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Per il credito ora serve una spinta – Editoriale di Massimo Blasoni

Per il credito ora serve una spinta – Editoriale di Massimo Blasoni

Massimo Blasoni – Panorama

Malgrado i numerosi segnali di ripresa, a leggere i dati Bankitalia, l’accesso al credito resta difficile per le nostre famiglie e imprese produttive (meno nel settore finanziario). I prestiti delle banche al settore privato hanno registrato, ad aprile, una contrazione su base annua dell’1,4%. I prestiti alle famiglie sono calati dello 0,2% e quelli alle società non finanziarie sono diminuiti del 2,2% sui 12 mesi. Certo gli effetti del quantitative easing debbono ancora dispiegarsi compiutamente, tuttavia è ancora da verificare quale sarà il loro impatto. Non hanno avuto effetti sostanziali in passato le operazioni straordinarie di rifinanziamento della BCE. Né Ltro, né la sua versione successiva, il Tltro che condizionava il finanziamento all’erogazione di parte degli importi a famiglie e imprese. Questo perché spesso le banche prediligono impieghi più sicuri di quelli verso l’economia reale. In parte è comprensibile: il rapporto ABI di giugno 2015 evidenziava sofferenze lorde, ad aprile, per 191,5 miliardi, più 15,1% in confronto a quelle di aprile 2014. Anche i tassi restano alti malgrado gli interventi della banca centrale abbiano permesso anche all’Italia di godere del privilegio di potersi indebitare a interessi zero se non addirittura negativi, con impliciti effetti anche sul sistema creditizio.
Il basso costo del denaro all’origine è però condizionato da spread bancari piuttosto rilevanti nel nostro Paese. La disponibilità del credito e il suo costo sono tuttavia alla base di una piena ripresa e del conseguente incremento dell’occupazione. Innovazione, sviluppo e acquisti si nutrono di disponibilità finanziarie la cui carenza e l’elevato costo ci pongono in condizioni di difficile competizione con gli altri Paesi dell’area euro. Basti pensare che le ultime rilevazioni Bce quantificano nel 3,31% il tasso medio complessivo per le imprese italiane contro il 2,81% per le imprese tedesche. Poiché il nostro mercato azionario è assai ridotto – Piazza Affari vale meno del 30% del Pil nazionale a chilometri dagli USA ben sopra il 100% – occorre necessariamente riflettere su strumenti che facilitino l’accesso al credito bancario. Le ipotesi sono molte, dai fondi di garanzia pubblici per le spese di investimento di imprese virtuose, al ventilato utilizzo della Cassa Depositi e Prestiti, a interventi temporanei nel capitale dei principali istituti di credito per potenziarne il cosiddetto core tier one. Il rilancio delle nostre aziende necessita oggi più di opportunità, come il credito, che di contributi pubblici.

20150709Panorama

Presentazione Manifesto Anti-Tasse a Udine

Presentazione Manifesto Anti-Tasse a Udine

invito udine
Le tasse tra incubo e realtà: nasce il manifesto antitasse “E io pago”, realizzato dal Centro studi ImpresaLavoro. L’istituto, fondato a Udine da Massimo Blasoni, dopo aver elaborato l’Indice Europeo della Libertà Fiscale, ha voluto mettere nero su bianco, attraverso 15 illustri contributi, la questione tasse.
Il lavoro, introdotto dalla prefazione di Alessandro Sallusti, Direttore de Il Giornale, è stata realizzata con il contributo di imprenditori come Massimo Blasoni, Santo Versace e Florindo Rubbettino, alti dirigenti di importanti istituzioni come Giovanni Tria e Giorgio De Rita; intellettuali liberali come Carlo Lottieri e Raimondo Cubeddu; economisti come Giuseppe Pennisi e Salvatore Zecchini; giornalisti nazionali come Nicola Porro e Davide Giacalone; un rappresentante della proprietà immobiliare, tartassata per eccellenza in questi anni, come Giorgio Spaziani Testa, fino a Paolo Villaggio alias Fantozzi rag. Ugo che offre il suo parere sulle tasse con una “comica verità”. A loro si è aggiunta la creatività del vignettista Vincino che ha realizzato sette disegni esclusivi.
Il libro sarà presentato nel corso di un convegno martedì 7 luglio alle 19 a Palazzo Kechler. Interverranno Simone Bressan, Direttore del Centro studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, Presidente del Centro studi ImpresaLavoro, Salvatore Zecchini, economista e Presidente del Gruppo di Lavoro dell’OCSE su PMI e Imprenditoria e Giorgio De Rita, Direttore generale del Censis.
E Io Pago – Il Manifesto Anti-Tasse di ImpresaLavoro

E Io Pago – Il Manifesto Anti-Tasse di ImpresaLavoro

MANIFESTO

Copertina E Io Pago
Dopo poco meno di un anno dalla sua nascita, il centro studi ImpresaLavoro raggiunge le 25mila edicole italiane con la sua prima fatica editoriale, un libro allegato a Il Giornale dal titolo molto evocativo: “E io pago!”.
Nel 2015 abbiamo realizzato il nostro Indice Europeo della Libertà Fiscale: un lavoro originale e svolto coordinando un team di dieci ricercatori europei che hanno elaborato dieci studi sui principali sistemi fiscali continentali, analizzando diversi indicatori. L’Italia è emersa come il paese fiscalmente meno libero, perché abbina un elevata pressione fiscale ad un sistema complesso e burocraticamente invasivo.
Da qui siamo partiti per una riflessione più ampia, chiedendo a 15 italiani illustri di darci un loro contributo sul tema delle tasse e di spiegarci perché, secondo loro, la pressione fiscale è troppo elevata e rischia di soffocare la crescita. Ne è uscito un “manifesto anti-tasse” variegato per stili e sensibilità ma coerente su un punto: il peso delle tasse è troppo gravoso.
Nel libro gli interventi e i punti di vista di imprenditori, intellettuali liberali, giornalisti, economisti. Da Massimo Blasoni a Santo Versace a Florindo Rubbettino, da Giovanni Tria a Giorgio De Rita; da Carlo Lottieri a Raimondo Cubbeddu; da Giuseppe Pennisi a Salvatore Zecchini; da Nicola Porro a Davide Giacalone; da Giorgio Spaziani Testa a Marco Bassani. A loro si sono aggiunti Paolo Villaggio nei panni del Rag. Ugo Fantozzi e il vignettista Vincino che ha illustrato il nostro lavoro realizzando sette disegni esclusivi. La prefazione è del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti.
Da oggi trovate il nostro manifesto anti-tasse in tutte le edicole italiane.

 

 

Imprese e PA

Imprese e PA

NOTA

L’Italia si colloca ultima nella classifica europea sul rapporto tra le imprese e la Pubblica amministrazione. Lo segnala il Centro studi ImpresaLavoro che ha rielaborato alcuni dati contenuti nel “Doing Business 2015”, relativi a un nuovo indice costituito da quattro diversi indicatori: il numero di giorni necessari per ottenere un permesso di costruzione, l’attesa per ottenere l’allacciamento dell’energia elettrica, le ore annue necessarie per il pagamento delle tasse e, infine, l’efficienza del sistema giudiziario per quanto riguarda il rispetto dei contratti. L’Italia è infatti risultata il fanalino di coda di questa speciale graduatoria europea (ossia 28esima), superata persino da Cipro. Ai primi posti si collocano i Paesi del Nord Europa (al primo posto la Finlandia, al secondo la Danimarca) mentre veniamo largamente sopravanzati da tutti i nostri principali competitor: Germania (quarta), Regno Unito (nono), Francia (undicesima) e Spagna (18esima).

In particolare, l’Italia si attesta al 25esimo posto per quanto riguarda il tempo necessario per ottenere il rilascio di un permesso di costruzione. A guidare questa classifica sono ancora Danimarca e Finlandia mentre peggio di noi fanno solo Romania, Slovacchia e Cipro.

Recuperiamo invece qualche posizione per quanto riguarda i tempi di attesa per l’allacciamento all’energia elettrica: l’Italia si colloca infatti al 18esimo posto di questa classifica (guidata nell’ordine da Austria e Germania), perdendo in ogni caso il confronto con Paesi come Grecia (ottava), Lettonia (15esima) ed Estonia (16esima).

Quanto alla classifica (guidata da Lussemburgo e Irlanda) sul minor numero di ore che ogni impresa deve dedicare ogni anno al pagamento delle tasse, slittiamo al 23esimo posto superati da Cipro (11esima), Spagna (15esima) e Grecia (17esima).

Infine, per quanto riguarda i tempi di attesa delle sentenze sul mancato rispetto dei contratti, l’Italia si colloca al terz’ultimo posto della classifica (trainata da Lituania e Lussemburgo), con una performance anche qui inferiore a Cipro e ai Paesi dell’Est Europa.

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Una catasta di errori seppellisce il nuovo catasto

Una catasta di errori seppellisce il nuovo catasto

Davide Giacalone – Libero

La riforma del catasto è stata seppellita da una catasta d’errori. Se ne parla da anni, è stata annunciata come cosa fatta nel luglio del 2013, la legge delega è stata approvata a novembre 2014, il tempo entro il quale il Consiglio dei ministri deve approvare il decreto legislativo scade sabato (27), ma giunti al limite estremo bloccano tutto. Matteo Renzi s’è accorto che rivalutando gli estimi e non abbassando le aliquote l’imposizione fiscale cresce al punto da potere raddoppiare. Complimenti per la prontezza di riflessi, noi lo scrivemmo nel luglio dell’annuncio, mentre dal novembre dell’approvazione andiamo ripetendo che il principio dell’invarianza fiscale, contenuto nella legge, va saputo maneggiare. Accatastiamo allarmi e suggerimenti tra le parole al vento.

Il catasto attuale è irrealistico. Cambiarlo è necessario, cercando di portare i valori degli immobili almeno vicino a quelli di mercato. Ma è del tutto evidente che se si rivalutano quei valori deve contemporaneamente scendere l’imposizione sulle case, altrimenti ne risulta un salasso insostenibile. Non è che ci voglia un genio, per rendersene conto. Capisco, naturalmente, che una cosa è scriverlo e altra tradurlo in pratica, ma anche scrivere la ricetta della pasta con le vongole è cosa diversa dal cucinare quel piatto, pero, dopo un po’ di spaghetti scotti, condimento slegato e vongole sabbiose non è che si solidarizza con lo sfortunato cuoco, gli si suggerisce di dedicarsi ad altri mestieri. l lavoro delle commissioni censitarie andava seguito e predisposti i meccanismi di correzione. Accorgersene all’ultimo minuto non è segno di occhiuta vigilanza, ma di cieca incapacità.

La legge delega, del resto, con tiene il principio dell’invarianza fiscale. Il che non vuol dire che non cambia quel che ciascuno paga, perché se così fosse ci si potrebbe risparmiare la fatica e lasciare le cose come stanno. Significa che verranno rimodulati i carichi fiscali e la loro distribuzione, in modo da dare un senso alla rivalutazione degli immobili. L’invarianza nazionale, quindi, significa che qualcuno pagherà di meno e altri pagheranno di più. Il “chi” dipende dal modo in cui il catasto riformato riporta i valori immobiliari. Il “quanto” dipende da diversi fattori: la logica della legge delega è che parte dell’imposizione sarà stabilita dai Comuni, che essendo migliaia, solitamente inadempienti e in ritardo, è evidente che non si potrà mai essere anticipatamente certi che il gettito complessivo resterà invariato. Allora si devono predisporre i meccanismi compensativi, talché l’eventuale superamento del gettito dell’anno precedente si traduca in restituzione di soldi ai cittadini, in quello successivo.

Queste cose le scrivevamo l’anno scorso, non appena letta la legge. Le trovavo anche piuttosto scontate. Ovvie. Peccato che a poche ore dalla scadenza della delega si accorgono di non averci pensato. Ora, per metterci una pezza e non buttare via il lavoro legislativo fatto (in un clima di positiva collaborazione fra governo e Parlamento, di cui va resto merito a Daniele Capezzone, presidente della commissione Finanza, che ha interpretato il ruolo istituzionale senza nulla concedere al suo essere oppositore), si dovrà trovare un’uscita d’emergenza. Così mettendo le premesse per il rigoglioso crescere di uno sport nazionale, quello del ricorso amministrativo. Non è il destino cinico e baro, ma il governante sprovveduto e incapace di dominare la macchina che pilota. Per una cosa simile, ove esistesse corrispondenza fra potere e responsabilità, dovrebbero saltare gli uffici legislativi.

Nel frattempo non ci si dimentichi di quel che qui abbiamo segnalato, ovvero le ulteriori patrimoniali sulle case, mascherate da libretti e controlli sui sistemi di riscaldamento e raffreddamento. Ora è norma anche l’Ape, che sarebbe l’Attestato di prestazione energetica: le solite ditte convenzionate dovranno essere chiamate per verificare che in ciascun immobile sia tutto a posto. Normalmente le chiami se qualche cosa si guasta, invece si deve chiamarle e pagarle perché è guasta l’anima di un’amministrazione pubblica che dispone di fantasia satanica nell’imporre nuovi obblighi e nuove gabelle.

Tsipras fa un passo indietro, l’Ue uno falso

Tsipras fa un passo indietro, l’Ue uno falso

Davide Giacalone – Libero

Non c’è stato e non ci sarà un E­Day, un giorno decisivo per potere leggere con ragionevole sicurezza il futuro europeo. Ieri è stato quello del rinvio fiducioso, non mi stupirei se fosse seguito da qualche altro di sfiduciato approssimarsi, magari propiziato da qualche dichiarazione dei falchi tedeschi e degli avvoltoi greci. Una cosa è chiara a tutti, colombe e allocchi compresi: l’alternativa al restare nella medesima voliera consiste nel farsi sparare.

Il governo greco ha messo sul piatto quel che fino a qualche ora prima aveva negato: misure fiscali permanenti per il 2% del prodotto interno lordo (era stato chiesto loro il 2.5, ma non è una gran differenza, considerato che il pil è basso e in contrazione); tre aliquote Iva (ne erano state chieste due, ma tutto sta a vedere come modulate); e, cosa più importante delle altre, automatismi nel taglio della spesa pubblica, ove l’avanzo primario fosse minore di quello concordato, quindi in crescita, anziché in diminuzione, l’indebitamento. Dicono anche che le pensioni non si toccano, ma che cesserà la possibilità, considerata nefanda dal loro stesso ministro dell’economia, di poterci andare già da ragazzi. Come un tempo avveniva anche in Italia. Il piano greco è congegnato in modo tale da consentire a quel governo di far vedere agli altri europei che è andato incontro alle loro richieste e agli ellenici che ha resistito con eroica tenacia, vincendo più del previsto. I governanti europei, dal canto loro, hanno preso tempo, ma sanno bene che i soldi prestati ai greci non li rivedranno nel corso di questa vita, quindi tanto vale accontentarsi della promessa di serietà e restituzione. Adesso vediamo se, nel giro di una settimana, qualcuno riesce a rirompere le uova nel paniere.

Se si fosse trattato solo di soldi, sarebbe stato chiaro ai greci, assai prima, che non si può chiederne in prestito per poi concedere al proprio elettorato quel che i prestatori negano al loro, e sarebbe stato chiaro agli altri che pagare per salvare la Grecia costa meno che subire le infezioni diffuse da quella ferita. Se si fosse trattato solo di geopolitica, sarebbe stato chiaro a tutti, fin dall’inizio, che è dissennato immaginare una caduta del bastione Nato al confine con la Turchia. Per non dire dei pericolosi e sciocchi ammiccamenti alla Russia.

Il mescolarsi delle due cose ha prodotto una bevanda ad alta gradazione, che ha fatto salire l’arroganza demagogica dei greci e la pretenziosità contabile dei creditori, oltre che indurito la posizione di quanti (come Spagna, Portogallo e Irlanda) dalla crisi sono usciti accettando terapie dolorose, sicché non vedono perché altri possano limitarsi a chiedere la grazia. Nel corso di questa crisi, non conclusa, più guardi Atene e più capisci e solidarizzi con Berlino, perché non esiste il diritto a dilapidare o la sovranità del vivere al di sopra dei propri mezzi e con i soldi altrui. Ma più guardi Berlino e più capisci Atene, perché dopo avere tollerato conti truccati e dopo avere affrontato la crisi in modo da salvare le proprie banche e non i greci, si pretende che la loro progenie paghi debiti lievitati a causa di una cura inefficace. E più guardi Atene e Berlino più ti accorgi che sono spariti gli altri, ridotti a figuranti, perché ciascuno desideroso di usare la tragedia in corso in modo da nascondere qualche propria magagna contabile. Il che vale, inaccettabilmente, prima di tutto per la Francia e l’Italia. Non esistono E­Day perché così come il divaricarsi degli spread era un sintomo dei difetti strutturali della moneta unica, e non giudizi morali su questo o quel Paese, il protrarsi della crisi greca è il riflesso di un deficit d’integrazione istituzionale. Particolarmente nocivo perché lascia intendere a non pochi elettori, sparsi per l’Europa, che si possa tornare alla spesa pubblica dissennata recuperando la sovranità monetaria. Il che evidenzia, al tempo stesso, pessima memoria e cattivi presagi.

Dopo quattro anni siamo dove eravamo. La sola cosa che è cambiata e ha funzionato è la Banca centrale europea. Per il resto è ancora vero quel che vedemmo allora e non è ancora fatto quel che era da farsi allora. A cominciare dalla federalizzazione di parte dei debiti. Non sarà una ulteriore settimana a cambiare le cose. Speriamo non sia usata per scassarle ulteriormente.

Crisi: ecco dove ci batte anche la Grecia

Crisi: ecco dove ci batte anche la Grecia

ANALISI

Pur strangolata dal debito pubblico e scossa da una profondissima crisi economica e sociale, la Grecia riesce comunque a battere l’Italia 16 a 0 sul fronte del mercato del lavoro e delle tasse sulle imprese. È quanto emerge da una ricerca del Centro studi “ImpresaLavoro”, che ha elaborato i dati più recenti pubblicati dal World Economic Forum e dalla Banca Mondiale.
Analizzando le classifiche del “Global Competitiviness Report 2014-2015” stilate dal World Economic Forum si scopre infatti che la Grecia occupa nel rank mondiale una posizione migliore della nostra per quanto riguarda l’efficienza generale del mercato del lavoro (è 118esima mentre l’Italia è 136esima), la collaborazione nelle relazioni tra imprese e lavoratore (108esima contro 137esima), la flessibilità nella determinazione dei salari (118esima contro 138esima), l’efficienza nelle modalità di assunzione e di licenziamento (92esima contro 141esima), il legame tra salari e produttività (121esima contro 139esima), l’effetto della tassazione sull’incentivo a lavorare (138esima contro 143esima), il merito nella scelta delle posizioni manageriali (98esima contro 122esima) e infine la capacità del sistema sia nel trattenere talenti (96esima contro 121esima) sia nell’attrarli (127esima contro 128esima).
Il recente rapporto “Doing Business 2015” curato dalla Banca Mondiale certifica invece la situazione di indubbio vantaggio che le aziende elleniche godono rispetto alle loro concorrenti italiane. Non soltanto in Grecia il Total Tax Rate sulle imprese (49,9%) è infatti decisamente inferiore al nostro (65,4%) ma sul fronte delle modalità di pagamento delle imposte la Repubblica ellenica si dimostra meno matrigna della nostra per il numero sia degli adempimenti (8 contro 15) sia delle ore impiegate in media ogni anno da ciascuna azienda (193 contro 269). Le brutte notizie non finiscono qui: la nostra Pubblica amministrazione perde il confronto con quella ellenica per quanto riguarda i tempi di pagamento dei suoi debiti: un’azienda creditrice greca deve infatti attendere appena un terzo del tempo sopportato da un’azienda creditrice italiana (49 giorni invece di 144 giorni).
Infine, l’Italia perde il confronto con la Grecia anche nel comparto cruciale dell’edilizia per quanto riguarda i giorni necessari sia per ottenere un permesso di costruzione (233 contro 124) sia per ottenere l’allacciamento dell’energia elettrica (124 contro 62). Tra l’altro a una media impresa italiana la bolletta energetica costa il 34% in più che non a una media impresa greca: 0,1735 centesimi di euro per Kwh (chilowattora) invece di 0,1298 centesimi di euro per Kwh.
«L’Italia ha certamente fondamentali economici migliori di quelli greci» osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni. «Tuttavia occorre notare come l’analisi puntuale di due aspetti importanti dell’economia come efficienza del mercato del lavoro e tassazione sulle imprese dimostrino l’arretratezza del nostro Paese. Non è un dato banale perché i fondamentali economici sono figli delle scelte fatte in passato: liberare le nostre aziende da un fardello fiscale ormai insostenibile e produrre regole sul lavoro semplici e certe sono due passaggi non più rimandabili su cui il governo si dovrebbe impegnare maggiormente. Altrimenti il rischio è di scivolare sempre più verso la Grecia».
Resurrezione del Nazareno

Resurrezione del Nazareno

Davide Giacalone – Libero

Che il Nazareno possa risorgere sembra quasi un destino insito nel nome. Ma non c’è da farsi illusioni, perché la piazza dove ha sede il Partito democratico, e dove nacque il patto fra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, il nome lo prende dal cardinale Michelangelo Tondi (1566-­1622), riminese, detto “il Nazareno” perché arcivescovo di Nazareth, che, però, non era la città dove  Cristo visse ma si trovava a Barletta, in ragione di una chiesa, Santa Maria di Nazareth, che neanche esiste più. I precedenti storici, quindi, tendono verso il raggiro. Con anche un pizzico di iettatura.

È utile, che si torni a quel patto? Dipende. Saltò per il modo in cui è stato scelto il presidente della Repubblica. Non perché Sergio Mattarella fosse un nome di rottura, ma perché Renzi lo interpretò in chiave interna al Pd. Se non si converge su un’elezione di quel tipo, come si può farlo sul resto? Ma c’è dell’altro: i frutti legislativi del Nazareno non sono buoni. Da quel patto sono nati la riforma del sistema elettorale e quella costituzionale (ancora da completarsi). Il primo è pessimo, la seconda prende l’impronta dal primo, unendovisi nel giudizio. Intanto il patto diede modo al governo Renzi di nascere, creando una positiva rottura a sinistra. È vero che da quel passo è nata la riforma del mercato del lavoro, buona anche se insufficiente, ma è anche vero che da lì discendono cose come i regali elettorali, in conto all’erario, e una non riforma della scuola che s’incarna nella promessa di 160mila assunzioni, ulteriore zavorra sulla spesa pubblica (in un Paese che ha più insegnanti per alunni della media europea). Nell’insieme: una ciofeca.

Eppure lo considerai con simpatia. E sarei propenso a ribadirla, sebbene con assai maggiore diffidenza. Scrivemmo allora: il Nazareno ha un senso se si allarga subito alle questioni economiche, perché quello è il campo in cui ci giochiamo il futuro. Non è mai successo. Continuiamo a crescere la metà dell’eurozona, accumulando ritardi che si tradurranno in pericolosi svantaggi. Le imprese che esportano fanno miracoli, ma in nulla sono diminuiti i pesi morti, mentre la pressione fiscale resta satanica e immutata la sua perversione ricattatoria e recessiva. La spesa pubblica è stata tagliata solo per quanto serviva a farla ricresce da altre parti. L’occasione offerta dalla Banca centrale europea, dal cambio e dal prezzo del petrolio è stata usata solo per raccontare panzane sulla ripresa, perdendola per il resto. Nel frattempo Renzi ha occupato tutto l’occupabile, producendo una nuova classe di boiardi che brillano per (presunta) fedeltà, ma somigliano troppo alle statue di sale: brillano come diamanti al sole, ma finiscono nei rivoli alla prima pioggia. L’incresciosa vicenda della Cassa depositi e prestiti non è la ciliegina sulla torta, ma l’asfissiante flatulenza prodotta dall’indigestione d’arroganza.

E allora: se la resurrezione saprà partire da queste cose, dai conti, dalla ricchezza che non cresce, dalla volontà di liberare le energie produttive e non dalla protervia di appropriarsene, che sia la benvenuta. Ma se si trattasse della riedizione del già visto, con inutili gargarismi costituenti, meglio essere chiari: la natura e lo spessore dei contraenti non può aspirare non dico ad agguantare risultati apprezzabili, ma neanche a dignitosamente cimentarsi con quella materia. Prima diano prova di serietà, impegnandosi al fianco dell’Italia che lavora e tira la carretta, dimostrando di non ritenerla un bue cui attaccare il trasporto dei propri bottini. Conosco la teoria nobile: occorre assicurare continuità al sistema istituzionale e fare argine alle ondate di dissennatezza qualunquista e propagandista. Vero. Ma se il patto risorto fosse come quello seppellito, non solo non infrangerebbe quei cavalloni, ma li renderebbe ancor più schiumanti. Basta guardare le infinite corbellerie dette e fatte sul tema dell’immigrazione. Non basta sostenere che chi soffia sul fuoco è un triviale irresponsabile, specie quando i presunti pompieri non sanno dove si trova il rubinetto, si fregano le scale a vicenda e a sirene spiegate si dirigono verso l’indirizzo sbagliato.

La burocrazia frena la ripresa – Editoriale di Massimo Blasoni

La burocrazia frena la ripresa – Editoriale di Massimo Blasoni

Massimo Blasoni – Metro

Nel 2010 in Italia si sono investiti in costruzioni 169,6 miliardi di euro. Quattro anni dopo, complice la crisi e soprattutto l’inasprimento della pressione fiscale sul comparto del mattone, gli investimenti in costruzioni si sono fermati a 138,9 miliardi con un calo in termini reali del 18%. I tempi necessari per ottenere un permesso di costruzione sono invece rimasti invariati a 233 giorni, un tempo record in Europa e che ci fa impallidire davanti ai 64 giorni della Danimarca.

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Il Governo Renzi ha fatto poco per le imprese – Il Giornale

Il Governo Renzi ha fatto poco per le imprese – Il Giornale

Massimo Blasoni – Il Giornale

Al di là del Jobs Act il governo Renzi ben poco ha fatto per sostenere il nostro sistema produttivo. Dove, si badi, per sostenere qui si intende essere messo in condizione di competere alla pari con i principali partner dell’Unione Europea. Eppure è evidente che la ripresa come l’occupazione sono legate al rilancio della capacità produttiva delle aziende. C’è da chiedersi perché il Governo comprenda così poco le ragioni dell’impresa. Da un lato è complesso attuare le riforme (liberalizzazioni, privatizzazioni, sburocratizzazione) di cui abbisognerebbe il Paese; dall’altro, ben pochi (certo non il Premier) vengono dal mondo dell’impresa. Due supposti  motivi, che però non rappresentano certo una scusante.

Ci sono Paesi che attraggono investimenti anche cercando di semplificare. Se crei una nuova impresa – questo è il ragionamento –  crei lavoro, tasse, dunque ti facilito. Da noi servono 233 giorni (fonte Doing Business) per un permesso di costruzione contro i 94 tedeschi o i 64 danesi e un imprenditore dedica alla burocrazia quasi il doppio del tempo che gli necessiterebbe nella maggior parte  degli altri paesi UE. Eppure un sistema di regole più semplice e minori tortuosità burocratiche, si tradurrebbero in sviluppo. L’indice di imprenditorialità – cioè la facilità di fare  impresa – ci colloca dietro tutti i nostri principali partner europei. Qualche volta sembra che una parte di paese lavori ed un’altra controlli producendo una montagna di carta e regole complicate.

Si è logorato anche il rapporto di fiducia tra Stato e Impresa. Le aziende anticipano, nel meccanismo dei saldi degli acconti, le imposte che dovranno l’anno successivo ma lo stato paga i propri fornitori quando vuole. La promessa del premier di saldare i debiti pregressi verso le imprese si è dimostrata vana. Nel 2014 il tempo medio di pagamento della pubblica amministrazione è stato di 144 giorni e si è completamente riformato il debito commerciale raggiungendo gli 67,1 miliardi di euro. Il livello delle nostre infrastrutture è assolutamente inadeguato, comprese quelle informatiche:  l’Italia è 47esima al mondo per velocità di connessione con una media di download di 5,2 Mega al secondo, contro i 9,9 del Regno Unito, i 12,7 della Svizzera e i 7,2 della Spagna.

E’ noto che il nostro carico fiscale ci colloca tra i Paesi più tassati del mondo, eppure la spesa pubblica che questo flusso di denaro nutre malgrado ogni sforzo continua a crescere: e purtroppo si incrementa la spesa corrente – stipendi, acquisto di beni e servizi-  mentre si riduce quella per investimenti. Tutto questo non soffermandoci sui maggiori costi che sopporta un’impresa italiana in tema di energia o di accesso al credito che ulteriormente frenano – lo dico da imprenditore –  la capacità di competere. Certo non invoglia gli investimenti un paese dove la soluzione delle dispute commerciali richiede mediamente 1185 giorni e dove inarrestabilmente legiferano Stato e Regioni, spesso in competizione tra loro. Una situazione complessa che richiederebbe interventi immediati che non ci sono stati. L’inazione non può più essere coperta da un paravento di slide. Forse anche per questo la luna di miele si è interrotta,  così come la fiducia verso il premier.