massimo blasoni

Le retribuzioni in Italia: in Lombardia un laureato guadagna oltre 17€ lordi all’ora, oltre 5€ in più rispetto a chi ha la licenza elementare. La retribuzione femminile rimane inferiore a quella maschile in tutta Italia.

La formazione universitaria e post-universitaria ripaga nel mondo del lavoro. Lo conferma uno studio condotto dal Centro Studi ImpresaLavoro, dell’imprenditore Massimo Blasoni, che, rielaborando le statistiche ISTAT sulle retribuzioni medie nelle regioni italiane, ha rilevato che lo stipendio lordo orario è nettamente superiore per chi ha completato un percorso universitario e post-universitario.

Il delta retributivo orario per i laureati rispetto ai non laureati varia notevolmente nel nostro Paese, da un minimo medio di 1,15 €/ora della Basilicata, fino a 5,33 €/ora della Lombardia.

Questo fenomeno è più significativo nelle regioni del Nord rispetto alle regioni del Sud e delle Isole dove le differenze degli stipendi sono inferiori.

Regioni italiane: retribuzione lorda oraria per titolo di studio

Dalla ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro su rielaborazione di dati ISTAT emerge che le tre regioni a pagare di più i dipendenti che possiedono solo la licenza di scuole elementare, sono la Provincia Autonoma di Bolzano (12,87 €/h), la Lombardia (11,67 €/h) e l’Emila Romagna (11,59 €/h).

Secondo la media nazionale, completare una formazione universitaria o post-universitaria significa migliorare la propria retribuzione di 2,42 €/h rispetto a chi possiede solo il diploma elementare e di 1,75 €/h rispetto a chi si è fermato alle scuole superiori.

La situazione, però, è molto eterogenea nelle varie regioni italiane. A registrare un maggior divario retributivo fra lavoratori senza titolo di studio e lavoratori con una formazione universitaria e post-universitaria sono la Lombardia, con un incremento di 5,33 €/h; la Provincia Autonoma di Bolzano, con 4,49 €/h e il Lazio, con 4,87 €/h. Differentemente, il delta retributivo orario per i laureati rispetto ai non laureati si colloca al di sotto dei 2 €/h in Basilicata (1,15 €/h), Molise (1,54 €/h), Marche (1,61 €/h) e Sardegna (1,65 €/h).

Si evince dalla ricerca (vedi i confronti riportati nella tabella sottostante) che il mercato del lavoro delle regioni del Nord apprezza maggiormente chi consegue titoli di studio più avanzati.

Uniche eccezioni rilevanti sono il Lazio e la Campania che, in netta controtendenza alle altre regioni del Centro e del Sud, hanno un mercato del lavoro che valorizza nettamente chi possiede titoli di studio più alti.

Titolo di studiolicenza di scuola elementare e mediadiplomalaurea e post-laureatotaledifferenza tra ” licenza di scuola elementare e media” e “diploma”differenza tra “diploma” e “laurea e post laurea”differenza tra ” licenza di scuola elementare e media” e “laurea e post laurea”
Territorio        
Italia 11,1111,9514,5711,700,842,623,46
    Piemonte 11,5612,5915,4712,251,032,883,91
    Valle d’Aosta / Vallée d’Aoste 11,1711,8513,2311,490,681,382,06
    Liguria 11,1612,1514,8011,870,992,653,64
    Lombardia 11,6713,0117,0012,601,343,995,33
    Provincia Autonoma Bolzano / Bozen 12,8714,4417,3613,411,572,924,49
    Provincia Autonoma Trento 11,2312,2813,9011,841,051,622,67
    Veneto 11,4712,3314,0711,950,861,742,60
    Friuli-Venezia Giulia 11,3212,2414,3111,920,922,072,99
    Emilia-Romagna 11,5912,5314,6012,170,942,073,01
    Toscana 11,2311,9514,0511,630,722,102,82
    Umbria 10,9611,3912,5511,310,431,161,59
    Marche 11,0511,4812,6611,340,431,181,61
    Lazio 10,7311,7515,6011,681,023,854,87
    Abruzzo 10,8311,2612,5811,160,431,321,75
    Molise 10,6411,1212,1811,010,481,061,54
    Campania 10,2110,7312,6610,590,521,932,45
    Puglia 10,2410,6712,1310,540,431,461,89
    Basilicata 10,9111,0912,0611,030,180,971,15
    Calabria 10,0710,5211,7810,420,451,261,71
    Sicilia 10,6010,9212,4810,860,321,561,88
    Sardegna 10,6311,1112,2810,960,481,171,65
       
       

Rielaborazione ImpresaLavoro su base dati ISTAT

Regioni italiane: retribuzione lorda oraria per genere

Un tema caldo degli ultimi anni è la differenza retributiva, a parità di titolo di studio e ruolo, fra uomini e donne.

A livello nazionale gli uomini guadagnano 0,87 €/h in più rispetto alle colleghe dell’altro sesso. In tutte le regioni italiane gli uomini guadagnano di più rispetto alle donne, ma con alcune differenze: le aree in cui questo fenomeno è più accentuato sono la Provincia Autonoma di Bolzano (con un delta di 1,23 €/h), la Liguria (1,22 €/h) e il Friuli-Venezia Giulia (1,21 €/h). Il divario è più sottile, invece, in Sardegna (0,45 €/h), in Calabria (0,47 €/h) e in Lazio (0,57 €/h) e in generale in tutte le regioni del Centro-Sud del Paese.

Sessomaschifemminetotaledelta per regione
Territorio     
Italia 12,0411,2711,700,77
    Piemonte 12,7911,6512,251,14
    Valle d’Aosta / Vallée d’Aoste 12,0810,9911,491,09
    Liguria 12,4611,2411,871,22
    Lombardia 12,9712,0412,600,93
    Provincia Autonoma Bolzano / Bozen 14,0412,8113,411,23
    Provincia Autonoma Trento 12,4611,2911,841,17
    Veneto 12,4811,3511,951,13
    Friuli-Venezia Giulia 12,5011,2911,921,21
    Emilia-Romagna 12,6811,6412,171,04
    Toscana 11,9911,2411,630,75
    Umbria 11,6510,8711,310,78
    Marche 11,6211,0311,340,59
    Lazio 11,9011,3311,680,57
    Abruzzo 11,5610,6311,160,93
    Molise 11,3610,5111,010,85
    Campania 10,8010,2110,590,59
    Puglia 10,8210,1210,540,70
    Basilicata 11,4710,2811,031,19
    Calabria 10,6010,1310,420,47
    Sicilia 11,0510,4710,860,58
    Sardegna 11,1510,7010,960,45
 

Rielaborazione ImpresaLavoro su base dati ISTAT

«Studiare è, tutto sommato, un buon affare» – dichiara Massimo Blasoni, Presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – «lo testimoniano i dati della ricerca svolta. Resta però rilevante nel Paese il tema della programmazione: non si trovano infermieri, medici, e tante altre professioni, mentre per alcuni profili il numero di laureati rimane troppo alto».

Centro Studi Impresa e Lavoro: “nel 2020 il 44% degli italiani ha acquistato online”

Centro Studi Impresa e Lavoro: “nel 2020 il 44% degli italiani ha acquistato online”

In Italia nel 2020 il 44% dei cittadini ha effettuato acquisti online di almeno un bene o servizio, a differenza del 2018 la cui percentuale di acquisti online era del 36%. Il nostro Paese si colloca così al quint’ultimo posto di questa particolare classifica europea, appena al di sotto del Portogallo (35%) e al di sopra di Romania (38%), Serbia (38%), Macedonia del Nord (34%) e Bulgaria (31%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro dell’imprenditore Massimo Blasoni, realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat

In Italia i consumatori più attivi online risultano essere di età compresa tra i 25 e i 34 anni (il 62% ha acquistato beni o servizi online) e i giovanissimi di età compresa tra i 16 e i 24 anni (59%). Col progredire dell’età aumentano invece in proporzione la diffidenza e il digital divide, tanto che a comprare online sono stati soltanto il 31% dei cittadini di età tra i 55 e i 64 anni (in aumento rispetto al 22% del 2018), il 15% dei cittadini di età tra i 65 e i 74 anni (+10% rispetto al 2018) e solamente il 3% degli over75 (+2%).

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat

Analizzando le scelte di questi consumatori negli ultimi 3 mesi del 2020, si osserva come resti bassissima la frequenza degli acquisti, quasi sempre uno o due acquisti a testa, solo il 9% ne ha effettuati da 3 a 5.

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat

I beni più acquistati online dagli italiani sono stati vestiti e articoli sportivi (23%), film e musica (15%), viaggi e alloggi per vacanza (11%), attrezzatura elettronica (11%), articoli casalinghi (10%), cibo e generi alimentari (10%), libri e riviste (9%), biglietti per eventi (4%), servizi di telecomunicazioni (3%). Curiosamente, solo il 2% ha deciso di affidarsi alla Rete per l’acquisto di software per computer. Secondo una rielaborazione del Centro studi ImpresaLavoro, il 67% degli italiani ha acquistato online da siti esteri, principalmente tramite Amazon per il 94%, su eBay per il 52% e su Zalando per il 44%.

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat

Negli ultimi tre mesi del 2020 nelle regioni italiane si è riscontrata una maggiore propensione al Nord d’Italia per l’utilizzo dell’e-commerce. Lombardia e Trentino-Alto Adige al primo posto con 44.4%, seguiti da Valle d’Aosta (43.5%), Veneto (43.2%), Emilia-Romagna (42.7%), Friuli-Venezia Giulia (41.5%), e Piemonte (40.6%). In fondo alla classifica si trova la Puglia con 31.4%, seguita dalla Sicilia (27.4%), Campania (26.1%), e Calabria (24%).

La previdenza integrativa salverà le pensioni

La previdenza integrativa salverà le pensioni

di Massimo Blasoni

Il superamento della Riforma Fornero è stato forse l’unico punto in comune tra i programmi elettorali della Lega e del Movimento 5 Stelle. Si tratta di un obiettivo non facile ma necessario: la stessa Ocse ci ricorda infatti che – tenuto conto del coefficiente di trasformazione legato all’aspettativa di vita media – un giovane italiano che inizi oggi a lavorare potrà andare in pensione solo dopo i 71 anni e a condizione che in tutto il suo percorso professionale non si siano registrati vuoti contributivi. La difficile sostenibilità del nostro sistema previdenziale è dovuta al basso tasso di occupazione: la percentuale di lavoratori sul totale degli italiani tra i 15 e i 64 anni è infatti di appena il 58%, dieci punti sotto la media europea e addirittura venti rispetto al dato tedesco. Anche a non voler considerare la spesa assistenziale, tra contributi versati e pensioni erogate dobbiamo così far fronte ogni anno a uno sbilancio di oltre 21 miliardi. L’incidenza della spesa pensionistica sul nostro Prodotto Interno Lordo è nel frattempo salita al 16,5% (la più alta in Europa, dopo quella della Grecia) mentre Germania e il Regno Unito non vanno oltre l’11%.

I motivi dell’elevata spesa pensionistica sono noti. Si è elargito troppo allegramente in passato quando, con il metodo retributivo, l’assegno percepito non era proporzionale all’ammontare dei contributi versati. Di qui un debito implicito – quello che lo Stato deve per le future pensioni – ben più gravoso del già pesante debito pubblico. Resta da capire quali possono essere le soluzioni, dal momento che la Consulta non ha ammesso l’ipotesi di un ricalcolo retroattivo, sulla base del metodo contributivo, degli assegni più alti.

In questo contesto non restano che due ambiti in cui poter agire. Il primo e più rilevante è quello della crescita: solo incentivando l’occupazione (e dunque l’ammontare dei versamenti contributivi) si può ridurre il disavanzo annuale del nostro sistema e attenuare le rigidità imposte dalla Riforma Fornero. Per ottenere questo risultato sono però necessarie liberalizzazioni, privatizzazioni e una forte riduzione del perimetro di attività dello Stato. L’altro ambito è invece quello dell’incremento della previdenza integrativa gestita direttamente dai cittadini: deve infatti maturare la consapevolezza che non è frutto di un ordine necessario che i denari delle nostre pensioni vengano totalmente e obbligatoriamente gestiti (male) dallo Stato. A ben vedere, dunque, le soluzioni non sono due ma soltanto una: quella liberale. Si tratta di applicarla.

Molto meglio aumentare i super ammortamenti

Molto meglio aumentare i super ammortamenti

di Massimo Blasoni – Italia Oggi

Ridurre le tasse è ormai il mantra del programma elettorale di ogni partito. Un obiettivo ovviamente lodevole, quantunque non sempre siano esplicitamente evidenziate le coperture per la sua attuazione. Di più, se la ripresa del Paese non può che essere conseguenza dello sviluppo delle nostre aziende va condiviso l’obiettivo di agire innanzitutto sulle imprese. Negli Stati Uniti ad esempio Trump ha ridotto dal 35% al 21% la corporate tax e meglio ancora si è fatto nel Regno Unito dove da aprile 2017 si è abbassata l’imposta sul reddito d’impresa al 19%. Occorre però chiedersi se l’obiettivo di ridurre imposte e gabelle sulle imprese si possa conseguire anche indirettamente e promuovendo ancor più crescita e investimenti. Diciamolo semplicemente, ridurre l’Ires incrementando gli utili d’impresa non ha come conseguenza necessaria che quelle risorse vengano poi reinvestite in azienda o con altri acquisti. Non è improbabile che nel clima attuale, ancora di incertezza, la destinazione di parte rilevante di quegli importi potrebbe essere il risparmio. Quest’ultimo è virtuoso ma di certo non genera sviluppo. Secondo Banca d’Italia ci sono mille miliardi parcheggiati sui conti correnti degli italiani. Forse sarebbe meglio incrementare i super ammortamenti per gli investimenti fatti in azienda, allargando lo spettro di quelli attualmente ammessi.
La misura, parte del programma Industria 4.0, sta ottenendo importanti risultati ma potrebbe essere resa molto più vantaggiosa. Se si aumentano gli ammortamenti si riduce l’imposizione fiscale ma questo beneficio si ottiene solo a patto di investire con conseguenti sviluppo e innovazione. Un’ultima considerazione. L’edilizia in Italia è il comparto che più ha sofferto la crisi economica con una contrazione del 32% della produzione dal 2010 ad oggi. Consentire il super ammortamento anche degli investimenti in questo settore -quindi sull’acquisto di immobili- rappresenterebbe un eccezionale volano. Meno tasse sì, ma anche più investimenti.

La serenità dei negozi dipende dalle vendite e non dalle chiusure festive

La serenità dei negozi dipende dalle vendite e non dalle chiusure festive

di Massimo Blasoni – Libero

La liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali, introdotta da uno dei decreti Bersani del 1998, è un elemento di modernità che va difeso e ulteriormente ampliato. Ce lo impone il buon senso, vista la perdurante crisi nel settore della vendita al dettaglio che ha registrato in ogni città il sensibile aumento del numero dei negozi sfitti e delle serrande abbassate. Luigi Di Maio ha invece recentemente proposto di dimezzare per legge i giorni festivi nei quali questi possono restare aperti. Vorrebbe in tal modo consentire il riposo alle famiglie dei loro proprietari e dipendenti («Negozi chiusi durante le feste, famiglie più felici»), senza rendersi conto che la loro serenità dipende innanzitutto dal reddito che riescono a portare a casa. Il leader 5 Stelle si fa purtroppo interprete di un Paese bloccato, ricurvo sul proprio ombelico, con un’economia in declino mentre il resto del mondo ha da tempo ripreso a correre. E pensare che per la Costituzione siamo una Repubblica fondata sul lavoro! Lasciamo al libero mercato stabilire l’opportunità o meno di alzare la serranda, senza perniciosi dirigismi. D’altronde chi percepisce uno stipendio pubblico e garantito non comprende appieno le esigenze di chi conduce un’impresa privata, esposta per definizione al rischio di chiusura. Di Maio tralascia poi di considerare che durante le feste lavorano abitualmente quasi cinque milioni di lavoratori dipendenti e autonomi: vorrebbe lasciar riposare anche tutti quanti sono impiegati ad esempio nei settori del trasporto, della ristorazione, dell’informazione, dell’entertainment, della sicurezza e dell’assistenza sanitaria?

Che peraltro l’Italia non sia un Paese a misura di consumatori lo certifica la Commissione europea nel suo “Quadro di valutazione dei mercati al consumo”. Il responso che ci consegna è desolante: «Rispetto alla media comunitaria le performance di tutti i componenti dell’indice di fiducia sono negativi». Se poi scorriamo la classifica europea che questa ha stilato seguendo l’indice Mpi (uno speciale indicatore di fiducia del consumatore, loro aspettative, la varietà e la possibilità di scelta) scopriamo che l’Italia si colloca al quintultimo posto per percezione di efficienza dei mercati di consumo. A questo si aggiunga che Istat certifica come lo scorso ottobre le vendite al dettaglio siano diminuite del 2,1% in valore e del 2,9% in volume rispetto allo stesso mese del 2016.

Ecco perché, per risollevare il commercio e reggere la concorrenza h24 dei giganti del web (Amazon in primis), una componente essenziale di una strategia vincente deve essere quella di favorire al massimo l’ingresso dei consumatori nei negozi, proprio quando hanno più tempo libero a disposizione. Apriamoci al mercato ed evitiamo di continuare a farci la festa. Non ce lo possiamo permettere.

L’Italia è il Paese oppresso dal peggior sistema fiscale e burocratico

L’Italia è il Paese oppresso dal peggior sistema fiscale e burocratico

di Vittorio Pezzuto – Italia Oggi

Siamo un Paese oppresso dal peggior sistema fiscale e burocratico delle 29 economie europee: lo dimostra l’Indice della Libertà Fiscale, monitoraggio comparato realizzato per il terzo anno consecutivo dal Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati Eurostat e Doing Business (Banca Mondiale). Muovendo da sette diversi indicatori – ognuno dei quali analizza un aspetto specifico della questione fiscale – è stato infatti ottenuto un risultato che suona come un’ennesima bocciatura per l’Italia, dal momento che anche quest’anno si colloca con appena 40 punti all’ultimo posto nella classifica finale (guidata nell’ordine da Irlanda, Estonia e Svizzera).

Il nostro Paese registra cattive performance nelle specifiche graduatorie relative al numero delle procedure (Svezia prima, Italia 24esima) e al numero delle ore (Estonia prima, Italia 23esima) necessarie a pagare le tasse, al Total Tax Rate sulle imprese (Lussemburgo primo, Italia 20esima), al costo in termini di personale impiegato per le procedure burocratiche sostenute per essere in regola con il fisco (Estonia prima, Italia 28esima), alla pressione fiscale in rapporto al Prodotto Interno Lordo (Irlanda prima, Italia 23esima), alla differenza della pressione fiscale in rapporto al PIL maturata dal 2000 al 2015 (Irlanda prima, Italia 25esima) e infine alla pressione fiscale sulle famiglie, intesa come la percentuale di tasse sul reddito familiare lordo che paga un nucleo tipo di due genitori che lavorano con due figli a carico (Estonia prima, Italia 25esima).

Per elaborare queste classifiche i ricercatori di ImpresaLavoro hanno di volta in volta attribuito il punteggio massimo al Paese con la migliore performance, riservando poi alle altre economie un punteggio secondo il meccanismo della proporzionalità inversa: più un Paese si allontana dal miglior competitor e meno punti riceve. In tal modo la somma dei singoli indicatori restituisce, per ogni economia esaminata, il tasso di libertà fiscale elaborato su base 100. Più alto è il valore ottenuto da uno Stato (più vicino a 100), più i suoi cittadini sono liberi dal punto di vista fiscale. Il ranking che ne deriva divide così le economie europee in quattro macro aree: Paesi fiscalmente molto liberi (oltre 70 punti su 100), Paesi fiscalmente liberi (tra 60 e 69 punti), Paesi fiscalmente non del tutto liberi (tra 50 e 59 punti) e Paesi fiscalmente oppressi (sotto i 50 punti).

«L’ultimo posto dell’Italia nell’Indice della Libertà fiscale – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – fotografa un’Italia prigioniera delle tasse, ostile agli investimenti e allo sviluppo delle imprese. Il peso delle imposte su Pil è passato dal 18% del periodo postbellico al 24% degli anni ’70 fino all’attuale e insostenibile 43%. Paghiamo una pletora infinita di tasse e di tasse sulle tasse perché, dopo aver subito il prelievo sul nostro reddito da lavoro, quando compriamo casa o depositiamo i nostri risparmi veniamo sottoposti a ulteriori gabelle. Negli ultimi cinque anni le tasse sul risparmio e sugli immobili sono cresciute rispettivamente di 8 e 10 miliardi, mentre l’elevatissimo cuneo fiscale resta un enorme macigno alla ripresa dell’occupazione. Pagare le tasse è anche laborioso e rappresenta un onere ulteriore per le imprese. Siamo infatti tra i Paesi con il maggior numero di adempimenti fiscali e il tempo richiesto da questo eccesso di burocrazia è un ulteriore onere per il già vessato sistema delle imprese. Occorre ridurre il perimetro dello Stato, dunque la spesa improduttiva, e costruire un Paese fiscalmente meno vessato e più enterpreneur-friendly, pena il vanificarsi della già debole ripresa».

Per stare in piedi l’Inps dovrà vendere gli immobili

Per stare in piedi l’Inps dovrà vendere gli immobili

di Massimo Blasoni – La Verità

Ogni anno le casse pubbliche devono ripianare in deficit e ricorrendo alle tasse la differenza di circa 88 miliardi tra i contributi versati dai lavoratori e gli assegni previdenziali effettivamente erogati, inclusa la spesa assistenziale. A sostenerlo non sono dei profeti di sventura mossi da animosità politica ma il “Rapporto sull’invecchiamento” pubblicato recentemente dalla Commissione europea e debitamente sottoscritto dal nostro Ministero dell’Economia. Non si riesce quindi a comprendere sulla base di quale ragionamento lo stesso ministro Padoan e diversi altri esponenti di governo abbiano voluto a più riprese rassicurarci sostenendo che «il sistema è in equilibrio». Non lo è affatto, e rischia semmai di divenire in breve tempo letteralmente insostenibile per le tasche degli italiani.

A salvarci dal baratro non servirà nemmeno la rigorosa applicazione del severo lascito dal governo Monti: quel meccanismo di innalzamento progressivo dell’età pensionabile, legato all’aspettativa di vita media della popolazione, che alla lunga rischia di produrre effetti perversi. Per essere sostenibile finanziariamente, la riforma Fornero si fondava infatti su due presupposti che purtroppo non si sono finora verificati: una crescita costante del nostro Pil di almeno l’1,5% all’anno e un significativo aumento del tasso di occupazione (cioè del numero degli italiani concretamente al lavoro) che da molti anni ristagna attorno a un misero 58%, dieci punti sotto la media europea.

A tutto questo si aggiunga una gestione certo non brillante dell’INPS, con i suoi bilanci in profondo rosso anche perché appesantiti da oltre 100 miliardi di contributi non riscossi (una situazione paragonabile ai non performing loans che hanno messo in crisi le nostre banche). Forse sarebbe possibile la dismissione di almeno una parte degli immobili di proprietà dell’ente, valutati più di 3 miliardi e acquistati in anni in cui le scelte erano fondamentalmente politiche. Le alienazioni non si fanno però sia a causa dell’asfittico mercato immobiliare sia perché molti di quei 25mila immobili sono stati locati a fitti sin troppo vantaggiosi.

A pagare il conto salatissimo di questa situazione saranno i soggetti meno tutelati dalla politica e dai sindacati: quei giovani che già adesso devono accollarsi il prezzo del sistema retributivo applicato in passato in maniera troppo generosa. Tra lavori discontinui (e quindi versamenti contributivi intermittenti) e ritardato ingresso nel mondo del lavoro i neoassunti finiranno per dover lavorare ben oltre i 70 anni.

Una considerazione conclusiva: non è frutto di un ordine necessario che debba essere lo Stato a gestire i nostri contributi obbligatori. Sarebbe forse preferibile che ci fosse data la possibilità di decidere liberamente dove investirli, optando tra soggetti pubblici e privati in concorrenza tra loro. Passare da un sistema a ripartizione a uno a capitalizzazione rappresenta un passaggio complesso ma a ben vedere non impossibile.

«Basta tasse sulle tasse, l’unica via per crescere è meno spesa pubblica»

«Basta tasse sulle tasse, l’unica via per crescere è meno spesa pubblica»

di Diana Alfieri – Il Giornale

Massimo Blasoni è il presidente del Centro studi di ispirazione liberale ImpresaLavoro ma soprattutto un imprenditore di prima generazione con 2.000 dipendenti che costruisce e gestisce residenze sanitarie per anziani. Le tasse in Italia sono veramente così alte?

«Le basti sapere che negli anni ’70 tasse e imposte rappresentavano il 24% del Pil nazionale, oggi superano il 43%. Nello stesso periodo negli Usa il rapporto è rimasto sostanzialmente inalterato: dal 23,5% al 26,4%. È evidente che con la logica del “tassa e spendi” nel nostro Paese il perimetro di attività dello Stato si è troppo accresciuto. L’Indice delle Libertà Fiscali ci relega all’ultima posizione in Europa, non solo per il carico fiscale ma anche per l’astrusità del sistema e il numero di adempimenti necessari. Negli ultimi cinque anni oltre alle imposte sul nostro reddito sono cresciute le tasse sulle tasse, cioè quelle che paghiamo ad esempio sulla casa ed il risparmio: il prelievo sulle nostre abitazioni è aumentato di 10,6 miliardi, nonostante il taglio della Tasi sulla prima casa».

Un vero salasso che colpisce anche il risparmio…

«Sì perché tra imposte sostitutive sui guadagni, imposte di bollo su depositi e strumenti finanziari e tobin tax nello stesso periodo anche il prelievo sul risparmio è cresciuto di 8,2 miliardi. Siamo vessati da mille gabelle, da quelle sul lusso alle accise, nonché dalle imposte istituite di fatto. Cosa che ad esempio fanno i Comuni quando, visti i tagli agli enti locali, aumentano le rette degli asili piuttosto che le tariffe delle mense scolastiche».

Tasse e burocrazia sono un problema anche per le imprese però…

«È noto che il total tax rate sulle imprese italiane è tra i più alti d’Europa eppure noi ci balocchiamo mentre Trump sta mettendo in atto una rilevante riduzione delle aliquote, dall’attuale 35% al 20% , e nel Regno Unito la corporation tax è già scesa al 19% da aprile. È vero che in Italia c’è stata una timida riduzione dell’Ires ma è stata compensata da altre imposte e l’eccessivo carico complessivo obiettivamente frena lo sviluppo. Ridurre le tasse alle imprese è ineludibile e non sarebbe una misura a favore degli imprenditori ma di tutti i cittadini poiché occupazione e crescita dipendono dalla nostra competitività. C’è poi da dire che si è in larga parte rotto il rapporto di fiducia tra sistema produttivo e Stato. Mettiamola così: se un’impresa non paga le tasse alla data prefissata scattano giustamente sanzioni anche gravissime. Lo Stato invece paga quando vuole i propri debiti con le aziende che lo forniscono. Si tratti di artigiani o di grandi imprese, gli importi complessivamente dovuti sono ancora oggi pari a 64 miliardi. In Italia l’attesa media dei pagamenti supera i 95 giorni, un tempo triplo rispetto a quello tedesco, che obbliga le nostre imprese a fare da banca allo Stato e ad essere a loro volta gravate da onerosi interessi passivi per l’anticipazione del credito. Con una battuta, forse neanche lo sceriffo di Nottingham si comportava così con i sudditi inglesi».

Tutto vero ma per ridurre le tasse occorre trovare le coperture…

«Ovviamente, ed è possibile solo riducendo la spesa pubblica, cosa che gli ultimi governi di sinistra non hanno fatto. La spesa corrente in valore assoluto continua ad aumentare mentre rispetto a sei anni fa si è ridotta di un terzo quella per investimenti: un errore in un Paese che avrebbe invece bisogno di nuove infrastrutture fisiche e soprattutto digitali».

Secondo il Commissario alla Spending Review Gutgeld si è avuta una riduzione dei costi pubblici nell’ultimo triennio pari a 30 miliardi annui, assorbiti però dalla maggior spesa per pensioni e sociale. Tagliare di più vorrebbe dire ridurre i servizi ai cittadini?

«È questa la grande bugia. Si può rendere più efficiente la spesa riducendola senza tagliare i servizi. Lo dimostra il fatto che ci sono regioni italiane – cito Lombardia e Veneto – che hanno bassi costi pro capite annui e ottimi servizi ed altre con incidenza ben maggiore e servizi che fanno acqua. Si stima che se la spesa nelle regioni si avvicinasse a quelle con le migliori performance si renderebbero disponibili tra i 50 e gli 80 miliardi di euro. Sia chiaro, da usare per ridurre le tasse e non per nuova spesa com’è nella tradizione della sinistra».

Che Paese è quello che strangola l’impresa

Che Paese è quello che strangola l’impresa

di Massimo Blasoni – Panorama

La Banca Mondiale ogni anno pubblica il report Doing Business che mette a confronto le principali economie del globo. Si va dal costo dell’energia elettrica alle tasse, dal lavoro alla burocrazia. Al di là del profluvio di numeri darci una letta è significativo. Emerge che è veramente complesso fare impresa in Italia dovendo competere con Paesi obiettivamente più efficienti. Facciamo un po’ di esempi. Un imprenditore italiano, che per insediare la propria impresa debba costruire un edificio, attende mediamente 227 giorni la concessione edilizia. Il suo competitor tedesco otterrà il permesso di costruire in 126 giorni, quello inglese dopo 86. In altre parole, mentre il nostro imprenditore starà ancora affannandosi con le lungaggini della burocrazia, i suoi competitor nelle nuove sedi avranno invece già iniziato a produrre rispettivamente da tre e quattro mesi. Se si trattasse solamente di permessi e autorizzazioni il problema sarebbe circoscritto, purtroppo però c’è molto altro. L’energia in Italia è più cara esattamente del 27 per cento rispetto alla media europea. Solo il 7,6 per cento delle imprese nazionali vende online, anche per l’arretratezza del nostro sistema digitale.

Guai poi a essere fornitori dello Stato. In Italia i debiti della Pubblica amministrazione, che tutti i governi si sono ripromessi di ridurre, vengono saldati mediamente dopo 95 giorni. In Francia gli stessi debiti vengono pagati dopo 57 giorni e in Germania dopo 23. La maggiore attesa, è ovvio, obbliga le imprese ad anticipare il dovuto presso gli istituti di credito con un ulteriore aggravio di costi per gli interessi passivi. Dobbiamo tra l’altro sperare che il nostro imprenditore non si trovi a dover adire le vie legali per recuperare un credito. Si troverebbe in balia di uno dei peggiori sistemi giudiziari d’Europa. Un processo civile dura in media sette anni. Le tasse, è notorio, in Italia sono molto alte ma va anche ricordato che il numero di adempimenti necessario a pagarle è quasi il doppio che in Germania e Regno Unito: 14 contro nove e otto rispettivamente. Tutto questo rappresenta un aggravio in costi e tempo perso. Malgrado questo scenario non incoraggiante le imprese italiane esportano. Pur in un Paese con infrastrutture fisiche e soprattutto digitali inadeguate, nei primi sei mesi del 2017 il fatturato delle esportazioni è aumentato dell’8 per cento rispetto all’anno precedente, più di quello tedesco che è cresciuto del 6 per cento.

Diciamolo con chiarezza, sarà ben difficile che in futuro molti dei nostri figli trovino lavoro nella Pubblica amministrazione, che probabilmente piuttosto vedrà calare il numero dei propri addetti. La crescita dell’occupazione è connessa allo stato di salute e capacità di sviluppo delle nostre imprese. Vien da chiedersi allora perché non si faccia di più per facilitarle almeno sul fronte della sburocratizzazione. Ci sono Paesi dove le regole vengono modificate sulla base delle nuove necessità del mercato: anche così si spiega come in California si siano sviluppati i colossi del mondo digitale. Troppo spesso invece nel nostro Paese le norme esistenti imbrigliano e soffocano la spinta a innovare, preservando un sistema spesso contorto, anacronistico e non in grado di interpretare il futuro. Ne sanno qualcosa gli oltre 50 mila giovani che lo scorso anno hanno lasciato il nostro Paese.

Burocrazia fiscale da record: ci costa un mese di lavoro

Burocrazia fiscale da record: ci costa un mese di lavoro

di Antonio Signorini – Il Giornale

Bocciati su tutti i fronti. In Italia si continuano a pagare troppe tasse. Come se non bastasse, chi fa il proprio dovere di contribuente è vessato da complicazioni varie che si traducono in ulteriori costi. Soprattutto per le imprese, ma anche per le famiglie. La terza edizione dell’Indice delle libertà fiscali di ImpresaLavoro non lascia intravedere nessuna inversione di tendenza. Il centro studi presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni compara 29 economie europee assegnando un punteggio ad ogni Paese su indicatori della Banca mondiale e di Eurostat che riguardano il fisco. L’Italia è all’ultimo posto con un punteggio di 40 su 100 che corrisponde a un’insufficienza piena e inappellabile. La fotografia, spiega Blasoni, «di un’Italia prigioniera delle tasse, ostile agli investimenti e allo sviluppo delle imprese».

Tra gli indicatori il numero medio di ore di lavoro necessarie per sbrigare le pratiche fiscali. In Italia sono 238, quasi trenta giornate lavorative passate tra le scartoffie del fisco. L’Indice ci piazza alle ultimissime posizioni. Se 10 è punteggio del Paese più virtuoso (l’Estonia con 50 ore), noi totalizziamo un 2. Ci sono paesi dove i contribuenti sono messi peggio di noi. Per lo più dell’Est oltre al Portogallo. Gli altri gruppi di testa dell’Europa sono tutti in posizioni migliori. Dalla Germania (218 ore) al Regno Unito (l 10 ore).

Capita che Paesi che si trovano nelle zone basse della classifica su un indicatore compensino con buone performance in altri. L’Italia si distingue per non avere nessun punteggio alto. Il numero di procedure fiscali è di 14 (punteggio 4 su 10), contro le 8 del Regno unito, le 9 della Germania. Sul tax rate che grava sulle imprese (48%), siamo sui livelli della Germania (48,9%), distanti da Lussemburgo (20,5%) ma anche dal Portogallo (39,8%), che evidentemente cerca di compensare svantaggi competitivi abbassando le tasse sulle imprese. Il punteggio dell’Italia sulla pressione fiscale complessiva è il più basso d’Europa: 17 su 30. Voto assegnato su quel 43,4% ufficiale che, come noto, non rappresenta la tassazione media ma il rapporto tra le entrate fiscali e il Pil. Una media che non considera l’evasione fiscale che in Italia resta altissima.

Nessun miglioramento in vista. L’indice sulla differenza della pressione fiscale (la comparazione è tra il 2010 e il 2015) ci assegna un due, giustificato da un aumento del 3,3%. Sotto di noi, Paesi che sono passati per le cure da cavallo delle Troika come Cipro (5,6%) e il Portogallo (3/1%). Nello stesso periodo in Irlanda la pressione fiscale è calata del 7,5%. In Germania dell’1,6%.

La pagella finale dell’Indice delle libertà fiscali ci vede all’ultimo posto, con 40 punti su 100. L’Irlanda – paradiso fiscale in Europa – ne totalizza 80. Primo grande paese europeo il Regno unito, con 59 punti. Le ex socialdemocrazie del Nord si sono ormai consolidate come economie liberali: 56 punti alla Svezia, 53 alla Danimarca e alla Finlandia. Esempio seguito dalla Spagna, 52 punti. Nelle zone basse la Francia, che totalizza 41 punti. La Germania 46. «Paghiamo una pletora di tasse e di tasse sulle tasse perché – commenta Blasoni – dopo aver subito il prelievo sul nostro reddito da lavoro, quando compriamo casa o depositiamo i nostri risparmi veniamo sottoposti a ulteriori gabelle. Occorre costruire un Paese fiscalmente meno vessato, pena il vanificarsi della già debole ripresa».