Matteo Renzi

Nazareno Economico

Nazareno Economico

 Davide Giacalone – Libero

La recessione, confermata dai dati Istat, è una sorpresa solo per chi ha voluto credere alle favole. La contemporanea crescita della produzione industriale non smentisce quel quadro fosco, semmai conferma che scivoliamo perché continuiamo a mettere sulle spalle dell’Italia che corre la zavorra insopportabile dell’Italia inerte. Della seconda fa parte anche una politica tutta concentrata nel mostrarsi dinamica su temi che, nel migliore dei casi, daranno frutti in un tempo troppo lungo. Al contrario di quanti non riescono ad accettare l’idea stessa che esista un patto fra Renzi e Berlusconi, pertanto, a me sembra che quello sia destinato a restare roba politicista, se non sarà in grado di estendersi alle scelte economiche. Serve un Nazareno dell’economia. Altrimenti il primo sarà solo una parentesi nel nulla.

Ne trovo conferma nelle parole di Pier Carlo Padoan, che, rispondendo alle domande di Roberto Napoletano, si mostra ripetutamente stralunato e isolato. Assicura, il ministro dell’economia, che non supereremo il 3% del rapporto fra deficit e prodotto interno lordo. Il direttore del Sole 24 Ore, gli chiede, incredulo, come questo sia possibile, visto che la spesa corre, il debito sale e il pil scende. Risponde: «In base alle informazioni che ho adesso …». Siamo ad agosto, mancano quattro mesi alla fine dell’anno. Se quelle informazioni sono esatte, ci dica quali sono e in che consistono. Se sono campate per aria vuol dire che al ministero dell’economia guidano bendati. In ogni caso, il tema della stagnazione recessiva non è un esclusivo problema di contabilità pubblica, lo scivolare indietro e il non riuscire a far presa sul terreno e riprendere a camminare, non è un malanno solo dal punto di vista dei parametri e dei conti statali, è un dramma collettivo, un danno economico, un segno che il guasto è profondo. E mentre sui numeri statali si può raggiungere un qualche accordo (ci credo poco), o anche barare (non è bello, ma neanche nuovo), i conti con la realtà non si possono eludere. Non ho visto la faccia di Padoan quando il capo del governo di cui fa parte, Matteo Renzi, ha detto che punto più punto meno, cosa volete che cambi, oppure che l’estate, prima o dopo, arriva (affermazione inesatta anche dal punto di vista meteorologico). Non l’ho vista, ma la immagino.

Dice, Padoan, che si deve accelerare sulle riforme. Vero. Ma quali? Quella del Senato arriverà a compimento, in un epico scontro fra chi sostiene che nulla si deve toccare e chi ritiene che basta deformare per poter dire che è bello cambiare, nella prossima primavera. Quando sarà arrivata non servirà a nulla, senza passare da uno scioglimento del Parlamento. Sono tempi manco parenti di quelli dell’economia. Ma, dice Padoan, conta la riforma del mercato del lavoro. Vero. Ma quale? Si rende conto che, fin qui, siamo solo a un decreto sui contratti a tempo determinato? Senza contare che lo si è fatto passare dicendo che non intacca l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, il che, a parte che lo ignora, supera e seppellisce, dimostra una dipendenza ideologica da un conservatorismo che non possiamo permetterci. Per il resto, al momento mancano anche solo i progetti. Poi c’è la riforma della pubblica amministrazione, dice Padoan. Vero, ma dimostra il contrario di quel che lui crede: nel corso di quella discussione non solo una maggioranza parlamentare, ma il governo stesso di cui fa parte, per bocca di ministri, sottosegretari e del suo presidente, festeggiavano l’idea di mandare anticipatamente in pensione i dipendenti pubblici, in modo da assumerne altri. Supporlo significa non avere capito nulla di quel che ci accade. È vero che a fermare questa roba è stata la Ragioneria generale dello Stato, quindi un’amministrazione che dipende da Padoan, ma ciò ripropone la dicotomia dissociata fra chi imposta la politica e chi garantisce i conti. Fatto non nuovo e comunque pessimo. A questo aggiungete che Padoan dice di apprezzare molto il lavoro di Carlo Cottarelli, spettacolarmente scaricato da Renzi, e avrete composto l’immagine di un ministro isolato. Quasi estraneo al governo. Come se ce lo avesse messo un altro. Che è proprio quel che è accaduto.

Alcune cose sono state realizzate, dice Padoan, come la delega fiscale. Vero, ma dimostra che serve un Nazareno economico. Perché quella delega è stata resa possibile anche dal lavoro di Daniele Capezzone, in qualità di presidente dell’apposita commissione parlamentare, esponente dell’opposizione. È la conferma di quel che sosteniamo, da mesi.

Non mi disturba affatto l’esistenza del Nazareno. Sostengo, però, che l’equivoco va chiarito al più presto: se porta alle elezioni, per consentire a Renzi di restare capo del partito maggioritario e a Berlusconi di restare dominus di quello indispensabile affinché il primo non pedali a vuoto, allora ci si deve sbrigare; se, invece, punta alla legislatura, allora deve allargarsi all’economia. Altrimenti diventerà un patto fra incoscienti, incapaci e disperati.

 

Ma quale Paese vuole Renzi?

Ma quale Paese vuole Renzi?

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

«Ma Renzi le cose le fa o non le fa?». Questa è la domanda di oggi. Dopo il 40,8% nell’urna, un risultato politico storico che ha dato forza alla speranza, è arrivato il meno 0,2% del pil che segue il meno 0,1% del trimestre precedente e fa ripiombare l’Italia in recessione, con una stima annua di meno 0,3%. Alla domanda che tutti si pongono, dai vecchi saggi dell’Europa alla comunità degli investitori, imprese, famiglie, giovani, da ieri non fa più seguito la positiva attesa di qualche mese fa, ma un’aspettativa di semplice attesa. La capacità di Renzi e del suo ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, deve essere quella di agire, alla voce fatti, prima che questa aspettativa neutra si trasformi in un sentimento comune (pericolosissimo) di attesa negativa. Potremmo dire (Ritorno alla realtà, 16 maggio, Il coraggio della verità, 11 luglio) che siamo stati facili profeti, ma non lo faremo. Abbiamo l’interesse esattamente contrario: sappiamo quanto sia vitale che il Paese riparta, lo vogliamo come italiani, sappiamo che qui ci sono le competenze per cambiare con le proprie teste e con le proprie mani.

Servono investimenti interni ed europei, pubblici e privati, quelli veri, quelli possibili, non la farsa dei 43 miliardi annunciati all’Expo parlando dello sblocca-Italia. Serve un disegno di sviluppo condiviso che metta al centro l’investimento e Renzi deve dimostrare di averlo e di essere capace di realizzarlo. Mille giorni, bene, ma per fare che cosa? Chi ci osserva da fuori vuole capire se l’Italia è in grado di gestire situazioni difficili e la risposta non può non essere un disegno organico di azioni che riguardano l’economia e vengono comunicate e attuate in tempi certi. Con le risorse destinate al bonus di 80 euro, si poteva dare una scossa seria agli investimenti scegliendo la strada prioritaria di abbassare in modo significativo l’Irap, gli investimenti “producono” lavoro e consumi, ciò di cui si ha più bisogno. Non si è fatto e oggi i dati dell’Istat certificano che è, soprattutto, la caduta degli investimenti ad averci riportato in recessione. La linea di provvedimenti del fare del governo Letta (bonus per l’edilizia e altro) va proseguita e rafforzata. Non pensate che siano piccole cose, il pil si nutre di bonus che si ripagano. Si agisca, come promesso, su mercato del lavoro, riforma fiscale, macchina dello Stato e giustizia, a partire dalle due emergenze assolute che sono il civile e l’amministrativo. Sulla spending review si operi non con la logica del taglione (tolgo da qui e metto lì) ma con quella di un recupero di efficienza che riduca stabilmente i costi dello Stato. Queste sono le priorità, non le riforme istituzionali, che sono ovviamente importanti, ma vengono un attimo dopo e vanno messe a punto in Parlamento, consentendoci di uscire dalla trappola del bicameralismo perfetto evitando nuovi gattopardismi su ruolo e peso delle Regioni. L’urgenza è l’economia e guai se i mercati si dovessero convincere che chi ci governa sottovaluta. Il tema del debito pubblico e delle privatizzazioni si affronti con pragmatismo senza lasciare nulla di intentato, ricordandosi, però, sempre che la via maestra è quella di recuperare la strada della crescita.

Sia chiaro: la metà dei problemi non è colpa nostra. I troppi focolai di crisi geopolitica (Russia-Ucraina, Israele-Palestina, Siria, Iraq, Libia) frenano la crescita mondiale e chiudono fette di mercato per le nostre esportazioni, ma anche per quelle tedesche. Il vero rischio che corre l’Europa è quello di non prendere atto che, così com’è, la Germania non riesce ad essere una forza propulsiva per sé e per gli altri, manca il traino del suo mercato interno. Oggi, però, la Commissione è in stallo, la Bei non funziona come dovrebbe, la politica monetaria ha fatto e farà tutto il possibile per evitare la deflazione iniettando tanta liquidità in giro, ma perché la ripresa riparta ci vuole almeno una domanda potenziale. Per questo l’Europa sarà chiamata, nei tempi che riuscirà a darsi, a promuovere con forza un vero New Deal, dovrà dotarsi di un esercito e di una politica estera comuni. Per noi e per la nuova Europa in costruzione sarà vitale che il governo Renzi raddoppi gli sforzi e alimenti un circolo virtuoso di investimenti-aspettative-fiducia che si trasmette alle imprese e alle famiglie facendo sì che ritorni la voglia (sana) di spendere. Si deve percepire che ci sono il disegno e la reale volontà di attuarlo uscendo dalla logica del colpevole (l’Europa, la banca, il burocrate e così via) che aumenta i voti nell’urna, ma non risolleva l’economia.

Poca chiarezza su fisco e lavoro, consumatori e imprese disorientati

Poca chiarezza su fisco e lavoro, consumatori e imprese disorientati

Andrea Tavecchio – Corriere della Sera

Per chi vive il mondo delle imprese il dato negativo del Prodotto interno lordo (Pil) nel secondo trimestre del 2014 non è una sorpresa: lo si vedeva già negli andamenti di questi mesi delle aziende legate al mercato interno. In Italia, purtroppo, la domanda rimane molto debole. Il brutto dato comunicato ieri dall’Istat rende più complicato il percorso che dobbiamo fare e più lontano l’obiettivo – necessario e prioritario – di tornare al più presto alla crescita economica. L’Italia non è in grado di reggere ancora a lungo una crisi che dura da sette anni, di cui gli ultimi tre drammatici, soprattutto per l’occupazione.

Nessuno ha la bacchetta magica, specie in un Paese con il debito pari al 130 per cento del Pil – ed è prevedibile che verso il governo si alzino critiche strumentali. È indubbio, però, che l’esecutivo abbia bisogno di chiarire quale visione ha in campo economico e poi agire in modo concreto e conseguente. La mancanza di chiarezza di questi mesi, specie in campo fiscale e del mercato del lavoro, ha sicuramente disorientato consumatori e imprese. Non è coerente, ad esempio, voler far ripartire la domanda interna e alzare – in modo non selettivo – la tassazione sulle rendite finanziarie. Quest’ultima, per il piccolo imprenditore, in Italia è già altissima: bisogna abbassarla, non aumentarla. Così come non è accettabile per famiglie e imprese il balletto su Imu e Tasi. Anche il cosiddetto “bonus Renzi” da 80 euro, pur apprezzabile nello spirito, è tecnicamente infelice perché non copre i non protetti, mentre viene garantito anche a chi ha redditi familiari ingenti.

Il governo Renzi sta giocando la sua partita, specie in questi ultimi mesi, sulla necessità di modificare i meccanismi decisionali per poter cambiare poi – finalmente – la politica e le policy che questa elabora. Speriamo. Ma per tornare alla crescita economica non esistono scorciatoie: bisogna dare fiducia alle famiglie e alle imprese. Senza una visione e una agenda – in campo fiscale ed economico – chiara, concreta e coerente, questo però è impossibile. Attenzione, si rischia l’avvitamento.

Il costo delle riforme mancate

Il costo delle riforme mancate

Luca Ricolfi – La Stampa

La lezione è semplice. Renzi ha la testa dura, ma i numeri hanno la testa ancora più dura. Sbeffeggiata dal premier fino a pochi giorni fa, l’economia si sta riprendendo un’amara rivincita. L’Istat ha annunciato che l’Italia è di nuovo in recessione (altroché ripresa nel 2014!), lo spread ha ricominciato a salire, la fiducia nell’Italia è gravemente compromessa sia sui mercati finanziari sia nelle cancellerie europee. Dopo aver trattato con sufficienza chi considera importante qualche decimale in più o in meno, ora Renzi può toccare con mano che è vero l’esatto contrario: crescere o invece decrescere dello 0,2% fa differenza, avere un debito pubblico in diminuzione o in aumento fa differenza, entrare in recessione piuttosto che uscirne fa differenza. Una differenza enorme.

Dal momento che è da gennaio, ossia da ancor prima che Renzi disarcionasse Letta, che insisto sull’imprudenza delle scelte di Renzi, oggi vorrei provare a lasciarlo in pace. Non è tempo di recriminazioni e di impietosi «io l’avevo detto». Quello su cui vorrei soffermarmi, semmai, è l’ambiente in cui Renzi e i suoi fedeli operano, dove per «ambiente» intendo il complesso di credenze, convinzioni, abiti mentali che finora gli hanno reso così facile procedere come uno schiacciasassi. Sono esse, a mio parere, le vere responsabili dell’incapacità dell’Italia di risollevarsi; sono esse il male che neutralizza (o «gattopardizza», direbbe Alan Friedman) ogni vero cambiamento; sono esse l’acqua in cui il pesce Renzi nuota. Di che cosa è fatta l’acqua in cui, come un banco di gagliardi tonnetti, si muovono i nuovi governanti?

Il primo ingrediente è la credenza che il cambiamento delle regole generali (legge elettorale, forma di governo, tipo di federalismo), un’attività in cui politici, giornalisti e diversi tipi di intellettuali si trovano tremendamente a proprio agio, sia più importante della bassa cucina delle politiche economico-sociali. Che bello discutere di bicameralismo, Senato elettivo o non elettivo, democrazia, rappresentanza, soglie, preferenze, sbarramenti e premi di maggioranza! Che barba la spending review di Cottarelli, le regole del mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, le privatizzazioni, le pensioni! Qui c’è un’incredibile leggerezza e confusione, come se su una nave che affonda, con i passeggeri che si dibattono fra i flutti, le scialuppe di salvataggio che non bastano a recuperare tutti, il comandante stesse appassionatamente discutendo come sostituire la vecchia radio di bordo con un modernissimo, e sicuramente utilissimo in futuro, sistema di navigazione satellitare.

Il secondo ingrediente, spesso imputato a Tremonti ma evidentemente molto radicato nella mentalità del Paese, è l’idea che buona parte dei nostri guai economici vengano dall’esterno e che, di conseguenza, anche la nostra salvezza sia destinata a venire da fuori. È l’Europa che impone l’austerità, è l’euro che è sopravvalutato e frena le nostre esportazioni, è la congiuntura nell’eurozona che è in ritardo. Dunque è la Commissione europea che deve allentare il rigore, è Mario Draghi che deve indebolire l’euro, e quanto alla ripresa si tratta solo di aspettare. Con le parole del premier: «È un po’ come l’estate: non è che è arrivata quando volevamo, magari non è bella come volevamo, arriva un po’ in ritardo ma arriva» (esercizio: provate a immaginare che cosa sarebbe successo se, dopo 7 anni di crisi, una rassicurazione del genere l’avesse data Berlusconi). Questa visione vagamente fatalistica e attendista, che verosimilmente ha le sue radici nella storia d’Italia, con la sua lunga soggezione a invasori e popoli stranieri, è di per sé un potente fattore di sottovalutazione dell’urgenza e dell’impatto delle riforme economico-sociali. Se, almeno nel breve periodo, quasi tutto dipende da quel che succede nel mondo esterno, se il vero problema è l’Europa, beh allora perché tanta fretta sulle riforme economico-sociali? Meglio dare un segnale di cambiamento (ma i governanti preferiscono chiamarlo «svolta epocale») sul terreno delle regole, sul resto ci si annoierà più avanti. Il guaio è che questa diagnosi è difficilmente conciliabile con i dati. È vero che l’Europa cresce di meno di altre aree del mondo, ma il punto è che le differenze interne all’Europa, comprese quelle interne all’eurozona, sono enormi: la differenza fra i tassi di crescita dei Paesi-gazzella e quelli dei Paesi-lumaca è di 7-8 punti, l’Italia cresce meno della media degli altri Paesi, e la sua posizione in graduatoria è oggi esattamente quella di prima della crisi: solo 2 Paesi su 30 fanno peggio di noi.

C’è anche un terzo ingrediente, però. È il keynesismo di comodo che si impadronisce di chiunque, di destra o di sinistra, si trovi a dover governare il Paese. Che cos’è il keynesismo di comodo? È la convinzione che, nonostante lo stato drammatico dei nostri conti pubblici, la via maestra per far ripartire l’economia sia qualche forma di sostegno alla domanda di consumo, come gli 80 euro in busta paga o l’allentamento del patto di stabilità, non importa se al prezzo di aumentare il debito pubblico, ossia il fardello che lasceremo alle generazioni future. Che questa convinzione sia sostenuta, oltre che dagli interessi elettorali dei governanti, da più o meno sofisticate teorie economiche, poco toglie alla sua radicale mancanza di senso della realtà. Solo chi non ha la minima idea dei problemi di chi conduce un’impresa può pensare che la decisione di chiudere o non chiudere, di licenziare o di assumere, possa dipendere da un aumento dello 0,2% o anche dello 0,5% della domanda di consumo, e non da un sostanzioso recupero di redditività, sotto forma di riduzione del prelievo fiscale sui redditi di impresa. Per questo mettere 10 miliardi sull’Irpef anziché sull’Irap è stata una mossa geniale sul piano elettorale, ma stolta sul piano economico.

E anche qui, non si creda che Renzi sia stato particolarmente innovativo: la stessa scelta, rinunciare a mettere tutte le risorse sull’Irap, fu fatta già da Prodi nel 2007, contro il parere del suo ministro dell’Economia, il compianto Tommaso Padoa Schioppa. E’ una vecchia storia. Ai politici piace spostare risorse, ridistribuire da un gruppo sociale (nemico) all’altro (amico), perché in cuor loro sono convinti che l’ampiezza della torta da spartirsi in fondo non dipenda dalle loro scelte, mentre è vero il contrario: la politica ha fatto molto per soffocare l’economia, e molto potrebbe fare per cominciare a riparare il danno. Ma questo qualcosa si chiama riforme economico-sociali, a partire dalla dimenticata riforma del mercato del lavoro, spostata alle calende greche perché troppo scottante, o meglio troppo divisiva per il Pd. E’ sulle riforme difficili, sulle misure necessarie ma impopolari, che passa il confine fra spavalderia e coraggio, fra la retorica delle «svolte epocali» e la prosa delle scelte che contano.

 Ci sarebbe poi, se vogliamo dirla tutta, anche un ultimo ingrediente che fornisce il suo speciale sapore all’acqua delle non-riforme in cui i nostri governanti nuotano con tanta disinvolta naturalezza. Quell’ingrediente è la nostra facilità a passare da un modello al modello opposto, il nostro bisogno di affidarci a qualcuno, la nostra attrazione per ciò che appare vincente, la nostra perenne oscillazione fra indignazione e indifferenza, fra entusiasmo e apatia. Insomma, lo stato dei nostri media e della nostra opinione pubblica. Ma questo, ne convengo, è un altro discorso.

La strada sbagliata

La strada sbagliata

Alberto Bisin – La Repubblica

E così il Paese è in recessione, dice l’Istat: -0,2% nel secondo trimestre. Non è vero, come ha dichiarato il primo ministro Renzi, che «la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente dal punto di vista della vita quotidiana delle persone». Cambia moltissimo. Ma è vero che gli ultimi dati Istat poco aggiungono a chiarire la drammaticità conclamata della situazione economica del Paese. L’economia italiana è bloccata e non accenna a ripartire. Ma questo è vero da molti anni, ben prima della crisi, di Renzi, di Letta e di Monti. La verità è che il governo Renzi ha preso in mano una patata bollente e complessa. Lo ha fatto con grande energia mandando segnali contrastanti sulle linee di politica economica che avrebbe intrapreso. Questo ha dato qualche speranza che il governo riuscisse a trasmettere con successo il proprio ottimismo, attraverso politiche nuove ed incisive, anche se necessariamente, in un primo tempo, di portata limitata come gli 80 euro. Segnali positivi in un contesto in cui le economie del resto del mondo stanno iniziando a muoversi possono fare miracoli, dando fiducia e imprese e consumatori. L’effetto segnale si è spento presto però, purtroppo.

Già a fine marzo la prima reazione di Renzi al piano Cottarelli, quella del «come mamma e papà in famiglia diciamo noi cosa tagliare», aveva suggerito che le sue parole sugli interventi dal lato della spesa fossero solo parole, appunto. Il comportamento di Renzi sulla scena europea, l’insistenza sulla flessibilità, aveva poi chiarito (tranne a chi davvero non volesse vedere) che le linee della politica economica di Renzi non si sarebbero discostate dalle vecchie attitudini care al nostro Paese: di nuovo ci sarebbe stata solo spesa pubblica. L’urlo di dolore del commissario Cottarelli, che ha rivelato come il governo stesse spendendo risparmi di spesa previsti futuri ma non realizzati, è stata solo la cliegina sulla torta.

La questione concettuale importante da porsi è perché una prevista politica di domanda aggregata, di nuovi investimenti pubblici (suggerita dalla richiesta all’Europa di non includere gli investimenti nel computo del deficit) non abbia avuto gli effetti desiderati. Vi sono due ragioni, o anche tre. La prima è che la spesa pubblica nel nostro Paese è tradizionalmente inefficiente, di natura clientelare. Intervenire sulla riforma Fornero per regalare a categorie amiche qualche anno in più di pensione, come sta cercando di fare il governo in questi giorni, è esattamente questo, né più né meno. Inoltre, corruzione e scandali connessi ai grandi appalti, dal Mose all’Expo, non aiutano certo a considerare positivi gli effetti economici di nuova spesa.

La seconda ragione è che la spesa pubblica va ripagata prima o poi, attraverso nuove tasse (il canale del debito è strettissimo per ovvie ragioni), e il livello di tassazione nel nostro Paese è così elevato (e concentrato a causa dell’evasione) che nuove tasse sono un suicidio economico. La terza ragione è che politiche di domanda aggregata è quello che l’Italia fa da sempre, da quando erano di moda fino a quando non lo sono state più. I risultati sono davanti agli occhi di tutti e la ragione è che questo tipo di politiche sono fatte apposta per essere distorte dal sistema politico che le usa a dismisura per allargare la dimensione del proprio controllo.

In conclusione, la tanto vituperata e ridicolizzata idea dell’austerità espansiva non è affatto una stupidaggine se qualificata e calibrata all’Italia. Se per austerità si intendono nuove tasse o anche minori spese generalizzate, allora ovviamente non ci si può aspettare espansione economica come conseguenza. Ma se l’austerità prendesse la forma di tagli alle spese improduttive allora la questione sarebbe diversa. Ha voglia il viceministro all’Economia Enrico Morando a dichiarare che «non c’è evidenza empirica» che un’alta spesa pubblica e un’alta pressione fiscale si associno a una bassa crescita economica. Ci sarebbe da ridere se non fosse che su queste interpretazioni dei dati si fa politica economica nel nostro Paese. Provi il viceministro a condizionare alla qualità della spesa e delle tasse e poi riguardi all’evidenza empirica.

Naturalmente è facile a dirsi, tagli alle spese improduttive, ma molto più complesso farli. Per questo la capacità propulsiva del governo Renzi muore con Cottarelli. Perché la reazione violentemente negativa del governo ad un piano serio e ben fatto di spending review non può che essere interpretata come mancanza di volontà di procedere realmente (non solo retoricamente) nella direzione dei tagli di spesa. E allora imprese e consumatori sanno cosa li aspetta: nuova spesa improduttiva e nuove tasse (nascoste in qualche trucco contabile). In queste condizioni ci vuole altro che l’entusiasmo e l’ottimismo di Renzi per farle tornare a investire e consumare. E gli 80 euro appaiono per quello che ovviamente sono al di là della loro capacità di segnalare una nuova direzione di politica economica, una manovra ridicolmente inadeguata e mal congegnata.

Renzi è a un bivio, ha due strade davanti a sé, abbia il coraggio di prendere quella mai utilizzata in passato (tutto il credito a Robert Frost per l’immagine). Non cerchi di far credere al Paese che l’ha presa mentre scorrazza amabilmente e comodamente in quell’altra. I dati di oggi dimostrano che imprese e consumatori non se la bevono così facilmente.

Panico da manovra, l’Istat imbarazza R.

Panico da manovra, l’Istat imbarazza R.

Marco Bertoncini – Italia Oggi

La recessione segnalata dall’Istat non è stata certo ben accolta dalla maggioranza. Il timore diffuso, anche nel governo, è la manovra. Da decenni si procede, talora anche più volte in uno stesso anno, con «manovre correttive» che si traducono in incrementi fiscali, mascherati da ritocchi, rimodulazioni, redistribuzioni, ma nella sostanza consistenti in intacchi al portafogli. Ovviamente se il governo Renzi ricorresse a una manovra, verosimilmente robusta (dell’aumento impositivo si è già servito, ma è sfuggito alla pubblica opinione), addio discontinuità.

In effetti, le reazioni subito emerse nella maggioranza hanno badato a ridimensionare o smentire il ricorso alla manovra. Che ci siano problemi di coperture, tuttavia, è evidente: del resto, parla da sé il recente scontro proprio su buchi nelle casse tra palazzo Chigi, da un lato, e la Ragioneria dello stato col sovrappiù del commissario alla revisione della spesa pubblica, dall’altro.

Sul piano strettamente politico, sarà interessante vedere come reagirà Fi. Sono noti i (pur cauti) tentativi di apertura verso R. da alcuni esponenti del movimento berlusconiano: se gli abbiamo dato un aiutone per riforme e italicum, perché non dargli un aiutino per l’economia? C’è una riserva mentale: aiutiamolo anche per la giustizia, per vedere che cosa ci può essere concesso.

Ovviamente Renato Brunetta ha immediatamente rilanciato le polemiche contro la conduzione economica attuata da Renzi&Padoan. Finora il Cav ha lasciato fare al capogruppo dei deputati nelle sue giornaliere (e tutt’altro che campate in aria) offensive. Le nuove cifre lo spingeranno ad avallare ancor più la campagna specifica contro il governo o, all’opposto, a meditare una possibile intesa?

La recessione e le clausole più favorevoli

La recessione e le clausole più favorevoli

Mario Sensini – Corriere della Sera

Ne avrebbero fatto volentieri a meno, ma né Matteo Renzi né Pier Carlo Padoan si strappano i capelli davanti al brutto dato del Pil. Buon viso a cattivo gioco? Può darsi, ma forse c’è anche un’altra spiegazione. Quel meno 0,2% è la conferma che l’Italia è ancora in recessione. E di quelle «circostanze eccezionali», contemplate dai Trattati Ue, che consentono un allentamento del piano di risanamento dei conti pubblici. Il governo Renzi le ha invocate già ad aprile, per giustificare il maggior debito dovuto al pagamento degli arretrati dello Stato, e per spostare il pareggio strutturale di bilancio dal 2015 al 2016. Sono le stesse «circostanze» che restano oggi, e che anzi si aggravano: la crescita, negativa, sempre molto al di sotto del prodotto potenziale, la scarsa liquidità delle imprese, la necessità di varare imponenti riforme strutturali. Se erano motivi validi ad aprile, a maggior ragione lo sono ora. Quella di un ulteriore rinvio del pareggio è una strada percorribile. Il presupposto c’è, mai in base ai nuovi accordi Ue bisognerà rispettare alcune altre condizioni. La prima è quella di mantenersi sempre al di sotto del 3% del deficit. Poi bisogna rispettare la regola della spesa e quella del debito. Sulla prima non dovrebbero esserci problemi, a patto che i tagli previsti si facciano. Per stare a posto anche con il debito, invece, bisognerà fare alcune dismissioni. Nienete di impossibile, comunque, tenuto conto che la stessa crisi dalla quale l’Italia non esce dopo una raffica mostruosa di manovre correttive (solo quelle fatte dal 2011 a oggi pesano sui conti 2014 per 67 miliardi) è di per sé una buona carta da giocare per avere dalla Ue più flessibilità. Resta, tuttavia, un’ultima condizione, la più importante: il gradimento dei mercati, che al di là dei Trattati, può vanificare ogni strategia.  

E ora sistemate i conti

E ora sistemate i conti

Francesco Forte – Il Giornale

Adesso il premier Renzi non ha alibi per dilazionare le riforme economiche. Vi aveva anteposto la ambiziosa (e in parte opinabile e perfettibile) riforma costituzionale che ridimensiona il Senato e ridà allo Stato poteri che ora condivide con le «autonomie» regionali e comunali, con conseguenti veti e dilazioni. L’ostruzionismo alla riforma costituzionale dei nemici casalinghi di Matteo, che lo stava impelagando, è caduto non solo perché Ferragosto incombe, ma soprattutto a causa del supporto di Berlusconi. Ora Renzi ha la bici con la gomma davanti sgonfia: e dal primo settembre deve pedalare sulla strada delle riforme economiche. I tempi sono stretti, perché da ottobre l’Italia è sotto esame della Commissione europea, con la Merkel che l’attende al varco. Ma in primo luogo perché la Spagna ha ripreso a crescere, come l’Irlanda, mentre noi stentiamo. E ciò genera un debito altissimo, in rapporto al Pil: sfiora il 135 per cento. Berlusconi dovette dimettersi perché il rapporto debito/Pil nel 2011 era al 118% e poteva salire a 120. Fra Monti, Letta e un pochino di Renzi, in 32 mesi, lo hanno fatto crescere di 15 punti: quasi mezzo punto di Pil al mese, un bel record. Ciò è dovuto a una terapia errata fatta di maggiori imposte, in particolare sul risparmio e su chi fa più fatica e ha più meriti nel guadagno. Ciò doveva far quadrare il bilancio e ridurre il rapporto debito/Pil. Ma questo tipo di politica fiscale (con annessa guerra ideologica all’evasore vero, presunto o potenziale) ha generato depressione anziché crescita. La ripresa non c’è anche perché a queste errate scelte si sono aggiunte la riforma Fornero del mercato del lavoro che lo ha irrigidito e una politica populista e insieme neomercantilista fatta di bonus discriminati a lavoratori a basso reddito e di premi fiscali a favore di singoli settori di imprese o di singoli tipi di investimenti. E non si è privatizzato nulla. Agli eccessi di giustizialismo non si è risposto con semplificazioni e depenalizzazioni, ma con nuovi commissari. Anche Renzi ha fatto alcuni di questi peccati. Ma ha iniziato alcune riforme e prese di posizione contro lo strapotere dei sindacati e contro la adozione dei tecnocrati come surrogato alla responsabilità di chi governa. Ora che ha questa bicicletta, Renzi pedali. La più urgente riforma riguarda il mercato del lavoro. Una drastica, a modo suo, l’ha fatta la Spagna. Ed ora essa riparte bene, anche con nuove fabbriche estere di auto. Invece Fiat se ne va dall’Italia, innanzitutto perché incontrano veti e inghippi i contratti di lavoro aziendali Marchionne: un modello che essa adotta a Detroit e altrove in America. Si dia piena validità a questi contratti, anche se ciò dispiace alla Camusso e al capitalismo neocorporativo, che si intreccia con sindacato in cambio di favori di Stato. Occorre anche il ripristino delle partite Iva e di altri contratti della legge Biagi abrogati da Monti. Bisogna eliminare tutta l’Irap sui costi del lavoro. Le Regioni possono avere un contributo sanitario regionale equivalente, riducendo i contributi previdenziali diversi da quelli per pensioni e invalidità: costa 12 miliardi; lo si può fare in tre anni. Bisogna tagliare selettivamente la spesa improduttiva. Ciò a partire dalle sovvenzioni sia correnti che di investimento alle 8mila imprese pubbliche. L’investimento in infrastrutture si può fare meglio con un maggior ricorso a mercato. Sono da sfoltire anche le sovvenzioni ai privati. Riforme già note: non occorrono commissari e dossier. Renzi non ha più argomenti per evitare tali «compiti»: se i suoi non lo sosterranno, sa a chi può chiedere il voto.

Caro Renzi, aveva ragione Cottarelli

Caro Renzi, aveva ragione Cottarelli

Maurizio Belpietro – Libero

Ci sono voluti pochi giorni per capire chi avesse ragione tra Carlo Cottarelli e Matteo Renzi. Il dubbio che il commissario alla spending review avesse esagerato nel descrivere lo stato di salute dei conti pubblici è stato dissipato ieri da due notizie. La prima è la marcia indietro del governo sul prepensionamento di 4 mila insegnanti e sul tetto dell’età pensionabile per i primari, ossia sull’emendamento che proprio Cottarelli aveva dichiarato senza alcuna copertura, sostenendo che fosse stato finanziato con un generico quanto inesistente taglio di prossime spese.

La precedente settimana, quando il Parlamento aveva votato il provvedimento, il ministro della Pubblica amministrazione era stato zitto, lasciando intendere di essere favorevole alla misura. Ma poi, vista la denuncia del super commissario il quale ha di fatto dato le dimissioni beccandosi pure un poco gratificante saluto dal premier, ecco la retromarcia di Palazzo Chigi e di Marianna Madia. Segno evidente che le critiche erano fondate, altrimenti il presidente del Consiglio avrebbe tirato dritto. E allo stesso tempo prova concreta che la spending review è diventata la madre di tutte le spese, in quanto annunciando futuri tagli si dà via libera a costi immediati che prossimamente graveranno sullo stato di salute della contabilità nazionale e dunque sulle spalle dei contribuenti.

Tuttavia non c’è solo l’episodio di ieri a confermare che Cottarelli ha ragione e Renzi torto. E dunque che i tanto sospirati risparmi sulle uscite dello Stato sono solo sospirati ma non destinati a tradursi in realtà. L’altra notizia della giornata è che la sanità pugliese si prepara ad assumere 2.500 persone. Ad annunciarlo è stato il governatore della Regione che poi è pure il numero uno di Sinistra ecologia e libertà. Evidentemente, non contento di essere a capo di un sistema sanitario tra i più costosi d’Italia, tanto da dover approfittare della solidarietà del fondo sanitario da cui incassa 487 euro pro capite, Nichi Vendola vuole pure assumere. E poco importa che – come segnalava ieri il Sole 24 Ore – dal 2007 al 2013 il disavanzo della regione sia stato di 1 miliardo e 312 milioni, cioè uno dei più pesanti tra quelli registrati in Italia: il governatore prima di ritirarsi dalla politica preferisce fare un’altra infornata di medici e infermieri. Pazienza se questo si tradurrà in un aumento del ticket, che, sempre come segnalava il quotidiano confindustriale, sarà presto preso in esame con una revisione del contributo richiesto agli ammalati in base al reddito. Di questo passo altro che servizio sanitario nazionale, presto avremo il servizio sanitario fiscale, nel senso che per essere curati bisognerà presentare la dichiarazione dei redditi insieme con la carta di credito, mentre gli indigenti – e dunque la maggior parte degli immigrati – avranno cure gratis: tanto il ticket lo paga chi guadagna e versa le tasse.

È questo il fantastico mondo della spending review, che dopo le parole di Cottarelli è stata ribattezzata Spending di più. Del resto, l’operazione di rimettere in equilibrio i conti del welfare, facendo sparire il fondo sanitario che grava sulle regioni virtuose (Lombardia tra le prime) a favore di quelle che invece sono spendaccione, ha poche speranze di successo. La chiusura del rubinetto che ogni anno toglie alle Regioni meritevoli per dare a quelle che non meritano avrebbe dovuto avvenire nel 2013 e invece con i ritmi adottati da diversi governatori l’addio al sistema di finanziamenti a fondo perduto alle sanità colabrodo arriverà nel 2066. Sì, avete capito bene: fra cinquant’anni, parola della bibbia salmonata diretta da Roberto Napoletano. C’è da stupirsi dunque se in Italia continuano ad aumentare le tasse? Ovvio che no. La logica conclusione dei tagli alla spesa non fatti è il Fisco che diventa sempre più vorace.

E a proposito di imposte si segnala che è in dirittura d’arrivo un nuovo siluro: la riforma del catasto, ovvero la revisione degli estimi che venerdì scorso ha ricevuto il via libera dalla commissione Finanze del Senato. Sempre secondo il solito Sole 24 Ore in molte città si registreranno rincari d’imposta, in quanto tra i valori catastali attuali e quelli di mercato che si vorrebbero adottare c’è una differenza che in qualche caso sfiora il 300 per cento. Ma a rischiare di più a quanto pare non sono i proprietari di attici, ma chi possiede un’abitazione di categoria A3, cioè quelle considerate economico popolari. Essendosi queste case rivalutate di molto nel corso degli anni, l’Agenzia delle entrate si prepara a battere cassa. E ovviamente con i soliti metodi molto gentili, dato che nonostante il cambio al vertice nulla è cambiato. Insomma, Cottarelli ha ragione. Governo, Parlamento e Regioni spendono senza tagliare e ai soliti noti tocca pagare. Ma almeno ora è chiaro chi devono ringraziare.

Contarelli

Contarelli

Davide Giacalone – Libero

I soldi non ancora risparmiati sono stati già impegnati e spesi. Lo sapevamo e lo scrivevamo prima che lo ricordasse il commissario alla revisione della spesa, Carlo Cottarelli. I soldi per onorare le promesse già fatte non ci sono. In autunno servirà una correzione dei conti per un minimo di 15 o 20 miliardi, ma che nessuno osi chiamarla manovra o stangata. Chiamiamola rottamazione delle assicurazioni date, così si continua il viaggio verso l’avvenire. Tutto questo è il meno, anche perché scontato, mi preoccupano ancora di più i soldi che non sono ancora stati incassati, derivanti dall’equivoco capitolo delle “privatizzazioni”. Come si pensa di utilizzarli? Perché se andranno a equilibrare le partite correnti, a finanziare la spesa, anziché ad abbattere il debito, avremo assicurato la rovina d’Italia. Quella che dovrebbe essere un’arma vincente rischiamo di puntarcela alla tempia, inebetiti dal suo fugace effetto stupefacente.

Nel novembre dell’anno scorso scrivevamo che se il lavoro di Cottarelli fosse andato a buon fine (e ce lo auguravamo), avrebbe inevitabilmente comportato scelte politiche. Al tecnico si chiede la conoscenza, al politico spetta la decisione. Quello di cui finge d’accorgersi Matteo Renzi, quindi, ci era chiaro e lo chiarivamo fin dall’inizio. Scegliere significa discernere fra interessi contrapposti e rompere con le costose e improduttive retoriche in voga. Fin qui, invece, i tagli alla spesa pubblica si sono applicati seguendo due scuole: a. i tagli lineari (il copyright è di Gordon Brown), ciechi e deprecati, ma funzionanti; b. i risparmi dovuti a maggiore efficienza. Nessuno dei due approcci sfiora il problema italiano: troppa spesa, per troppe cose, cui si aggiungono mostruosi interessi sul debito. Noi non dobbiamo (solo) risparmiare, dobbiamo sopprimere funzioni pubbliche disfunzionali. Invece si pensa di rendere pubbliche e rette da spesa pubblica anche le banche del seme. Che la sinistra insegua lo statalismo, cullante e sepolcrale, è frutto di una cultura. Sbagliata. Che faccia lo stesso la destra è frutto di vuoto culturale.

Per questo mi fanno paura quelle privatizzazioni che, per altro verso, auspico. Già è capitato: noi chiediamo vendite e ci ritroviamo con svendite; noi chiediamo più mercato e ci ritroviamo con più mercanti. Se si vendono altre azioni Eni, o una quota della società delle reti, se si punta alla quotazione di Poste o di RaiWay, e così via, dove finiscono i proventi e che si fa del resto? Perché quella roba è patrimonio pubblico, pagato dai contribuenti, ed è bene che sia ben valorizzata e, se venduta, che il ricavo vada massicciamente ad abbattere il debito pubblico, che grava sui contribuenti. Semmai una parte agli investimenti. Neanche un centesimo alla spesa corrente. Ma se, giusto per retare a un esempio, la Rai pensa di usare l’incasso per finanziare un baraccone che andrebbe sbaraccato e venduto nel suo insieme, allora occhio, perché si prepara una gigantesca opera di depredazione e dilapidazione. Al termine della quale saremo più poveri e più indebitati, salvo avere goduto una breve parentesi d’equilibrio nei conti pubblici.

Per evitare che tutti i conti finiscano in contarelli, per evitare che ci si accorga dell’ovvio con mesi e anni di ritardo, direi che non si vende nulla se prima non sono disponibili: 1. il piano generale delle dismissioni; 2. il metodo che si intende seguire (pezzo a pezzo, società di partecipazioni, mandato unico a vendere, etc.); 3. l’impegno non derogabile su come usare i soldi incassati. Si aggiunga che vendere non deve servire solo a far cassa, ma anche mercato. Attirando capitali per investire nella creazione di ricchezza. Da questo punto di vista il decreto “competitività”, che modifica il diritto societario e trasforma la capacità di voto delle azioni, per le società quotate, introducendo il “voto plurimo”, serve a blindare gli assetti esistenti, quindi va in direzione opposta. Con quel meccanismo dall’estero investiranno solo in rendite, portandoci via ricchezza, ma non lo faranno in produzione. E’ un tema tecnico e noioso, ma se chi mette soldi non conta per quanti soldi ci mette semplicemente li mette altrove.

Comprare il consenso elettorale con la spesa pubblica è costume deprecabile e non nuovo. Comprare l’omertà sulle reali condizioni dei conti pubblici e sulle conseguenze del loro mancato risanamento, usando soldi derivanti da patrimonio per occultarle, è costume altrettanto immondo. E disperato. Una grossa parte degli italiani amano essere ingannati, sperando che nulla cambi. Ma a pagare il conto è solo l’altra parte, quella che ancora ci consente d’essere la seconda potenza industriale d’Europa. Sono italiani in minoranza e in crescente difficoltà. Fregarli ancora significa suicidare la nostra sovranità economica. Dopo di che quella politica sarà solo la pacchiana rappresentazione di un Parlamento combattente e irrilevante.