sostanzialmente dato un po’ di liquidità al mercato tagliando i tassi al minimo storico e un po’ di sostegno (teorico) alla crescita annunciando l’acquisto dalle banche di pacchetti di crediti deteriorati contratti da famiglie e imprese. Solo un mezzo colpo di bazooka, dice la pattuglia di quanti aspettavano un’ondata di quattrini dall’elicottero in stile Fed di cui la Bce ha solo discusso per rinviare qualunque decisione a data imprecisato. Un colpo di bazooka ben assestato, invece, guardando la reazione dei mercati: Borse in festa e spread in picchiata, da un lato. Euro in decisa discesa sul dollaro a beneficio dell’export e a danno del costo del petrolio e dell’energia.

Draghi poteva fare di piu? No, ha fatto tutto quello che poteva: un colpo anche più duro di quello atteso e al costo di una rottura – ammessa esplicitamente – del board della banca centrale con i tedeschi della Bundesbank e non solo, schierati molto probabilmente contro sia al taglio dei tassi sia all’acquisto dei crediti. Sono gli stessi banchieri che Draghi dovrebbe convincere che è cosa buona e giusta inondare di soldi il vecchio continente a uso e consumo degli stati spreconi e in barba ai trattati. Missione impossibile, o quasi.

Insomma, Draghi ha fatto molto. Difficilmente potrà dare di più e, al dunque, tocca ai governi mettersi al passo necessario per uscire dalla crisi: è l’ultima chiamata per le riforme perché, ha rimarcato lo stesso presidente della Bce, ciascuno deve fare il proprio mestiere: all’Eurotower oneri e onori della politica monetaria per togliere l’eurozona dai rischi di deflazione e dalle sacche della recessione. Ai governi spetta la responsabilità di riforme tanto note quanto rinviate e sempre più inevitabili perché, e non ci sono dubbi di interpretazione, non esiste crescita senza riforme. Alla politica spettano le scelte che possano cambiare verso all’Europa e, di conseguenza, alle regole di ingaggio e consentire alla Bce di alzarsi in volo con l’elicottero degli euro. Aspettarsi qualcosa di diverso è come sperare che cada la manna dal cielo. Ma quello fu un miracolo, non cosa di questo mondo.

Draghi batte un colpo. Era ora

Draghi batte un colpo. Era ora

Gaetano Pedullà – La Notizia

Finalmente la Banca centrale europea si è mossa. Niente a che vedere con le vagonate di doping monetario di Stati Uniti e Giappone, ma perlomeno qualcosa si muove. L’azione che conta non è ovviamente il taglio dei tassi al minimo storico, da 0,15 a 0,05%. Se in banca i soldi non te li danno, è irrilevante che il tasso sia un po’ più alto o un po’ più basso. Tra interessi e commissioni, tra l’altro, il costo del denaro resta distantissimo dai livelli fissati a Francoforte.

Ci sono invece due importanti novità. La prima è che la Bce acquisterà nel tempo crediti cartolarizzati di famiglie e imprese (anche del settore real estate) per 500 miliardi. Si libereranno così altrettante risorse che le banche potrebbero (ma lo faranno davvero?) reinvestire in nuovi crediti all’economia reale. La seconda novità è che la Germania come al solito ha tentato di impedire queste misure, ma la stragrande maggioranza dei banchieri centrali dei singoli paesi Ue questa volta ha messo Berlino in minoranza. Un esito che lascia sperare.

Non solo perché l’effetto delle misure di ieri ha fatto scendere il valore dell’euro rispetto al dollaro, aiutando così le imprese manifatturiere e l’export, ma anche perché lo spread ha continuato a scendere fino al suo livello più corretto (in Italia 138 punti il differenziale tra i nostri Btp e i Bund tedeschi) e si è aperto un qualche spiraglio per dare respiro a Stati ridotti alla fame. Il caso italiano qui è esemplare. Per la prima volta nella storia della Repubblica, dall’esercito alla polizia ai vigili del fuoco vogliono tutti scioperare. Hanno stipendi da fame. E davvero nessun torto.

La T-ltro e i benefici (limitati) per le pmi

La T-ltro e i benefici (limitati) per le pmi

Maximilian Cellino – Il Sole 24 Ore

Un nuovo taglio dei tassi, l’avvio di un piano di riacquisti di Abs o il tanto agognato quantitative easing in salsa europea. Il toto-Bce impazza fra operatori e analisti in vista dell’appuntamento di domani a Francoforte, con il concreto rischio che il mercato si sia forse spinto troppo in là con l’immaginazione nelle ultime settimane. Qualcosa di certo pero l’Eurotower lo ha già sulla rampa di lancio: il nuovo piano di finanziamenti a lungo termine finalizzato alla concessione di credito (T-Ltro), che prenderà il via con l’ormai prossima asta del 18 settembre e che avrà una seconda puntata a dicembre.

Da qui a fine anno sul piatto ci sono 400 miliardi, che le banche europee dovrebbero girare alle imprese e che potrebbero diventare anche mille, secondo quanto ipotizzato dallo stesso Mario Draghi, da qui al 2016 se il piano dovesse funzionare. Il punto in questione, in sostanza, è proprio questo: quanti fondi chiederanno gli istituti di credito? E soprattutto, riuscirà questo denaro a raggiungere materialmente le aziende in difficoltà per il credit crunch?

Sul primo aspetto, un recente studio di Barclays ha stimato in quasi 270 miliardi le richieste che potranno pervenire nelle prime due operazioni T-Ltro, con una preferenza per l’appuntamento di dicembre in modo da gestire in modo migliore la concomitante scadenza delle Ltro varate ormai anni fa: una cifra questa che riscuote consenso anche fra le altre banche d’affari, così come l’ipotesi che a farsi avanti siano soprattutto gli istituti della «periferia» europea, italiani e spagnoli in testa.

Obiettivamente più complicato è capire se effettivamente questa liquidità (che poi è nuova soltanto in parte, perche va a rimpiazzare raccolta già esistente, Ltro in primis) prenderà la strada dell’economia reale e servirà davvero ad aiutare migliaia di piccole imprese in affanno. Qui i dubbi sono più che legittimi, se si pensa all’utilizzo che è stato fatto degli oltre mille miliardi ottenuti attraverso le più volte citate Ltro e anche ai risultati (scarsi per ora) raggiunti dal «funding for lending» della Banca d’Inghilterra, il piano che più si avvicina ai finanziamenti vincolati che la Bce si prepara a erogare.

Alcuni sondaggi condotti nelle ultime settimane da Morgan Stanley mostra che un certo scetticismo aleggia anche fra le banche stesse, e non soltanto per la debolezza della domanda di prestiti (che spiegherebbe, secondo gli analisti, per 2/3 la contrazione del credito). C’è infatti il pericolo che quel denaro sia riutilizzato essenzialmente per rifinanziare aziende con il merito di credito più elevato (tipicamente, le più grandi) ignorando invece le Pmi che poi sono il vero obiettivo del piano.

La stessa Morgan Stanley si spinge però a stimare una possibile riduzione del costo del finanziamento per una piccola o media impresa spagnola compreso fra 30 e 80 punti base (cioè 30-80 centesimi), mentre in Italia l’impatto sarebbe più limitato (20-40 centesimi) perché la redditività inferiore delle banche di casa nostra tenderebbe di fatto a limitare il trasferimento dei benefici alla clientela. L’intervento Bce andrebbe in sostanza nella direzione giusta, servirebbe cioè a ridurre la frammentazione esistente sui mercati del credito nell’Eurozona. Non riuscirebbe tuttavia a colmare il divario esistente. Perché se è vero che in base ai dati pubblicati dalle Banche nazionali un’azienda italiana ha ottenuto a giugno un nuovo finanziamento a un tasso medio del 3,09% e una spagnola al 3,48%, è innegabile che le francesi e le tedesche paghino ancora molto meno (rispettivamente il 1,23% e 11,93%). E per i prestiti di importo inferiore al milione (3,96%) e quelli sotto i 250mila euro (4,54%), sicuramente più indicativi per le Pmi, il solco è addirittura più netto.

Per le aziende italiane qualche risparmio però ci sarebbe: ipotizzando una dinamica dei prestiti simile a quella recente (dal luglio 2013 al giugno 2014 in Italia sono stati erogati nuovi finanziamenti per quasi 385 miliardi) le T-Ltro targate Bce potrebbero comportare una minor spesa complessiva in termini di interessi compresa fra 770 milioni e 1,54 miliardi di euro. Benefici che sarebbero ovviamente più limitati sul complesso dei prestiti inferiore al milione di euro (477 milioni) e ai 250mila euro (264 milioni): non sarà forse la panacea che molti si auguravano dalle T-Ltro, ma si tratta pur sempre di un passo avanti.