massimo blasoni

Ci vuole uno shock fiscale per riportare l’Italia sulla carreggiata europea

Ci vuole uno shock fiscale per riportare l’Italia sulla carreggiata europea

di Massimo Blasoni – Libero

Almeno in economia, non è affatto detto che chi s’accontenta gode. D’altronde i recenti toni trionfalistici a commento della nostra “ripresina” economica mal si accordano con i freddi dati Ocse. Per il quindicesimo anno consecutivo il Pil italiano è infatti cresciuto a un ritmo inferiore rispetto alla media europea. Dall’introduzione della moneta unica ad oggi, questa differenza di ritmo di crescita (o di decrescita) è oscillata tra il minimo del 2010 (-0,4%) al massimo del 2012 (-2,3%).

Comparando invece l’andamento del Pil italiano con quello tedesco, è interessante notare come, negli anni immediatamente successivi all’introduzione dell’euro, l’Italia sia cresciuta a un ritmo più sostenuto della Germania. Dopo una serie di riforme strutturali coraggiose (ed efficaci) messe in campo dal governo di Berlino, però, la tendenza si è bruscamente invertita. E dal 2006 ad oggi l’andamento del Pil tedesco è stato nettamente superiore a quello del nostro Paese, con la sola eccezione del 2009 (Italia -5,5%; Germania -5,6%). Negli ultimi dieci anni, mentre l’Italia ha perso in media 4 punti decimali di Pil all’anno, la Germania così ha fatto registrare un più che dignitoso +1,4%.

Ma c’è soprattutto un dato che dovrebbe preoccuparci: fatto 100 il Pil reale delle economie occidentali più avanzate nell’ultimo trimestre del 2007, solo noi continuiamo ancor oggi a restare al di sotto dei livelli precedenti alla grande crisi. Francia e Germania sono “emerse” già nel primo trimestre del 2011, nel penultimo trimestre di quello stesso anno è arrivato il turno degli Stati Uniti mentre il Regno Unito ha dovuto aspettare fino al secondo trimestre del 2013. Nel primo trimestre di quest’anno anche il Pil reale della Spagna ha ormai raggiunto il livello pre-crisi. Manca all’appello dunque solo l’Italia (ancora ferma al 94%) e con l’attuale ritmo di crescita la strada per tornare ai nostri livelli pre-crisi appare ancora in salita e incerta. Ma quanto sarà lunga? Continuando con una crescita annua del Pil tra l’1,3% e l’1,5% – e quindi con numeri analoghi a quelli delle previsioni per il 2017 – l’economia italiana tornerebbe ai livelli pre-crisi soltanto tra il 2021 e il 2022. Peccato che la realtà s’incarichi spesso di smentire l’ottimismo dei nostri governi e soprattutto che per quella data sarà trascorso già un decennio da quando tutti i nostri principali competitor saranno usciti dalle secche della crisi. Inutile nasconderci dietro un dito: a forza di crescite annue intorno all’1 virgola qualcosa il vagone italiano rischia di sganciarsi definitivamente dal treno della ripresa europea. Per questo s’impone con urgenza l’adozione di misure coraggiose, di un vero e proprio shock fiscale che alleggerisca finalmente le nostre imprese dall’oppressione tributaria (e burocratica). Accontentarsi non è più possibile.

Gli immigrati fanno perdere all’Italia 5 miliardi l’anno

Gli immigrati fanno perdere all’Italia 5 miliardi l’anno

di Fausto Biloslavo – Il Giornale

Gli immigrati regolari sono una risorsa economica per la scassata Italia? Non proprio: se le entrate per le casse dell’erario ammontano a 20,6 miliardi di euro, le uscite risultano di 25,6 miliardi con un saldo negativo di 5 miliardi. Per non parlare del fatto che in Italia i posti di lavoro per i cittadini extracomunitari aumentano e quelli per i connazionali diminuiscono. In Europa siamo quasi il fanalino di coda rispetto al 24,8 per cento di differenza a favore dei tedeschi doc in Germania.

La Banca centrale europea, l’Inps, il Papa, fondazioni buoniste varie osannano l’impatto economico positivo degli immigrati. «I nostri ricercatori indicano numeri diversi perché non facciamo finta di non vedere», spiega a il Giornale Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. Prendendo spunto dai dati della fondazione Moressa del 2015, che fa parte del coro pro-immigrati come risorsa, risulta che le entrate annue per lo Stato sono di 9,7 miliardi di gettito fiscale e 10,9 miliardi di contributi previdenziali. Il problema è sul calcolo delle uscite riguardo all’impatto economico degli stranieri regolari. Per la sanità, scuola e servizi sociali escono 8,3 miliardi di euro. Per la casa ed ulteriori misure di sostegno vanno calcolati 3,4 miliardi. Tre miliardi sono da aggiungere per carceri e tribunali assieme al lavoro del ministero dell’Interno relativo a sicurezza e permessi. «L’ulteriore dato negativo, che non viene considerato né dalla fondazione, né dal presidente dell’Inps, Tito Boeri, scaturisce dal debito implicito pensionistico», spiega Blasoni. Una bella cifra quantificata in 10,9 miliardi di euro.

Il debito implicito si basa sul fatto che gli occupati di oggi paganti le pensioni per chi ha già maturato i requisiti per goderne con la promessa, o patto generazionale, che ci sarà qualcun altro a fare lo stesso con il loro vitalizio. «Lo Stato sta di fatto contraendo un debito, non dichiarato, e quindi implicito, nei confronti di chi oggi versa i contributi, con la promessa di saldarlo, un domani, attraverso la pensione», spiegano gli addetti ai lavori. «In termini semplici – sottolinea Blasoni – i contributi che oggi vengono versati dagli extracomunitari si tradurranno in pensioni che dovremmo pagare un domani». Oltre a quelle legate ai contributi effettivamente versati ce ne saranno non poche slegate da questo sistema. «Già oggi su 81.660 pensioni pagate agli stranieri ben 49.852 sono pensioni sociali, che non derivano dal lavoro svolto», spiega. Il risultato è che fra entrate ed uscite, in relazione all’impatto economico degli stranieri in Italia, Pantalone perde ogni anno 5 miliardi.

Il Centro studi ImpresaLavoro fornisce anche altri dati, che dovrebbero far scattare qualche campanello d’allarme sull’aprire troppo le braccia, come vuole il Papa, all’accoglienza. Dal 2008 al 2016 gli occupati italiani sono scesi di 1.043.337 unità. Al contrario gli stranieri regolari hanno registrato un’impennata di 710.826 occupati. E non si tratta solo dello stereotipo legato ai lavori che gli italiani non vogliono più fare. Non è un caso che, secondo una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro sui dati Eurostat 2016, «il tasso di occupazione degli italiani tra i 15 e i 64 anni residenti nel nostro Paese è del 57 per cento, un dato che ci accomuna alla Croazia». Gli extracomunitari occupati ci superano con il 57,8 per cento. Germania, Regno Unito, Francia e Spagna battono nettamente l’Italia. I tedeschi hanno un tasso di occupazione dei cittadini «nazionali» del 76,5 per cento rispetto a quelli extracomunitari del 51,7 per cento con una differenza del 24,8 per cento. Blasoni fa notare che «nessuno ha propensioni xenofobe, ma dobbiamo stare attenti sui flussi ragionati. L’arrivo di immigrati regolari rischia di sostituire gli italiani nel mercato del lavoro».

In 10 anni gli italiani hanno perso il 9,8% del loro reddito pro capite

In 10 anni gli italiani hanno perso il 9,8% del loro reddito pro capite

di Vittorio Pezzuto – Italia Oggi

Negli ultimi dieci anni gli italiani hanno perduto il 9,8% del loro reddito pro capite, un calo pari a 2.800 euro a cittadino. Diminuito dai 28.700 del 2007 ai 25.900 euro del 2016, questo è ormai scivolato al di sotto della media sia dell’Area euro (29.700 euro) sia dei Paesi dell’Unione europea a 28 (27.000 euro). In Europa, nello stesso arco di tempo, peggio di noi hanno fatto solo Cipro (-12,3%) e Grecia (-24,7%) mentre nelle altre grandi economie il dato appare meno negativo (-2,9% in Spagna e -1,7% in Portogallo) o addirittura in aumento: +0,6% in Francia, +1,6% nel Regno Unito, +7,8% in Germania e addirittura +31,4% in Irlanda. È quanto emerge da un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro realizzata su elaborazione di dati Eurostat.

Va comunque osservato come nell’ultimo anno (2015-2016) sia stato registrato un aumento del nostro reddito pro capite (+1,2%, pari a 300 euro), contenuto ma pur sempre superiore a quello ottenuto nello stesso periodo dal Regno Unito (+1,0%, pari a 300 euro), dalla Germania (+0,9%, pari a 300 euro), dalla Francia (+0,6%, pari a 200 euro) e dalla Grecia (+0,6%, pari a 100 euro).

In termini assoluti nel 2016 il reddito pro capite degli italiani (25.900 euro) appare ancora superiore a quello degli spagnoli (23.800 euro), dei greci (17.100 euro) e dei portoghesi (16.900 euro) ma resta comunque di gran lunga inferiore a quello della maggior parte dei Paesi europei: Lussemburgo (83.700 euro), Irlanda (53.600 euro), Danimarca (45.700 euro), Svezia (42.700 euro), Olanda (39.500 euro), Austria (36.100 euro), Germania e Finlandia (entrambe con 34.600 euro), Belgio (34.400 euro), Francia (31.700 euro) e Regno Unito (31.400 euro).

«I recenti, timidi segnali di ripresa non devono illuderci» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro. «La carenza di investimenti pubblici e le perduranti oppressioni fiscale e legislativa deprimono gli sforzi delle aziende e frenano un vero rilancio della nostra economia. A farne le spese non sono soltanto quanti, soprattutto giovani, non riescono a entrare nel mondo del lavoro ma pure gli stessi occupati, molto spesso precari. Trovare il nostro Paese in fondo anche a questa classifica internazionale addolora e preoccupa, soprattutto perché fotografa l’avvenuto impoverimento degli italiani e spiega la perdurante crisi dei nostri consumi interni».

La lezione di Atac per l’economia

La lezione di Atac per l’economia

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Annunciando obtorto collo la strada inevitabile e dolorosa del concordato preventivo, il sindaco Virginia Raggi ha precisato che «Atac deve rimanere pubblica. Atac deve rimanere di tutti noi romani». Non voglio entrare nelle pieghe di una situazione aziendale drammatica e complessa, che comporterà a breve pesanti ricadute anche sulla stabilità finanziaria di Roma Capitale. Quel che mi colpisce è però il ricorrere, anche quando si è pencolanti sul precipizio della bancarotta, al mantra del “pubblico a tutti i costi” che accomuna un movimento di presunta rottura col passato con gran parte della tradizionale classe politica.

Se l’azienda pubblica di trasporto più grande, indebitata e sfasciata d’Italia è arrivata ormai al capolinea è perché in questi anni i suoi amministratori e i loro referenti politici si sentivano comunque al riparo da ogni responsabilità: a pagare il loro fallimento sarebbero stati solo i contribuenti. Nessuno ha così voluto accettare la sfida – europea e ragionevole – di un servizio pubblico gestito efficacemente in forma liberalizzata, con diversi operatori privati in concorrenza tra loro e costretti a osservare i rigidi paletti della qualità del servizio imposti da una piccola ma determinata struttura di governance pubblica. Si è preferito invece continuare a demonizzare i privati, additati dall’assessore di turno come assetati di profitto (parola ingiuriosa nel Paese del debito pubblico). Un alibi che serve ai partiti per garantirsi il profitto di una preziosa riserva elettorale e di potere economico.

La gestione pubblica di alcuni servizi nasce all’inizio del secolo scorso. Le aziende municipalizzate si occupavano di strade, illuminazione, trasporti, acquedotti, farmacie e anche forni per il pane. Colmavano un vuoto lasciato dallo Stato centrale ed erano una risposta di tipo sociale alle esigenze insoddisfatte delle masse inurbate impiegate nell’industria. Negli ultimi decenni, per una sorta di beffardo contrappasso, il proliferare delle municipalizzate e delle società miste costruite dagli enti pubblici (Carlo Cottarelli a suo tempo ne ha censite ben 8mila, spesso con più amministratori che dipendenti) è divenuto invece il simbolo di una politica incapace di garantire servizi efficienti a basso costo di gestione. Guidate da personale di nomina partitica (più fedele che capace), sono un cancro economico che consuma gli spazi dell’imprenditoria privata. Si tratta di organismi di diritto privato ma con ferreo controllo politico, che operando con i soldi dei contribuenti non hanno quasi mai avuto a cuore gli obiettivi di un’impresa: contenimento dei costi, efficienza e profitto. La loro nascita ha semmai consentito la duplicazione degli uffici (e quindi la moltiplicazione della burocrazia) nonché utili escamotage: assunzioni quasi sempre senza concorsi pubblici e cospicui finanziamenti pubblici senza dover rispettare i vincoli di spesa imposti dal Patto di stabilità. La crisi irreversibile di Atac serva almeno come salutare lezione liberale per il futuro: i servizi pubblici, per essere di qualità, non devono necessariamente essere gestiti dal pubblico. In un’azienda non si può spendere più di quanto si ricava. La pacchia è finita.

Italiani impoveriti, le famiglie tedesche accumulano invece 1.300 miliardi in più

Italiani impoveriti, le famiglie tedesche accumulano invece 1.300 miliardi in più

di Antonio Grizzuti – La Verità

Per molti la crisi è considerata foriera di nuove opportunità. A giudicare dai dati di un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro sembra che ciò non valga per il nostro Paese. Lo studio dimostra che le famiglie italiane sono ancora lontane dal livello di ricchezza posseduto nel 2006, un anno prima cioè che si scatenasse la grande recessione. Il rapporto, basato sull’elaborazione di dati di Banca d’Italia, sistema europeo delle Banche Centrali, Ocse ed Eurostat, prende in esame il livello delle attività finanziarie nel decennio 2006-2015. In questo periodo la ricchezza non immobiliare delle famiglie nel nostro Paese è calata dell’1,7% (circa 68 miliardi) rispetto alla soglia di 4.000 miliardi registrata alla fine del 2006. Peggio di noi è riuscita a fare solo la Grecia, che ha fatto registrare una flessione del 18,4%. Impietoso il paragone con gli altri stati presi in considerazione: «Nello stesso periodo di tempo», si legge nello studio, «le famiglie di alcuni Paesi dell’Europa dell’Est hanno invece raddoppiato i volumi della loro ricchezza mentre quelle residenti in economie più mature hanno registrato incrementi netti comunque considerevoli».

È il caso ad esempio delle famiglie tedesche, più ricche di oltre 1.300 miliardi di euro (+31,6%), di quelle francesi, cresciute di 1.200 miliardi (+31,9%) e di quelle britanniche con +1.900 miliardi (+30%). Notevole anche il risultato dell’Olanda (+55,9%, pari a 800 miliardi) e della Svezia (+72,6%, cioè 500 miliardi in più). Di fatto tutte le economie eccetto la nostra hanno scollinato la crisi e ripreso a correre più veloci.

La ricchezza rimane concentrata ancora al settentrione (62,6% se consideriamo la sommatoria di Nord ovest e Nordest), in calo però del 4,5% rispetto al 2006. Crescono invece il Centro (21,5%, in crescita dello 0,5%), il Sud (11,2%, +2,7%) e le Isole (4,7%, +3,3%). Colpisce il dato demografico: quasi la metà della ricchezza interessa i nuclei guidati da un over 64 (si va dal 28,9% del 2006 al 47,9% del 2014). La fascia dai 35 ai 44 anni è calata del 5,3%, quella 45-54 anni del 3,5%, mentre quella che va dai 55 ai 64 anni crolla di quasi dieci punti percentuali. «Citata come un fiore all’occhiello del nostro sistema finanziario nonché come simbolo della laboriosità e della capacità di risparmio degli italiani, la ricchezza delle famiglie italiane viene trattata dallo Stato come un bancomat al quale attingere spesso e volentieri» è il commento di Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. Blasoni si è detto preoccupato inoltre della distribuzione disomogenea della ricchezza, sia a livello territoriale che anagrafico.

L’erosione della ricchezza delle famiglie italiane ovviamente non finisce in banca ma aggredisce il mattone. Secondo i numeri del Mef, nonostante lo stock di immobili di proprietà delle persone fisiche sia aumentato di oltre due milioni di unità (56,354 milioni nel 2014 contro i 54,341 del 2011), il valore patrimoniale delle abitazioni è calato del 5,25%, passando da 6.015 miliardi di euro nel 2011 a 5.699 miliardi nel 2014 (dati tratti dai report “Gli immobili in Italia 2016 e 2017”). Trecento miliardi andati in fumo nel giro di un quinquennio, pari al 15% del prodotto interno lordo. Il mercato ha dato negli ultimi due anni qualche timido cenno di ripresa, ma stiamo ancora scontando il crollo dei prezzi e la conseguente diminuzione della ricchezza abitativa. La riforma del catasto, nell’aggiornare i valori degli immobili al rialzo, aumenterà le tasse rendendo ancora più leggero il portafoglio degli italiani.

I dati sulla povertà raccontano la dura realtà di un Paese cristallizzato e capace di affidare le speranze di ricchezza futura solo alle categorie del passato. L’unica categoria per cui l’incidenza di povertà relativa è diminuita è quella degli over 65, passati dal 12,2% del 2006 al 7,9% del 2016. Malissimo i giovani dai 18 ai 34 anni – in teoria la categoria che dovrebbe far da traino alle attività produttive – dove si è passati dal 10% al 14,6% nello stesso periodo. A livello internazionale il nostro paese si colloca tra gli ultimi della classe: quasi un terzo dei cittadini sotto i cinquant’anni sono a rischio povertà. Fanno peggio di noi solo la Grecia, la Bulgaria e la Romania.

L’Italia cresce meno di tutti, sul lavoro dati sconfortanti

L’Italia cresce meno di tutti, sul lavoro dati sconfortanti

di Massimo Blasoni – La Verità

I dati sulla nostra crescita nel 2017 paiono incoraggianti e anche le rilevazioni Istat sull’ultimo trimestre lo confermano. Il nostro +1,4% stimato su base annuale in fin dei conti non è poi così lontano dal dato tedesco e da quello francese. C’è ripresa, se pur timida, anche dell’occupazione e sono finalmente ripartiti gli investimenti privati. Sarebbe però sbagliato indulgere in facili ottimismi, soprattutto se compariamo questi dati con quelli del 2007, l’ultimo anno pre-crisi. Scopriamo infatti che l’accoppiata franco-tedesca ha da tempo un Pil reale ben superiore a quello di un decennio fa. Non è così per noi che, ahimè, stiamo ancora al di sotto di quella soglia. Anche la Spagna quest’anno ha superato i valori pre-crisi e ora restiamo i soli in Europa assieme a Grecia e Portogallo a segnare il passo. C’è poco da sorridere dunque.

Se consideriamo poi il Prodotto ai valori nominali, cioè comprensivi di inflazione, il quadro peggiora. Da noi quest’anno l’inflazione è all’1,2% contro una media europea che sfiora il 2% e questa modesta evoluzione dei prezzi rende ancora più pesante il rapporto debito/Pil. I dati sul lavoro sono forse più interessanti. È vero che aumenta l’occupazione nel Paese ma, comparati a 10 anni fa, i 66mila occupati italiani in più impallidiscono di fronte alla crescita tedesca che conta un incremento di 2 milioni e 800 mila occupati. Tra loro molti mini-job ma complessivamente un maggior numero di lavoratori che ha fatto crescere il tasso di occupazione tedesco al 74,7%, un risultato rilevantissimo. Il dato è rilevato da Eurostat che segnala nel periodo un forte incremento dell’occupazione anche nel Regno Unito e in Francia. Per noi il quadro si fa ancora più fosco se consideriamo che le imprese preferiscono ricorrere in una proporzione 80-20 alla somministrazione o ai contratti a termine piuttosto che instaurare un contratto a tutele crescenti: l’indeterminato insomma. E, inoltre, che la dinamica dei salari è pressoché stabile. Resta ancora molto da fare dunque per migliorare l’efficienza del nostro mercato del lavoro e della nostra economia. La ricetta liberale resta invariata: ridurre il perimetro dello Stato e l’enorme tassazione.

Lazio, record di spesa pubblica. Fa peggio solo la Valle d’Aosta

Lazio, record di spesa pubblica. Fa peggio solo la Valle d’Aosta

di Valerio Maccari – Il Tempo

Vola la spesa pubblica nel Lazio. Dal 2012 a oggi, infatti, in media lo Stato ha sborsato 13.684 euro per abitante della regione. È il dato più elevato tra le regioni italiane, secondo solo a quello della Valle d’Aosta dove, grazie allo statuto speciale e a un maggiore reddito medio della popolazione, la mano pubblica sborsa 15.731 euro per cittadino. La consistenza della spesa pubblica laziale è ancora più eclatante se si considerano le evidenti inefficienze dei servizi garantiti ai cittadini, dal trasporto locale alla sanità.

A elaborare la classifica della spesa pubblica pro-capite per regioni è il Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati pubblicati ogni anno dalla Ragioneria Generale della Stato, conteggiando – oltre alle spese del bilancio statale – anche quelle realizzate nei vari territori di riferimento dai rispettivi enti locali, da Fondi alimentati con risorse nazionali e comunitarie, da Enti e organismi pubblici.

Nella classifica delle regioni così redatta, il Lazio è circondato da stagioni a statuto speciale: al terzo posto, infatti, c’è il Trento Alto Adige con 13.278 euro di spesa pro-capite, seguito a sua volta dal Friuli Venezia Giulia con 12.975. Le altre grandi regioni, invece, sono in coda: la Lombardia è ultima per spesa pubblica pro-capite (8.647 euro), preceduta dal Veneto (8.734 euro) e dalla Campania (9.082 euro). Se invece si passa a valutare l’incidenza della spesa pubblica rispetto al Prodotto interno lordo di ogni singola regione, la classifica si inverte: prima è la Calabria, con una spesa pubblica complessiva superiore ai due terzi del Pil; seguono la Sardegna (59,9%) e la Sicilia 56,55%).

«L’enorme differenza della quantità di spesa tra regioni non è semplicisticamente riconducibile alla loro collocazione geografica: si spende tanto al nord quanto al sud. Va però considerata la sua qualità» osserva Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Prendiamo ad esempio la sanità. Il livello dei servizi resi in Lombardia è nettamente migliore di quello calabrese anche se il costo pro capite è di poco superiore; per l’Istat di soli 130 euro annuali a cittadino: un’inezia. È solo un esempio che riafferma però un concetto ineludibile. Si tratta di spendere di meno ma anche e soprattutto di spendere meglio. Dal trasporto pubblico ai servizi postali troppo spesso i nostri servizi pubblici sono lontani dagli standard che ci potremmo aspettare visto il loro costo, condizionati come sono da inefficienze ed eccesso di intermediazione politica. Un esempio? Nell’area di Napoli, forse la peggio servita quanto a raccolta e smaltimento rifiuti, si paga una delle tasse sui rifiuti più alte d’Italia. Anche i costi della politica non sono uguali per tutti. Agli oltre 42 euro pro capite per il funzionamento degli organi istituzionali della Sardegna o ai quasi 32 euro della Sicilia fanno da contraltare Piemonte ed Emilia Romagna che si attestano attorno ai 5 euro annui».

Le Regioni che spendono di più

Le Regioni che spendono di più

di Vittorio Pezzuto – Italia Oggi

Restano tuttora vistose le differenze nella spesa pubblica pro capite sostenuta nelle singole regioni italiane. Valutando la media degli ultimi tre anni disponibili (dal 2012 al 2014) si scorge infatti quasi un abisso tra gli 8.647 euro annui pro capite spesi in Lombardia e i 15mila spesi in Valle d’Aosta o gli oltre 13mila spesi nel Lazio. Lo sottolinea il Centro studi ImpresaLavoro, che ha rielaborato i dati contenuti nel rapporto annuale in cui la Ragioneria Generale dello Stato analizza la dimensione e l’andamento della spesa consolidata nelle regioni italiane.

Occorre precisare che il perimetro considerato nella costruzione di questi dati non coincide con le competenze di queste ultime ma si allarga a  ogni importo sostenuto nelle singole regioni da qualsivoglia organismo pubblico: tiene insomma conto delle spese dello Stato (ad esempio quelle relative al pagamento delle pensioni, degli ammortizzatori sociali o gli oneri relativi alla sicurezza o al controllo dei confini), della Regione, degli altri enti locali e di ogni fondo alimentato con risorse nazionali o comunitarie. A restare esclusi dal calcolo sono invece gli oneri relativi al pagamento degli interessi sul debito pubblico.

Osservando la classifica stilata da ImpresaLavoro, la regione con la spesa pubblica pro-capite più elevata risulta così essere la Valle d’Aosta, con 15.731 euro all’anno. Seguono il Lazio con 13.684 euro, il Trentino Alto Adige con 13.278 euro e il Friuli Venezia Giulia con 12.975 euro. In coda si collocano le regioni più grandi: la Lombardia è ultima per spesa pubblica pro-capite (8.647 euro), preceduta dal Veneto (8.734 euro) e dalla Campania (9.082 euro). La classifica cambia se si raffronta la spesa pubblica al Prodotto Interno Lordo che ogni singola regione produce. In questo caso le regioni con percentuale di spesa pubblica più elevata rispetto al Pil risultano la Calabria (66,15%), la Sardegna (59,9%) e la Sicilia (56,55%). In coda alla graduatoria troviamo invece le regioni più ricche del Nord: la Lombardia (dove la spesa pubblica pesa per meno del 25%), il Veneto (29%) e l’Emilia Romagna (30%).

«L’enorme differenza della quantità di spesa tra regioni non è semplicisticamente riconducibile alla loro collocazione geografica: si spende tanto al nord quanto al sud. Va però considerata la sua qualità» osserva Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Prendiamo ad esempio la sanità. Il livello dei servizi resi in Lombardia è nettamente migliore di quello calabrese anche se il costo pro capite è di poco superiore; per l’Istat di soli 130 euro annuali a cittadino: un’inezia. È solo un esempio che riafferma però un concetto ineludibile. Si tratta di spendere di meno ma anche e soprattutto di spendere meglio. Dal trasporto pubblico ai servizi postali troppo spesso i nostri servizi pubblici sono lontani dagli standard che ci potremmo aspettare visto il loro costo, condizionati come sono da inefficienze ed eccesso di intermediazione politica. Un esempio? Nell’area di Napoli, forse la peggio servita quanto a raccolta e smaltimento rifiuti, si paga una delle tasse sui rifiuti più alte d’Italia. Anche i costi della politica non sono uguali per tutti. Agli oltre 42 euro pro capite per il funzionamento degli organi istituzionali della Sardegna o ai quasi 32 euro della Sicilia fanno da contraltare Piemonte ed Emilia Romagna che si attestano attorno ai 5 euro annui».

Quelle Regioni unite dalla spesa

Quelle Regioni unite dalla spesa

di Massimo Blasoni – Panorama

Se ne parla poco, l’argomento sembra passato di moda, ma resta un fatto che vi sono vistose differenze nella spesa pubblica pro capite sostenuta nelle varie regioni italiane. La spesa è in via generale alta e certamente va ridotta, se vogliamo creare le premesse per una ripresa dell’economia nazionale che non sia timida come quella attuale. Tuttavia, valutando la media degli ultimi tre anni disponibili, si scorge quasi un abisso tra gli 8.647 euro annui pro capite spesi in Lombardia e i 15mila spesi in Valle d’Aosta o i 13mila spesi nel Lazio. I valori sono tratti dal rapporto annuale della Ragioneria Generale dello Stato che analizza la dimensione e l’andamento della spesa consolidata nelle regioni italiane.

Il dato considera ogni importo sostenuto nelle singole regioni da qualsivoglia organismo pubblico, tiene dunque conto delle spese dello Stato, della Regione, degli altri enti locali e di ogni fondo alimentato con risorse nazionali o comunitarie, enti previdenziali compresi: tutto insomma. Nella classifica dei più spendaccioni, dopo i già citati Valle d’Aosta e Lazio, seguono Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Sardegna. Tra le più parche, a far compagnia alla Lombardia ci sono il Veneto ma anche regioni del sud come Campania e Puglia che non superano i 10mila euro annui a persona. Verrebbe da dire che è meglio nascere in Trentino Alto Adige che nelle Marche, visto che le risorse pro capite disponibili sono del 50% superiori.

L’evoluzione della spesa fa riflettere. Da un lato se ne ricava che l’enorme differenza della quantità di spesa tra regioni non è semplicisticamente riconducibile alla loro collocazione geografica, insomma si spende sia al nord che al sud. Dall’altro, oltre alla quantità, occorre considerare la qualità della spesa.

Prendiamo ad esempio la sanità. Il livello dei servizi resi in Lombardia è nettamente migliore di quello calabrese anche se il costo pro capite è di poco superiore; per l’Istat di soli 130 euro annuali a cittadino: un’inezia. È solo un esempio che riafferma però un concetto ineludibile. Si tratta di spendere di meno ma anche e soprattutto di spendere meglio. Dal trasporto pubblico ai servizi postali troppo spesso i nostri servizi pubblici sono lontani dagli standard che ci potremmo aspettare visto il loro costo, condizionati come sono da inefficienze ed eccesso di intermediazione politica. Un esempio? Nell’area di Napoli, forse la peggio servita quanto a raccolta e smaltimento rifiuti, si paga una delle tasse sui rifiuti più alte d’Italia. Anche i costi della politica non sono uguali per tutti. Agli oltre 42 euro pro capite per il funzionamento degli organi istituzionali della Sardegna o ai quasi 32 euro della Sicilia fanno da contraltare Piemonte ed Emilia Romagna che si attestano attorno ai 5 euro annui. Resta infine l’annosa querelle sui residui fiscali.

Insomma, ci sono regioni che ricevono dalla mano pubblica più di quello che versano in tasse e imposte e viceversa: un tema spinoso. Su un punto però siamo tutti d’accordo. Al di là di tutti i propositi di razionalizzazione della spesa degli ultimi governi ben poco si è ottenuto: la spesa corrente in valore assoluto non accenna a diminuire e restiamo tra i più spendaccioni d’Europa.

Non salveremo il welfare (solo) con gli immigrati

Non salveremo il welfare (solo) con gli immigrati

di Gianni Zorzi, docente di Finanza dell’impresa e dei mercati e ricercatore del Centro studi ImpresaLavoro

Nel presentare alla Camera la Relazione Annuale dell’Inps, il presidente Tito Boeri ha sostenuto che chiudere le frontiere agli stranieri comporterebbe uno sbilancio dei conti del nostro welfare tale da richiedere «una manovrina ogni anno per ventidue anni», con un totale di 38 miliardi di euro di buco da coprire da qui al 2040. Il numero eclatante, frutto di una simulazione a cui l’Inps ha dedicato un’intera sezione del suo rapporto, rischia di creare però più confusione che altro nel più ampio dibattito in corso su accoglienza e integrazione degli immigrati.

In primo luogo, non va confuso il tema con quello degli sbarchi dal Mediterraneo e dei relativi costi dell’accoglienza, che secondo le ultime stime di ImpresaLavoro potrebbero avvicinarsi nel corso del 2017 alla quota dei 5 miliardi di euro, a tutto carico della fiscalità generale. Anzi, la relazione dell’Inps sottolinea in più punti i benefici ottenuti dalla regolarizzazione dei rapporti di lavoro, promossa anche con gli interventi normativi del 2002 e del 2012: il punto allora non sarebbe l’apertura o chiusura delle frontiere, ma la possibilità di incanalare concretamente il flusso di migranti sui binari della regolarità lavorativa in luogo della clandestinità e del sommerso. La stima dei 38 miliardi si fonda infatti esclusivamente sul rapporto tra i contributi che i lavoratori regolari versano all’ente negli anni di attività e le prestazioni che dallo stesso riscuotono in un secondo momento, ovvero negli anni di quiescenza, con particolare riferimento agli assegni pensionistici.

Proprio per le dinamiche previdenziali del nostro sistema, a ripartizione e orientato al contributivo, bisogna sempre tenere a mente che i versamenti dei lavoratori rivestono una duplice funzione: nel breve periodo quella di garantire, mese per mese, il pagamento degli assegni agli attuali pensionati, e nel lungo quella di costituire il montante che fungerà da base di calcolo per la pensione propria.

Se ci riferissimo al ciclo di vita intero dei contribuenti stranieri, persino il 2040 risulterebbe un orizzonte troppo ravvicinato: è la stessa Inps che ammette che al di là di quella data i numeri andrebbero aggiustati per considerare il progressivo incremento delle prestazioni, ovvero del sempre maggior numero di pensioni che verrebbero liquidate agli stranieri. A meno che non si ipotizzi che il flusso di giovani lavoratori stranieri continui a ritmo incessante e che la speranza di vita di quelli residenti risulti inferiore a quella media degli italiani su cui si calcolano le pensioni. È pur vero che la popolazione straniera residente in Italia, secondo gli ultimi dati Istat (2016), è arrivata all’8,3 per cento e dunque è cresciuta di oltre quattro volte rispetto a ciò che risultava a inizio millennio.

Tra le principali economie dell’Europa, l’Italia è quella che ha visto crescere il dato in misura maggiore, superando nel contempo la Francia (poco più del 6 per cento) e arrivando a un passo dal 10 per cento della Germania e della Spagna. Risulta ancora più evidente, dunque, che ancora per molti lustri il numero di pensionati stranieri dovrebbe essere di gran lunga inferiore a quello dei rispettivi contribuenti. Secondo i numeri ufficiali, da noi ci sono oltre due milioni di lavoratori migranti, in larga parte dipendenti (82 per cento), con un trend stabilizzatosi negli ultimi dieci anni; in costante aumento figurano invece gli autonomi (che hanno quasi raggiunto la quota di 400mila unità), mentre in lieve riduzione da tre anni, dopo un primo boom, risultano i lavoratori domestici. Prevalgono comunque in ogni categoria gli extracomunitari, per una quota di circa 1,6 milioni di lavoratori ovvero il 70 per cento del totale.

Il reddito medio pro-capite dichiarato è considerevolmente inferiore a quello degli italiani (circa un terzo in meno) ed è condizionato inizialmente anche da un numero minore di ore lavorate. Le entrate che garantiscono ogni anno alle casse dell’Erario corrispondono tuttavia a quasi 11 miliardi di contributi previdenziali e a 7 miliardi di Irpef, secondo quanto risulta nell’ultimo Rapporto sull’immigrazione della Fondazione Moressa. Molto più incerte sono invece le stime sulle uscite di spesa pubblica al netto delle pensioni che, come ribadito, al momento sono limitate.

Approfondendo le dinamiche degli iscritti all’Inps, si scopre che ogni anno una quota vicina al 6 per cento dei lavoratori stranieri (oltre 100mila l’anno) abbandona il posto di lavoro in Italia ed è rimpiazzata da nuovi “entranti”, a un ritmo che negli ultimi anni si è però ridotto, complice con ogni probabilità la crisi e la conseguente ridotta appetibilità della nostra economia rispetto ad altre dell’Unione Europea.

L’età invece risulta sempre più bassa tra i nuovi entranti (con un aumento sensibile degli under 25), ma complessivamente in aumento tra i residenti, ed è legata – si legge nel rapporto – alle normali dinamiche di invecchiamento della popolazione. In altre parole, continuiamo a importare forza lavoro in prevalenza giovane, mentre nel contempo gli stranieri residenti iniziano (lentamente) a maturare una propria anzianità contributiva. Tutti quanti però ancora per un bel pezzo contribuiranno a pagare gli assegni agli italiani prima di incassare quelli di propria competenza.

A quel punto, però, il pericolo dei mancati incassi contributivi dagli stranieri dovrebbe corrispondere a una riflessione di stampo più puramente demografico nonché occupazionale. Il problema infatti si porrebbe nel solo caso in cui gli italiani non riuscissero a sopperire al “gap” di forza lavoro mancante nelle ipotesi di mancato afflusso di stranieri, che l’Inps ha quantificato in 140mila nuove unità all’anno: una cifra non spaventosa se rapportata, ad esempio, ai livelli attuali di disoccupazione del nostro paese.

Sotto questo punto di vista, dunque, appaiono ben più pertinenti le riflessioni sulle tematiche che coinvolgono il potenziamento delle politiche per la famiglia e per la natalità, la crescita e l’occupazione, possibilmente senza dimenticare il fattore di equità intergenerazionale che dovrebbe guidare l’ampio settore della previdenza pubblica: tematiche peraltro trasversali rispetto alla nazionalità del contribuente.

LO “SBILANCIO” PREVIDENZIALE

di Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

L’affermazione di Boeri che a salvare i conti in perdita dell’Inps con i loro versamenti contributivi siano gli stranieri è fuorviante. Il tema centrale​ è semmai quello dei contributi silenti, che colpisce in egual misura lavoratori italiani e non. Si tratta infatti di versamenti che non sono sufficienti a maturare alcun trattamento previdenziale se versati per un periodo inferiore ai 20 anni di lavoro e che l’Istituto si guarda bene dal restituire. Se Boeri ne rendesse noto l’ammontare emergerebbe un paradosso intollerabile. Quello per cui ad alcuni capita di versare “a vuoto” i contributi senza maturare alcun diritto alla pensione mentre moltissimi altri, come è noto, incassano ogni mese un assegno previdenziale largamente superiore ai contributi versati nel corso della propria attività lavorativa: un frutto avvelenato lasciatoci in eredità da chi ha applicato in maniera generosa e irresponsabile il sistema retributivo, mettendo a rischio la tenuta del sistema previdenziale.