massimo blasoni

Via la Tasi? Non basta, il salasso sulla casa vale 11 miliardi in più

Via la Tasi? Non basta, il salasso sulla casa vale 11 miliardi in più

di Antonio Signorini – Il Giornale

Dovevano essere le tasse delle autonomie locali, quelle pagate in cambio di servizi ben definiti e visibili. Poi, per ammissione dello stesso Mario Monti – che da premier le ha trasformate in un incubo per gli italiani – sono state classificate per quello che sono. Tasse patrimoniali, balzelli che colpiscono la proprietà preferita dagli italiani, quella immobiliare. Oggi scade il termine per pagare il saldo Imu e Tasi per il 2016. Appuntamento fiscale capace di rovinare preventivamente le feste (cade in piena zona regali) e castrare la ripresa dei consumi.

Il centro studi ImpresaLavoro ha calcolato l’entità della stangata. Entro oggi circa 25 milioni di italiani dovranno pagare, nonostante l’abolizione delle tasse sull’abitazione principale. Il mattone resta la forma di risparmio più diffusa in Italia e sono ancora molti a possedere una seconda casa oppure un immobile strumentale. Cioè adibito a un’attività imprenditoriale, categoria inspiegabilmente non inclusa nell’esenzione. Dopo il livello record raggiunto nel 2015 (52,3 miliardi di euro), il gettito complessivo sugli immobili in Italia si riduce quest’anno a 49,1 miliardi con una flessione quantificabile nel 6,1 per cento.

«La pressione fiscale risulta comunque ancora ben lontana dai livelli del 2011, rispetto ai quali l’incremento risulta di 11,4 miliardi su base annua, segnando in termini relativi un corposo più 30,2 per cento», spiega il centro studi presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni. «Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa – osserva Blasoni – la tassazione sugli immobili nel nostro Paese continua a essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una vera e propria patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio. Una manovra che ci venne richiesta a gran voce dall’Europa e che ha prodotto effetti negativi su molti versanti: ha impoverito il patrimonio delle famiglie, messo in ginocchio il settore dell’edilizia e generato grande incertezza, deprimendo consumi e domanda interna».

I numeri confermano questa lettura. Il gettito fiscale da immobili è aumentato nonostante siano in flessione le compravendite e quindi sia venuto meno molto gettito da imposte di registro. Cresce solo la quota patrimoniale, cioè le tasse pagate solo per il fatto di possedere un bene, più che raddoppiata (+173%) a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (-29%) e a quelle sul reddito immobiliare, sostanzialmente inalterate secondo quanto risulta a ImpresaLavoro, nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti. I 3,6 miliardi di gettito in meno rispetto all’anno precedente sono integralmente attribuibili al taglio della Tasi. Restano invece stabili a 20,4 miliardi su base annua le entrate derivanti dall’Imu: la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è comunque più che raddoppiata rispetto al 2011 quando valeva 9,2 miliardi. E in cinque anni il gettito derivante dalle tasse sui rifiuti è passato da 5,6 a 8,4 miliardi di euro.

 

Blasoni: «Non mi uniformo a Confindustria, io voto No»

Blasoni: «Non mi uniformo a Confindustria, io voto No»

di Antonio Signorini – Il Giornale

Per nulla convinto dal merito delle riforme, sicuro che il governo Renzi abbia sbagliato bersaglio rinunciando a favorire la vera innovazione, quella che si fa con le aziende e nella pubblica amministrazione. Massimo Blasoni è un imprenditore di successo. Al referendum del 4 dicembre voterà No, quindi non seguirà le indicazioni di viale dell’Astronomia. «Non tutti gli imprenditori si uniformano a Confindustria. L’idea che votare Sì rappresenti un momento di innovazione contrasta palesemente con la realtà», spiega al Giornale il presidente del Centro studi ImpresaLavoro.

Eppure secondo il ministro Boschi chi vota No è contro il cambiamento…

«Ci sono due modi diversi di dire No: quello della sinistra più retriva che non vuole cambiare, ma anche quello di chi vuole più innovazione e vuole cambiare o rimuovere tutto ciò che impedisce al Paese di ripartire. Chi vuole dare una risposta al fatto che l’Italia è ancora sotto i livelli di Pil pre crisi, intorno all’uno per cento, contro il 3% di Spagna e Irlanda. La Costituzione va cambiata».

La Carta ha un peso sulla competitività del Paese?

«In negativo, perché risente della presenza nell’Assemblea costituente di un Partito comunista allora rilevantissimo. Va cambiata consentendo più facilmente l’innovazione».

Cosa cambierebbe?

«L’articolo 41».

Perché?

«Al primo comma recita che l’iniziativa privata economica e libera, ma poi si contraddice al terzo comma, stabilendo che l’attività pubblica e privata debba essere finalizzata ai “fini sociali”. Questa pretesa dello Stato di coordinare l’attività economica è un grande freno per l’impresa»›.

Altra obiezione del fronte del Sì: se vince il No, è rischio la stabilità del Paese. Condivide questi timori?

«Il rischio di instabilità nel nostro Paese non si risolve con un Senato di nominati. Pesa semmai la nostra incapacità di fare riforme economiche. La situazione delle pensioni resta grave, così come quella del credito o della giustizia civile. Chi può avere voglia di investire in Italia quando per regolare una qualunque contesa sono necessari anni? A settembre del 2016 il debito è cresciuto di oltre 37 miliardi. Il costo degli interessi è sceso ma la spesa corrente e il debito continuano a crescere. Sono queste le vere cause della instabilità del Paese. La riforma costituzionale è fatta male proprio perché non incide su quei dati strutturali che sono la causa dell’instabilità del Paese».

Nel merito, le riforme del governo la convincono?

«Da cittadino riesco a immaginare con fatica senatori, non eletti ma nominati, che dovranno svolgere il doppio lavoro di rappresentanti in Parlamento ed eletti nei consigli. Le riforme non semplificano il procedimento legislativo come sostiene il governo. Sarebbe stato meglio superare definitivamente il bicameralismo abolendo il Senato».

Che prospettive vede per il dopo voto?

«Io spero che vinca il No, ma ritengo che in ogni caso il Paese abbia bisogno di andare a votare, ha bisogno di una leadership eletta che comprenda fino in fondo i temi dell’economia. Un governo che distribuisca meno bonus e faccia più riforme».

 

Perché la digitalizzazione può far impennare la produttività

Perché la digitalizzazione può far impennare la produttività

di Massimo Blasoni – Formiche.net

Se malauguratamente ci tocca un ricovero in una città che non è la nostra scopriamo che gli ospedali non dialogano informaticamente tra loro, nemmeno in una stessa regione. Eppure cartelle cliniche condivise potrebbero salvarci la vita. Difficilmente in Italia potremo prenotare in via telematica i nostri esami o riceverne a casa l’esito.

Il basso livello di digitalizzazione non riguarda solo la sanità e nemmeno solamente la Pubblica Amministrazione. L’Aci ad oggi tiene aggiornato il Pubblico Registro Automobilistico che contiene informazioni sulle nostre vetture mentre allo stesso compito attende il ministero dei Trasporti attraverso la Motorizzazione. I due archivi gestiscono informazioni analoghe senza comunicare e con un’evidente sovrapposizione. Solo il 10 per cento delle imprese italiane vende anche online i propri prodotti e siamo tra gli ultimi per quanto riguarda l’informatizzazione aziendale.

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Siano i contribuenti a valutare e sanzionare i dirigenti pubblici

Siano i contribuenti a valutare e sanzionare i dirigenti pubblici

di Massimo Blasoni – Libero

In materia fiscale lo Stato ha peccato di presunzione. Dal 1993 ha presunto infatti di conoscere il reddito dei lavoratori autonomi grazie al confronto delle loro dichiarazioni fiscali con i famigerati studi di settore. Il risultato di questa politica è a tutti noto: chi non rientrava in quei parametri spesso astratti di coerenza e congruità andava trattato senza alcun riguardo come un truffatore, mentre agli evasori fiscali era sufficiente dichiarare redditi formalmente in regola con le stime decise a tavolino dallo Stato.

Nel decreto fiscale in corso di approvazione, gli studi di settore vengono ora sostituiti da indici sintetici di affidabilità di ciascun contribuente. Si chiameranno indicatori di compliance e saranno in buona sostanza una pagella stilata dallo Stato, beninteso sulla base di regole e relative punizioni decise dallo Stato. Al netto dell’ennesimo anglicismo, non sembra un gran cambiamento. E se per una volta cambiassimo paradigma? Pensate a cosa succederebbe se fossero invece i contribuenti a poter stilare una valutazione dell’indice di affidabilità delle singole pubbliche amministrazioni, insomma fossero possibili sanzioni per quei dirigenti e funzionari pubblici che lavorano male, con ritardi inaccettabili, di fatto ostacolando l’attività delle imprese e dei lavoratori autonomi.

Non credo di esagerare: in fin dei conti come ricordava Margaret Thatcher «non esistono i soldi pubblici, piuttosto soldi dei contribuenti». La Pubblica amministrazione impiega in media 131 giorni prima di pagare i suoi fornitori privati (ha ancora debiti per 61,1 miliardi) e impone mediamente 227 giorni di attesa per il rilascio di una concessione edilizia. Ci sono aziende sanitarie in Calabria che saldano i propri debiti abitualmente dopo un anno. La giustizia civile richiede mediamente 590 giorni per un esito in primo grado e certo non è finita li. Non sono rari i fallimenti causati da questi ritardi.

Ribadisco: così non può funzionare. Anche perché se un cittadino non paga una qualche tassa scattano (giustamente, sia chiaro) multe severissime, mentre lo Stato paga o giudica quando vuole senza che vi sia nessuna possibilità di sanzione per i suoi ritardi. Dunque per migliorare il rapporto di fiducia fra Stato e imprese perché non affiancare agli indicatori di affidabilità fiscale anche quelli di efficienza per la PA?

Confindustria sbaglia: non sarà questa riforma a farci ripartire

Confindustria sbaglia: non sarà questa riforma a farci ripartire

di Massimo Blasoni – Il Fatto Quotidiano

Confindustria e diverse altre organizzazioni si schierano apertamente per il Sì al referendum, sostenendo che questa riforma sarà in grado di velocizzare il processo normativo e creare le condizioni per una stabile ripresa economica. Sono un imprenditore anch’io – una realtà che occupa 2.000 persone – tuttavia non sono d’accordo e provo a spiegarne le ragioni.

Primo: le leggi non devono essere approvate velocemente ma semmai scritte bene e in maniera chiara affinché la loro applicazione non venga poi vanificata o ritardata da una pletora di ricorsi. D’altra parte il bicameralismo perfetto, che ora si vuole abolire, non ha mai impedito l’approvazione rapidissima di leggi considerate prioritarie (magari perché utili agli stessi partiti): a dettare i tempi in Parlamento è sempre e soltanto la volontà politica. Non hanno senso poi senatori dopolavoristi e non eletti direttamente.

Secondo: l’economia cresce se si consente agli imprenditori di creare ricchezza e dare lavoro. Non voglio fare il benaltrista, ma credo che sarebbe stato molto più utile modificare l’articolo 41 della Costituzione. Al primo comma recita che «L’iniziativa economica privata è libera». Un principio liberale fondamentale che purtroppo viene subito contraddetto al terzo comma: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». È stata proprio l’osservanza a questo principio ideologico dell’indirizzo statalista che prefigura il “coordinamento” pubblico a costruire un eccesso di regole che frenano lo sviluppo delle aziende, trasformando la burocrazia in un micidiale ostacolo alla crescita economica. Già nel 2010 l’allora ministro Tremonti propose di sostituire quel comma con una frase semplice ma rivoluzionaria: «È permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge». Una formulazione che avrebbe introdotto, ad esempio, la totale autocertificazione per le Pmi e le imprese artigiane, spostando ex post il momento dei pur necessari controlli e verifiche dei requisiti richiesti per legge. Non se ne fece nulla allora, non se ne è discusso nemmeno questa volta. Ecco perché, al netto di molte altre ragioni, il 4 dicembre voterò no. Con buona pace di Confindustria.

La crescita può attendere

La crescita può attendere

di Massimo Blasoni – Panorama

Diciamolo con chiarezza, i tre anni di governo Renzi sono stati contraddistinti da previsioni di crescita puntualmente smentite – purtroppo in negativo – come le correlate previsioni su deficit e debito. È significativo che il deficit di bilancio resti sostanzialmente inalterato: era il 2,6% nel 2015, pressoché tale è rimasto quest’anno in barba a ogni impegno preso con il Fiscal Compact. Non riusciamo peraltro a uscire dalla spirale perversa di un debito pubblico che ci ripromettiamo di ridurre e che invece continua a crescere.

La crisi economica è globale ma vi sono in Italia aspetti peculiari le cui colpe vanno ascritte al nostro governo. Non si sono infatti ottenuti risultati significativi sul fronte della riduzione della spesa, peggio, si è contratta quella per investimenti mentre è cresciuta quella corrente. Eppure avremmo un gran bisogno di investimenti in infrastrutture fisiche e soprattutto digitali. Per capirci, mentre nel Regno Unito tra il 2010 e il 2015 la spesa per investimenti saliva da 58,6 a 68,1 miliardi, nel nostro Paese è scesa da 46,7 a 37,4 miliardi. Per converso la nostra spesa corrente, al netto degli interessi sul debito, è salita dai 671 miliardi del 2012 ai 701 del 2016. Nel Regno di Sua Maestà, invece, nello stesso periodo si è registrata minor spesa per più di 50 miliardi.

Non induca in errore il fatto che i trasferimenti agli enti locali – comuni e regioni – sono stati ridotti dal nostro governo, perché per contraltare si è ampliata la voragine dei conti INPS e si sono incrementate numerose altre voci di spesa. Nemmeno sul tema lavoro il governo merita la sufficienza. Il Jobs Act funziona poco e, ridotta la decontribuzione, l’occupazione a tempo indeterminato sta calando mentre resta preoccupante il dato relativo ai giovani. La disoccupazione giovanile oggi è 17 punti percentuali superiore a quella del 2007, peggio di noi fa solo la Grecia. Peraltro si investe poco sul futuro: restiamo tra gli ultimi in Europa per numero di laureati, capacità digitale e di innovazione. I vari bonus, partendo dagli 80 euro, non hanno sortito effetti visibili tanto che i consumi domestici languono e la povertà cresce. Nel 2015 le persone in condizione di povertà assoluta erano 4 milioni e 598 mila, il valore più alto registrato nell’ultimo decennio. I primi dati sull’anno in corso purtroppo sono anche peggiori. Infine le tasse: molto si può dire ma il dato oggettivo è che le entrate erariali a luglio di quest’anno erano di circa nove miliardi superiori a quelle incassate dallo Stato nello stesso periodo dell’anno scorso.

Sia chiaro, questo stato di cose – non siamo gufi – non è frutto di un ordine necessario e irreversibile. Abbiamo citato la spending review inglese, potremmo ricordare la crescita spagnola. Per conseguire risultati occorre però un cambio radicale nella mentalità di governo, impresa e sindacato. Un’evoluzione che Renzi non è stato in grado di indurre, troppo preso da interventi in chiave elettorale e poco capace di intuire il tempo a venire. L’attuale legge di Bilancio ne è un esempio: pochi investimenti e troppa attenzione al consenso.

Per l’accoglienza dei profughi abbiamo già speso 12 miliardi

Per l’accoglienza dei profughi abbiamo già speso 12 miliardi

di Francesco Borgonovo – La Verità

Ieri Mario Morcone, capo del Dipartimento per l’Immigrazione del ministero dell’Interno, si è presentato davanti al Comitato Shengen per un’audizione. Il superprefetto alle dipendenze di Angelino Alfano è l’uomo che dovrebbe occuparsi di gestire l’emergenza immigrazione per conto del governo. Ma, stando alle sue dichiarazioni, pare che il suo compito sia piuttosto quello di sponsorizzare l’ospitalità. «L’accoglienza ci costa un miliardo e 200 milioni l’anno, ampiamente sotto quello che i migranti che vivono nel nostro Paese e lavorano legittimamente ci restituiscono sotto forma di Pil» ha detto ieri. Quello fornito da Morcone è un dato singolare, che fa a pugni con quanto dichiarato dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan nei giorni scorsi. Nel testo della manovra presentata dal governo, infatti, sta scritto che «al netto dei contributi Ue», il costo dell’accoglienza «è attualmente stimato a 2,6 miliardi di euro per il 2015, previsto a 3,3 miliardi per il 2016 e a 3,8 miliardi per il 2017, in uno scenario costante, assumendo che non ci siano escalation nella crisi».

Dove sta la verità? Quanto ci costa davvero accogliere gli stranieri? A fare chiarezza provvede una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, che vi presentiamo in esclusiva. Le cifre che emergono non soltanto sono altissime, ma sono pure diverse sia da quelle diffuse da Morcone sia da quelle presentate da Padoan. Secondo ImpresaLavoro, infatti, «il conto complessivo negli ultimi sei anni supera gli 11 miliardi di euro, con una progressione impressionante: spenderemo nel 2016 cinque volte la cifra impegnata nel 2011, con un esborso per le casse dello Stato che arriverà a 4,11 miliardi di euro su base annua». Alla fine del 2016, infatti, «saranno sbarcate sulle nostre coste 162mila persone, 9mila in più rispetto allo scorso anno e 8mila in meno rispetto al picco fatto registrare nel 2014, quando arrivarono in Italia 170mila migranti».

C’è un aspetto ulteriore della questione: non soltanto aumentano i flussi, ma crescono le persone che affollano i centri deputati all’ospitalità. «Nel 2013 nel sistema di accoglienza erano ospitate 22.118 persone, praticamente triplicate l’anno successivo (66mila) per superare quota 100mila nel corso del 2015», spiegano gli esperti di ImpresaLavoro. «L’ultima ricognizione è del 18 ottobre e certifica 164mila presenze tra centri di accoglienza, strutture temporanee e sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati». Il settore dell’accoglienza, ad oggi, «assorbe 2,4 miliardi di euro, circa il 50% della spesa complessiva». Nelle voci di bilancio vanno considerati anche il fondo per i minori stranieri non accompagnati e le commissioni territoriali che esaminano le richieste di asilo politico. Poi ci sono le spese amministrative, comprese quelle del ministero dell’Interno. Infine, c’è il soccorso in mare, per cui «spenderemo quest’anno poco più di un miliardo che servirà sostenere le spese per gli uomini e i mezzi della Difesa, delle Capitanerie di porto e della Guardia di Finanza». Non è finita. A tutto ciò vanno aggiunte le spese relative alle cure ricevute dagli stranieri irregolari e rimborsate dal ministero dell’interno alle varie Asl. E come dimenticare i costi per l’istruzione degli alunni stranieri irregolari? «Al 31 dicembre di quest’anno per la somma di queste due funzioni avremo speso ulteriori 689 milioni di euro», dice ImpresaLavoro.

Vediamo allora di tirare le somme. Nel 2011, il totale dei costi dell’accoglienza ammontava a 828 milioni di euro. Nel 2012 siamo saliti a 834 milioni. Nel 2013 eravamo già a 1 miliardo e 255 milioni. Poi si verifica l’exploit: 2,045 miliardi nel 2014 e 2,616 miliardi nel 2015. Per il 2016, la previsione di ImpresaLavoro è di 4,115 miliardi. Significa che, dal 2011 alla fine di quest’anno, gli stranieri irregolari ci saranno costati quasi dodici miliardi (11,7 per la precisione). E per il 2017 la proiezione è di una spesa pari a 4,174 miliardi.

Domanda: come è possibile che le stime di Padoan – utili a ottenere la flessibilità dall’Europa – siano inferiori? Semplice: il ministero dell’Economia ha tenuto conto di un scenario costante». Cioè ha presunto che i flussi di stranieri in entrata non aumenteranno. Tuttavia, i dati forniti dal ministero dell’Interno mostrano un crescente aumento degli sbarchi, quindi le spese sono destinate a salire. Va notato, fra l’altro, quanto sia risibile il contributo dell’Europa. Bruxelles trasferisce al nostro Paese «in media 110 milioni su base annua. Erano 94 milioni nel 2011, sono arrivati a 160 nel 2014 e sono scesi a 112 nel 2016. Niente a che vedere con i 3 miliardi che sono stati riconosciuti alla Turchia».

Secondo Massimo Blasoni, imprenditore e presidente di ImpresaLavoro, «emerge con chiarezza che i costi per la gestione di questa emergenza stanno crescendo esponenzialmente di anno in anno. L’effetto è generato in parte dall’aumento degli sbarchi, in parte dalla lentezza con cui il nostro sistema esamina le richieste di asilo e dispone gli eventuali rimpatri». A parere di Blasoni, «senza una vera politica europea di redistribuzione dei profughi tra tutti i Paesi rischiamo di ritrovarci con una pericolosa bomba nei nostri conti pubblici». Una bomba le cui dimensioni, a quanto pare, sfuggono tanto a Morcone quanto a Padovan.

Presentazione “La Buona Spesa” al Circolo degli Esteri

Presentazione “La Buona Spesa” al Circolo degli Esteri

In collaborazione con: Circolo degli Esteri e Fullbright Association

Mercoledì 12 ottobre 2016 – ore 19

Lungotevere dell’Acqua Acetosa, 42 – Roma

Presentazione del libro

LA BUONA SPESA: DALLE OPERE PUBBLICHE ALLA SPENDING REVIEW. GUIDA OPERATIVA
di Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo

Introduce e modera

l’Ambasciatore Alberto Schepisi

Interverranno:

Professore Antonio Marzano
Già Ministro delle Attività Produttive, Presidente del CNEL

Professoressa Maria Teresa Salvemini Ristuccia
Università di Roma – La Sapienza

Professore Giuseppe Di Taranto
Università LUISS

Massimo Blasoni
Imprenditore, Presidente del Centro Studi Impresa Lavoro

 

PIL, gli sbagli del Governo

PIL, gli sbagli del Governo

di Massimo Blasoni – Metro

Preoccupa davvero che il ministro dell’Economia Padoan, nel replicare alle accuse di eccessivo ottimismo mossegli da Bankitalia (e non solo), abbia definito «ambizioso ma realizzabile» l’obiettivo di una crescita dell’1% del nostro Pil. Col risultato surreale di spacciare come un successo un eventuale “+ zero virgola qualcosa” quando tutti i nostri partner europei sono ormai da molto tempo ritornati ai livelli pre-crisi (con l’eccezione della Spagna, che pur senza un governo cresce comunque a una velocità tripla della nostra). A suscitare più di un interrogativo è poi la sostanziale inaffidabilità di questo tipo di previsioni: un dato che accomuna il governo Renzi a quelli che lo hanno preceduto.

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