Matteo Renzi

L’ultimo bluff europeo del governo Renzi

L’ultimo bluff europeo del governo Renzi

Daniele Capezzone – Panorama

Purtroppo, a dispetto delle parole di autoincoraggiamento e autoconsolazione di Matteo Renzi, in Europa le cosa non cambiano affatto per l’Italia. Dopo la sequenza di incontri e vertici, conclusi dall’Ecofin dell’8 luglio, il quadro delle regole di austerità (parole e cortine fumogene a parte) è assolutamente invariato, così come permane la richiesta per l’Italia di «sforzi aggiuntivi» già per l’anno in corso: il che, tradotto in prosa, vuol dire rischio concreto di una manovra correttiva da 9-10 miliardi. Ma, perfino al di là del rischio-manovra, quel che conta in negativo è il permanere di tutto ciò che ha fatto male a noi e all’Europa: resta il Patto si stabilità, resta il 3 per cento, resta il Fiscal compact, restano tutti i vincoli esistenti che hanno prodotto la drammatica gabbia di austerità che ha contribuito ad affossare l’economia del Continente. Poi ci si può aggrappare a qualche parolina, a qualche espediente verbale nei documenti finali dei vertici, come il riferimento al cosiddetto «miglior uso della flessibilità esistente»: ma una parola buona in un documento non si nega a nessuno, da che mondo è mondo. Al massimo, alla fine della fiera, l’Italia potrà per esempio ottenere lo scorporo dai calcoli di qualche «zero virgola» di investimenti, ma stiamo parlando di aspetti marginali che non cambiano il quadro di fondo. Se infatti si resta nel quadro delle regole esistenti, il rischio di asfissia e di mancanza di ossigeno è assolutamente concreto, e non sarà una miniconcessione (ammesso che arrivi) a scongiurarlo. Quel che conta, politicamente, è che anche il governo Renzi accetta di sottomettersi politicamente alla volontà di Berlino e Bruxelles. E infatti Renzi e Pier Carlo Padoan devono ammettere che tutto sarà affidato a come la nuova commissione Ue (e in particolare il successore di Olli Rehn) interpreterà le cose.

Servirebbe, invece, una strategia del tutto alternativa. Se non saremo capaci, come nel mio piccolo suggerisco da tempo (si veda il mio saggio “Per la rivincita: software liberale per tornare in partita), di sfondare autonomamente il limite del 3 per cento per un piano di consistenti tagli fiscali, per un vero e proprio choc fiscale positivo, ovviamente accompagnato da riforme e corrispondenti tagli di spesa, allora vorrà dire che l’Italia avrà deciso di autoconsegnarsi a un destino di non-crescita e di subalternità. E questo è a maggior ragione vero se vogliamo tornare alla crescita, tema su cui il governo Renzi andrà incontro a cocenti delusioni. Al suo arrivo, il governo Renzi previde per il 2014 una crescita dello 0,8 per cento. L’Istat ha fatto scendere la previsione allo 0,6, l’Ocse allo 0,5, la Confindustria addirittura allo 0,2. Nel frattempo sono arrivati i dati reali, relativi al primo trimestre 2013, che ci hanno portato addirittura sottozero, cioè a meno 0,1 per cento. Se questa è l’aria che tira, se poi Renzi conferma le sue scelte fiscali (sulla casa, sul risparmio…), e se poi restano anche i vincoli europei, come pensiamo di poter tornare a una crescita decente?

Benvenuti al festival della spesa pubblica

Benvenuti al festival della spesa pubblica

Marco Cobianchi – Panorama

Secondo gli esperti un eccesso di informazioni può provocare ipertensione, vertigini, ansia, inappetenza. Le stesse sindromi dalle quali è affetto Carlo Cottarelli, commissario straordinario alla spending review, l’uomo chiamato a contribuire con un taglio alla spesa di almeno 14 miliardi di euro nella prossima imminente stesura della legge di stabilità 2015. Ebbene Cottarelli, si diceva, passa diverse ore al giorno sul sito del Siope, un software inventato e gestito dalla Banca d’Italia che raccoglie tutte le spese di tutti gli enti pubblici giorno per giorno. Bum! Il sogno di ogni italiano si è avverato: controllare quotidianamente come le amministrazioni pubbliche spendono i soldi delle sue tasse. L’ipertensione è garantita, ma la soddisfazione raggiunge il climax. Basta cliccare a caso e il web scodella tutte le uscite di quel giorno. Proviamo.

Il 12 marzo 2014 il premier annuncia la vendita su eBay delle auto blu, peraltro un flop con poco più di 20 vetture passate ai privati. Il giorno dopo lo Stato ha speso 5.170 euro in carburanti saliti a 6.200 il giorno dopo. Poco? A marzo in benzina se ne sono andati 4,2 milioni di euro. Sempre il 14 marzo lavanderia e pulizia sono costati 536mila euro, le armi leggere 65mila euro, i mobili per ufficio 180mila, la cancelleria 163mila e (tenersi forte) il vestiario addirittura 12,2 milioni.

Continuiamo, anche se l’ipertensione sale. Uno dei pezzi forti della spesa pubblica sono le consulenze. Secondo la Uil i professionisti dei quali si avvale lo Stato sono 545mila. Lo ha detto il 16 dicembre 2013 e, proprio quel giorno, se ne vanno 9.700 euro in consulenze giuridiche, 125mila per consulenze tecnico-scientifiche, 1,1 milioni in consulenze informatiche e 767mila in «altre consulenze». Il giorno dopo per consulenze giuridiche sono stati pagati 130mila euro, 228mila per quelle tecniche, 4 milioni per quelle informatiche e 1,1 milioni per «altre consulenze». Sempre quel 16 marzo 2013 Matteo Renzi dà del «buffone» a Beppe Grillo perché il leader del Movimento 5 Stelle non vuole votare le riforme istituzionali e intanto dalle casse dello Stato escono 9,2 miliardi tra cui: 40,8 milioni per aerei da guerra, 22 milioni per navi da guerra, 1,6 milioni per mezzi terrestri da guerra, 562mila per armi pesanti e 877mila per armi leggere. Sembrerebbe che l’Italia si stesse preparando a un’invasione e invece tutti i giorni lo Stato spende queste cifre in armi. Per esempio: il 2 maggio 2013, mentre Berlusconi e Renzi litigano sull’Imu, lo Stato paga 5,1 milioni per la manutenzione delle caserme oltre a 3 milioni per contenziosi verso i fornitori e perfino 103 euro per «Iscrizione ordine professionale», che dovrebbe pagare chi si iscrive, non lo Stato.

Ma il bello deve ancora venire. Vogliamo parlare dei sussidi alle imprese? Il 16 agosto 2013 debutta il redditometro che permette di incrociare le spese di ogni italiano e scovare gli evasori, ed esattamente quel giorno lo Stato versa alle imprese 5 milioni in sussidi, altri 2,4 due giorni dopo, 1,8 arrivano il 22 agosto e così via per tutti i giorni dell’anno, di tutti gli anni. Il totale è impressionante: nel 2013 i sussidi andati alle imprese sono stati 15,7 miliardi, e per fortuna che non c’erano i 25 milioni versati l’anno prima alla società Grandi stazioni che è controllata al 60 per cento dalle Fs ma il 40 è di soci privati (Benetton, Pirelli e Caltagirone).

Basta aggirarsi per qualche minuto per scoprire spese incredibili. Il 23 agosto l’allora ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni avverte che non ci sono i soldi per abolire l’Imu e proprio quel giorno lo Stato non solo spende 1 milione per i fabbricati militari ma soprattutto 128mila euro per «animali» che ci sono costati più di 1 milione in tutto il 2013 e sempre l’anno scorso un altro milione se n’è andato in «strumenti musicali»; 104 milioni in «vestiario»; 1,6 in assistenza «psicologica, sociale e religiosa»; 197 milioni in affitti; 51 milioni in bollette dei cellulari; 409 in pulizia e lavanderia; 127 milioni in traslochi e, soprattutto, 418 milioni sono serviti a pagare i premi del gioco del Lotto. Poi ci sono le bollette: uno si aspetta che la più alta sia quella per la fornitura di elettricità e invece è quella per l’acqua: 3,4 miliardi di euro nel 2013.

Tagli? Quali tagli? Risparmi? Quali risparmi? Stando al Siope, il Quirinale è costato esattamente la stessa cifra – 228,2 milioni l’anno – dal 2009 al 2013. E tale rimarrà fino al 2016 perché il presidente Napolitano ha rifiutato un adeguamento all’inflazione da 10 milioni di euro. Come dire, un risparmio percepito.

Meglio scendere dal Colle. Il 14 aprile di quest’anno il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio annuncia che quando sarà il momento di nominare i dirigenti delle aziende pubbliche il governo punterà alla parità tra uomini e donne e, proprio quel giorno, lo Stato stacca un assegno da 422mila euro per affitti di immobili. L’8 aprile Matteo Renzi presenta il Def (che prevede una crescita dello 0,8 per cento nel 2014: pura fiction) e quel giorno lo Stato paga 347mila euro in benzina, trasferisce 33 milioni alla presidenza del Consiglio (cioè a Renzi stesso) e compra 3,6 milioni in francobolli. Il 17 febbraio del 2012 l’Istat rivela che in 9 mesi si sono persi 90mila posti di lavoro e quel giorno lo Stato spende 44mila euro in «accessori per uffici». Il primo giugno 2012 il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, dice che in Italia le tasse sono troppo alte e mente lo dice lo Stato versa 316 milioni alle imprese pubbliche. Il 29 marzo del 2013 si scopre che le fatture non pagate dallo Stato alle imprese private valgono 90 miliardi e intanto 2,5 milioni se ne vanno in traslochi dei dipendenti statali, 900mila in affitti e 27 milioni alle «unioni di Comuni».

Ma più dei carri armati, del vestiario e delle bollette, ciò che pesa sul bilancio pubblico è l’Europa, i cui versamenti seguono un crescendo rossiniano: 15,4 miliardi nel 2008, 15,8 nel 2009, 15,5 miliardi nel 2010, 16,7 miliardi nel 2011, 16,4 miliardi nel 2012 e (record) 17,6 miliardi nel 2013. Per avere un’idea di cosa si sta parlando basta dire che sempre nel 2013 i trasferimenti alle famiglie sono stati appena 2,5 miliardi. E il 2012? Anno da incorniciare: oltre alle spese (diciamo) normali, abbiamo pagato 5,7 miliardi per garantire la «stabilità finanziaria dell’area euro» e 1,1 miliardi per salvare la Grecia ma abbiamo anche speso 93 milioni a favore dei «soggetti danneggiati da complicanze dovute a vaccinazioni obbligatorie ed emotrasfusioni» e 66 milioni per lo smantellamento di sommergibili nucleari, mentre per altri 82 milioni «non si dispone di sufficienti informazioni». Tradotto: nessuno sa dove siano finiti.

Poi ci sono le spese dei Comuni e qui c’è da perdersi, anzi, da svenire, soprattutto se si pensa che nell’era di Internet il Comune che si autopromuove il più moderno d’Italia, Milano, è riuscito in sei anni a raddoppiare le spese postali, passate da 14 milioni nel 2008 a 31 nel 2013. Certo, le spese per convegni sono passate da 22,2 a 3 milioni ma la spesa pro capite per i consumi intermedi (quelli che servono a far funzionare la macchina pubblica) sono, a Milano, non solo più alti della media delle grandi città italiane, 1.300 euro rispetto a 955, ma anche di Roma (1.089), Napoli (1.088) e Palermo (587). Poi c’è il capitolo tasse. Chi vive nei grandi Comuni paga mediamente 750 euro ma i milanesi versano 785 euro, i torinesi 766, i romani 729, i catanesi 655 e i fiorentini 847. A proposito: tra il 2009 e il 2013 Firenze è stata una delle pochissime città che ha aumentato il proprio budget, passato da 746 a 840 milioni. Il premier che ora vorrebbe tagliare la spesa pubblica è quello che a Firenze ha aumentato le spese correnti da 485 a 593 milioni riuscendo anche nell’impresa di triplicare le uscite per liti giudiziarie, che sono passate 493mila del 2009 a 1,4 milioni nel 2013 mente le sentenze avverse al Comune sono costate 866mila euro dagli 8.600 del 2009: sono centuplicate. Nel 2013 Renzi ha anche speso 3mila euro per animali, 165mila euro per vestiario e oltre 4 milioni in francobolli (oltre 5,5 milioni di lettere ai 350mila fiorentini?). Stando alle fatture pagate, i dipendenti pubblici di Bologna sono i più eleganti d’Italia: 430mila euro, anche se il budget è calato da 641 a 590 milioni. Un bilancio ridicolo di fronte a uscite per l’incredibile cifra di 6,3 miliardi di Roma, che nel 2013 ha speso 98 milioni in consulenze; 11 milioni in convegni, 56 milioni di francobolli (erano 11 nel 2012) e 115 milioni in affitti (107 nel 2012).

Probabilmente Cottarelli sarà iperteso, ansioso e inappetente e soffrirà di vertigini. Perché si è reso che per tagliare la spesa pubblica non bastano le forbici. Ci vuole una motosega.

Parole Vs fatti

Parole Vs fatti

Davide Giacalone – Libero

La sola crescita cui si assiste è quella della distanza fra le parole e i fatti. Ed è impetuosa. Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, ha confermato, per l’ennesima volta, quel che qui avevamo visto e ripetuto: nessuno si faccia illusioni sulla “flessibilità”, perché gli impegni di bilancio presi devono essere rispettati. Sono mesi, quindi, che si parla di cose che non esistono o che, per quel che esistono, sono già comprese nei trattati, senza potere essere invocate per scorporare o non contabilizzare alcuna spesa pubblica. Di più: l’Eurogruppo ha sollecitato il taglio del cuneo fiscale, specificando che il mancato gettito deve essere compensato con minori spese o maggiori entrate. Le chiacchiere non solo valgono zero, ma costano e fanno perdere tempo.
Sono fra quanti non si sono mai stancati di ricordare che a fianco delle criticità pubbliche, con il debito fuori controllo e crescente e la spesa corrente che stronca le gambe all’Italia che corre, ci sono anche fattori di forza: dalla lunga serie di avanzi primari, per i quali siamo primatisti mondiali, alle esportazioni. Resta vero, ma ogni giorno di meno. Gli avanzi primari li dobbiamo anche alla crescente pressione fiscale, il cui sangue è riversato nel secchio sfondato del costo del debito pubblico. Le esportazioni le dobbiamo alla pervicace vitalità di un tessuto produttivo che non si arrende e che, al contrario dello Stato, ha capito e s’è adeguato alle regole della globalizzazione. Questa preziosa realtà è a rischio. In tredici anni abbiamo perso 120 mila aziende, sono sopravvissuti i più bravi e competitivi, ma il loro fiato s’è fatto corto, hanno progressivamente ridotto i margini di profitto, hanno tirato la carretta con rabbia e coraggio, ora si trovano davanti a tre possibilità: a. approfittare dei contatti e delle capacità, cambiando nazionalità e regime fiscale; b. resistere rinunciando al profitto e mangiandosi il patrimonio, puntando su un futuro in cui il fisco non continui a dissanguarli; c. chiudere.
Abbandonato a sé stesso, con governi che hanno pasticciato anche nel ristrutturare costosi e progressivamente inutili istituti per il commercio estero, divenuto corpo da cui estrarre gettito, il nostro settore delle esportazioni è stato condotto fino al punto in cui l’acqua lambisce la respirazione. Ancora poco e annega. Quello che era un punto di forza, e un motivo d’orgoglio, si trova in una situazione critica. Il tempo impiegato per il depauperamento e l’impoverimento è assai più lungo di quello necessario all’annegamento di massa. Dopo di che sarà la tragedia. E il governo che fa? Negozia l’impossibile flessibilità per quel debito, quel deficit e quella spesa che, invece, andrebbero prese a fucilate. Fa di più, il governo: si sdoppia, pretende di recitare tutte le parti in commedia. Ho letto con indignazione quel che il viceministro allo sviluppo economico, Carlo Calenda, ha scritto al Sole 24 Ore. Egli sostiene che il peso delle esportazioni è oggi pari al 30% del pil e andrebbe portato al 50. Bravo, concordo. Dice che la ripresa non può venire dal sostegno interno dei consumi, ma dal successo esterno delle esportazioni, che portano ricchezza reale e veri posti di lavoro: «per cogliere queste opportunità dobbiamo concentrare le iniziative sulla competitività dell’offerta piuttosto che sullo stimolo della domanda interna». Sottoscrivo. Aggiunge che si deve partire dalla riforma del lavoro «compreso il superamento dell’articolo 18» (statuto dei lavoratori). Che ci vuole «un taglio drastico dell’Irap, a partire dalle aziende esportatrici». Scusi, dott. Calenda, ma lei di quale governo crede di fare parte? Non si è accorto che è stato fatto l’esatto contrario? I mitici 80 euro sono sostegno (fin qui fallito) alla domanda interna senza un capello di produttività in più. In compenso l’Irap resta e le altre tasse sugli esportatori aumentano. Di che sta parlando, Calenda?a di abbozzare i conti e andare a votare. Ci fosse ancora un Parlamento si potrebbe anche supporre l’opportunità di un dibattito sul tema, ma in quelle Aule sono occupati a discutere di sé medesimi. Chi parla in pubblico s’intrattiene su minchionerie rottamatorie. Tutto si regge sull’atto di fede che i “nuovi” qualche cosa faranno. La Francia, assai mal messa, ma ancora non priva di classe dirigente, ha intanto in atto una manovra di tagli alla spesa pubblica per 50 miliardi. Occhio, perché il tempo corre e il tassametro gira.
Parole e fatti hanno divorziato. Ma mentre le parole scorrono a ruota libera i fatti vengono giù a rotta di collo. Sul debito pubblico Padoan dice una cosa e Delrio il contrario. Sulle politiche di sviluppo Calenda dice una cosa, ma il governo Renzi fa il contrario. Sulla flessibilità i giornali italiani parlando di cose che non esistono, mentre la sola preoccupazione del governo sembra essere quell

Rottamatore o tassatore? Il fisco di Renzi tra piani e realtà. Un’indagine

Rottamatore o tassatore? Il fisco di Renzi tra piani e realtà. Un’indagine

Claudio Cerasa – Il Foglio

Tasse e governo Renzi: dov’è la verità? Due giorni fa il presidente del Consiglio, quasi a voler confermare la teoria che i dossier economici costituiscono la prima vera e drammatica preoccupazione del governo, ha lasciato intendere che la prossima, delicata e rischiosissima legge di stabilità verrà presentata circa un mese prima rispetto alla scadenza prevista per il prossimo venti di settembre. Oltre al non scontato tema delle coperture (ci sono 24 miliardi da trovare, e nessuno ha ancora capito dove si troveranno) non c’è dubbio che il cuore anche culturale della politica economica del governo riguarda un tema sul quale Renzi, con la sua squadra di economisti, è stato stuzzicato domenica scorsa dal Corriere della Sera con un duro editoriale del professor Angelo Panebianco. La tesi del Corriere è che il governo non ha la forza e la volontà di mettere in campo una buona politica fiscale capace di rompere i vecchi tabù della sinistra conservatrice. Palazzo Chigi, lo ha scritto domenica su Twitter il consigliere economico di Renzi Yoram Gutgeld, sostiene che le cose siano diverse e che andrebbe spiegato «al grande politologo che gli ottanta euro sono la più grande riduzione di tasse nella storia della Repubblica». Chi ha ragione? Cosa ha fatto il governo Renzi sul fronte fiscale? Cosa c’è da aspettarsi nei prossimi mesi?

I fronti da analizzare sono principalmente due e sono due punti che si trovano entrambi tra i dossier presenti sul tavolo del governo: da un lato le tasse ridotte e dall’altro quelle aumentate. Il presidente del Consiglio sa bene che la rivoluzione degli ottanta euro potrà considerarsi tale, ovvero una rivoluzione, solo a condizione che nella prossima legge di stabilità i dieci miliardi necessari per coprire il bonus previsto per il 2015 non verranno trovati spizzicando qua e là tra una mezza privatizzazione e qualche soldo guadagnato grazie al miglior rendimento ottenuto sui titoli di Stato. Ciò che occorre è, come si dice, una misura strutturale che possa dare continuità al bonus. E l’unica misura possibile e non transitoria è quella che si nasconde all’interno del pacchetto sulla spending review.

Nelle prossime settimane, entro metà agosto, il piano Cottarelli dovrebbe essere presentato nella sua interezza e a quanto risulta al Foglio sono tre i capitoli sui quali il governo ha intenzione di intervenire: le Ferrovie (per le quali solo nel 2014 lo Stato ha stanziato 4 miliardi), le municipalizzate (nel 2012 il Mef ha stimato che le perdite delle partecipate dei Comuni, soprattutto nel settore del trasporto pubblico locale, siano arrivate a raggiungere un miliardo e 200 milioni di euro) e la revisione dei dossier relativi all’acquisto di beni e servizi della pubblica amministrazione (7 miliardi stimati dal Mef). Il governo ha promesso che entro il 2014 metterà mano ai settori (entro dicembre il trasporto ferroviario e l’acquisto di beni e servizi, entro ottobre il trasporto pubblico locale), il sottosegretario alla Pubblica amministrazione Angelo Rughetti ha anticipato che entro luglio (manca poco però) verrà presentato un piano severo per ridisegnare le partecipate locali e non c’è dubbio che non esiste una credibile politica fiscale se questa non viene affiancata da una credibile politica di riduzione delle spese. «Se Renzi – dice una fonte governativa – avrà il coraggio di finanziare gli ottanta euro andando a toccare settori storicamente intoccabili come quelli legati alle municipalizzate la riduzione delle tasse potrà avere una sua consistenza. Viceversa, se così non dovesse andare, gli ottanta euro rischiano di diventare per Renzi quello che l’Imu è stato per Enrico Letta: un pasticcio». E il resto?

Alcune tasse sono state introdotte dal governo Renzi ma dal punto di vista formale (a parte la Tasi, che sostituisce l’Imu, ma che Renzi ha ereditato dal governo Letta, modificandone e peggiorandone alcuni aspetti) quasi tutte le nuove tasse previste sono state ideate per creare un gettito utile a ridurre altre tasse. Il provvedimento più corposo (scattato il primo luglio) è quello relativo all’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie (l’aliquota è passata dal 20 al 26 per cento). Per quanto però sia una tassa discutibile da molti punti di vista (tassare le rendite finanziarie, come si sa, rischia di costringere gli investitori a puntare i propri risparmi solo sui titoli di Stato, togliendo quindi molta liquidità dai mercati) la tassazione delle rendite finanziaria è stata messa in campo per ridurre (di quattro miliardi) un’altra tassa, ovvero l’Irap.

Qualcuno, per esempio il professor Pietro Ichino, sostiene che sarà difficile che siano davvero quattro i miliardi che il governo riuscirà a ottenere dal gettito ricavato da questa tassa (Ichino sostiene che arriveranno a malapena 200 milioni di euro). Ma il principio portato avanti da Palazzo Chigi è sempre quello: non introdurre altre tasse se non per ridurre altre tasse. Andrà davvero così? La promessa è ambiziosa ma il Rottamatore, per non diventare un Tassatore, dovrà essere abile a fare i conti con la dura realtà. E se i dati sulla disoccupazione continueranno a essere preoccupanti (siamo al 12,6 per cento, due punti in più della media europea), il pil non la smetterà di scendere (ad agosto arriveranno i dati del secondo trimestre e a Palazzo Chigi sono convinti che il segno più ancora non ci sarà), la flessibilità non sarà così incisiva come Renzi si aspetta (da seguire il lavoro di Roberto Gualtieri, capo della Commissione economica del Parlamento europeo) il pericolo di dover introdurre qualche ulteriore tassa per tappare i buchi è più di un semplice rischio. Riuscirà Renzi a resistere alla grande tentazione? E soprattutto, in vista della delega fiscale che il Mef intende presentare entro la fine dell’estate, Renzi sarà in grado di dare forma in modo compiuto alla sua idea di rivoluzione del fisco?

Sulla delega fiscale il governo non è ottimista perché le rivoluzioni non si possono fare in cento giorni e forse i mille giorni sono un’ipotesi più realistica. Ma nell’attesa di capire quale direzione prederà il governo (che oltre alla tassazione sulle rendite finanziarie qualche altra tassa l’ha messa, vedi l’aumento del costo per il rilascio del passaporto, anche se il governo ha eliminato il bollo, vedi l’aumento di un euro a partire dal primo ottobre sui pacchetti di sigarette, vedi l’aumento delle tasse, su spinta della Siae, fino al 500 per cento, sull’acquisto di dispositivi dotati di memoria digitale) nelle ultime ore al Mef è maturata un’idea ambiziosa che merita di essere esplicitata. E la nuova sfida del governo riguarda una promessa da 32 miliardi fatta da Renzi al mondo degli industriali. Promessa che suona così: se mi consentiranno di andare avanti, di governare e fare i tagli alla spesa pubblica che intendo fare, tagli che dovrebbero essere equivalenti a 17 miliardi nel 2015 e 32 miliardi nel 2016, mi impegno a investire due punti di pil per portare il cuneo fiscale al livello dei grandi paesi europei.

Al momento, dunque, è esagerato dire che il governo non ha agito sul fisco (tecnicamente gli 80 euro sono configurati come un credito di imposta, e dunque sono formalmente una spesa, ma di fatto, per le persone che ne hanno beneficiato, rappresenta una riduzione dell’Irpef). Così come è esagerato dire che il governo sta facendo quello che nessuno ha fatto mai nella storia del paese (occorre vedere se le coperture diventeranno strutturali, se il governo riuscirà a mettere in piedi un sistema fiscale capace di attrarre nuovi investitori, e Renzi riuscirà a mettere in campo un sistema di norme fatto non per allontanare ma per attrarre persone fisiche ad alto reddito). Tutto può succedere ma solo una osa Renzi non potrà permettersi: dire che sul fisco non ha potuto fare quello che desiderava perché qualcuno gliel’ha impedito. La maggioranza c’è. La volontà pure. E in fondo, mai come in questo caso, l’unico nemico di Renzi si chiama proprio Matteo.

La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

Renato Brunetta – Il Giornale

#matteohurryup: chi di ashtag ferisce di ashtag perisce. L’Economist ha elogiato negli ultimi giorni l’abilità di Matteo Renzi nell’uso dei social network. Ma non basta per essere un buon presidente del Consiglio. L’analisi dei primi 4 mesi di governo, infatti, è feroce: «A parole, Renzi è favorevole a ampie riforme e mercati più liberi. L’Italia deve cambiare per cambiare l’Europa, dice. Ma la sua promessa di una riforma al mese non è andata in porto. Ora Renzi dice di avere bisogno di 1000 giorni per fare la differenza, non più 100. Renzi è giovane ed energico, ma su di lui pesano anche inesperienza, improvvisazione e momenti di vacuità. Questa settimana ha pubblicato su Twitter una foto della sua scrivania che voleva dimostrare il suo duro lavoro, ma alcuni vi hanno visto solo un ammasso disorganizzato di carta e penne». E ancora: «L’attenzione sulle riforme istituzionali sta distraendo Matteo Renzi dalle riforme molto più urgenti sull’economia in stagnazione e la burocrazia asfissiante. Centinaia di leggi e decreti sono già stati adottati senza essere stati attuati. Il successo di Renzi in termini di riforme istituzionali non conterà nulla se non riuscirà a resuscitare l’economia. Ma lui spende troppo tempo a fare lobby a Bruxelles per più flessibilità sulle regole di bilancio, e troppo poco a parlare di più flessibilità nel mercato del lavoro e dei prodotti in Italia. Invece di chiedere esenzioni per alcune categorie di spesa, come gli investimenti nella tecnologia, dovrebbe fare di più per tagliare gli sprechi». Poi apprendiamo dai giornali nazionali che «È il numero magico del Pil a tormentare Renzi, non quello dei 2/3 in Parlamento sulla modifica del bicameralismo. L’enfasi usata per commentare le tensioni sulle riforme istituzionali è stata un modo per coprire le difficoltà sui conti pubblici e allentare la presa di quanti teorizzano la necessità di una manovra correttiva entro l’anno»; che «Sarà l’economia a determinare la tenuta o la caduta della popolarità del presidente del Consiglio». E, dulcis in fundo, che il presidente del Consiglio ha un suo libro preferito, sempre sottomano, un “livre de chevet”: il riassunto del bilancio dello Stato.

Insomma, Renzi comincia a rendersi conto che la vera partita si gioca sul campo dell’economia, e, oltre a definire la strategia di politica economica per i prossimi anni, deve porre rimedio alle misure in deficit varate dall’inizio del suo governo a oggi. Una per tutte: gli 80 euro. I risultati della Spending review tardano ad arrivare; l’Ecofin ha bocciato la richiesta di rinvio di un anno del pareggio di bilancio, dal 2015 al 2016, e ha chiesto all’Italia «sforzi aggiuntivi» per rispettare il Patto di Stabilità e crescita. La situazione non è per niente buona. Fa bene il presidente del Consiglio a svegliarsi alle 5 del mattino, sabato incluso, per cercare una soluzione. Anche perché tutto quanto sopra assume una valenza ancora maggiore in conseguenza della circostanza per cui dal 1° luglio e fino a dicembre l’Italia ha l’onore e l’onere della presidenza di turno del semestre europeo.

#matteononpuoisbagliare

In questo contesto, inutile insistere con le richieste di flessibilità. Si facciano le riforme in Europa e in Italia e la Germania reflazioni. La flessibilità ne sarà la diretta conseguenza. Senza neanche bisogno di chiederla. È nelle cose. Ecco la nostra soluzione per “superare” la soglia del 3% rimanendo europeisti. L’Italia non come eccezione, ma come strategia. Dicevamo: reflazione. Vale a dire aumento della domanda interna, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. È questa la parola d’ordine che deve segnare il cambio di passo nella politica economica europea. La Germania deve reflazionare per cause di forza maggiore, cioè per rispondere alle segnalazioni della Commissione europea nei suoi confronti a causa dell’eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti (netta prevalenza delle esportazioni sulle importazioni). Gli altri paesi devono farlo per cambiare la politica economica germano-centrica dell’austerità e del rigore cieco ed imboccare la strada della ripresa e dello sviluppo, tanto al proprio interno quanto a livello di intera eurozona (conseguenza della crescita in ogni singolo Stato). Se tutto ciò avverrà a livello europeo, e non di singolo Stato, le risorse necessarie per l’avvio di riforme volte a favorire la competitività di ciascun “sistema paese” potrebbero non rientrare nel calcolo del rapporto deficit/Pil ai fini del rispetto del vincolo del 3% e cadere nell’alveo dei cosiddetti “fattori rilevanti” per quanto riguarda i piani di rientro definiti dalla Commissione europea per gli Stati che superano la soglia del 60% nel rapporto debito/Pil. Concretamente, ciascun paese definisce, sulla base delle proprie caratteristiche e specificità, le riforme da implementare al proprio interno, per 1-2 punti di Pil, con relative scadenze temporali; ciascun paese adotta, poi, simultaneamente le riforme definite con la Commissione europea; e beneficia, quindi, degli effetti positivi tanto delle proprie riforme, quanto di quelle adottate dagli altri Stati, attraverso l’aumento delle esportazioni. Risultato: ogni singolo Stato tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive; l’intera eurozona tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive. Un gioco a somma positiva. Per tutti.

#matteoattentoalbund

Mentre la politica italiana discute, si dilania e si spacca sulle riforme istituzionali, gli avvertimenti dei mercati diventano sempre più frequenti e più pesanti. Borse giù e spread su. Almeno 5 i fattori: la crisi del Banco Espirito Santo scopre i punti deboli del sistema bancario portoghese; in Bulgaria è corsa agli sportelli della Banca Centrale Commerciale e della First Investment Bank; il bollettino della Bce prevede «Una ripresa molto graduale in Europa nel secondo trimestre 2014 e rischio di revisioni a ribasso delle stime in tutti i paesi dell’eurozona»; i dati macroeconomici relativi all’Italia sono disarmanti e, per dirla con il Centro Studi Confindustria: «Si riducono le possibilità che la chiusura del 2014 rispetti le previsioni del governo di un Pil in crescita dello 0,8%» (per la cronaca: per il governo nel 2014 sarà dello 0,8%; per la Commissione europea dello 0,6%; per l’Ocse dello 0,5%; per Confindustria dello 0,2%. Se chiudiamo a 0 siamo pure fortunati); la Federal Reserve ha annunciato per dopo l’estate la fine del Quantitative easing. Evento che i mercati hanno già cominciato a scontare.

Cos’altro deve succedere per far suonare l’allarme in Europa? Stiamo raccogliendo oggi i frutti amari delle politiche economiche sbagliate imposte ai paesi dell’Eurozona dalla Germania di Angela Merkel negli ultimi 5 anni. E le economie nazionali non sono pronte per affrontare un altro ciclo di speculazione finanziaria e di crisi. L’unico Stato che riesce a trarre vantaggio da questa situazione catastrofica è, ancora una volta, quello tedesco, che vede i tassi di interesse sui Bund tornare ai livelli minimi dell’estate del 2012, intorno allo zero. È di fatto ricominciata la corsa ai titoli del debito pubblico tedesco, considerati bene rifugio. Non è un buon segnale: sappiamo tutti come è andata a finire 2 anni fa. Che fare, allora, perché la storia non si ripeta? Innanzitutto agire tempestivamente. A livello europeo: 1) La Banca Centrale Europea deve cambiare il suo Statuto per poter attuare una politica monetaria più espansiva. 2) Le altre istituzioni europee (Consiglio, Commissione e Eurogruppo), anche in occasione del rinnovo dei propri rappresentanti: portino a termine le quattro unioni (bancaria, politica, economica e di bilancio); avviino un processo di mutualizzazione del debito pubblico europeo attraverso l’emissione di Eurobond/Union Bond; stimolino, come abbiamo detto, tutti gli Stati membri a un processo di riforme strutturali, dei cui effetti positivi beneficiano non solo i singoli Stati al loro interno, ma l’Eurozona nel suo complesso; in particolare, chiedano alla Germania di reflazionare, vale a dire aumentare la domanda interna, quindi i consumi, gli investimenti, i salari, le importazioni e, di conseguenza, la crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. 3) La Banca europea degli investimenti deve essere ricapitalizzata per l’emissione di Project bond finalizzati a finanziare investimenti specifici in ricerca e infrastrutture.

D’altro canto, in Italia serve: 1) una vera riforma fiscale che preveda, per esempio, una aliquota unica per tutti i contribuenti, semplificando il sistema, riducendo la pressione fiscale e, allo stesso tempo, aumentando il gettito per lo Stato attraverso il recupero dell’evasione; 2) la riduzione delle tasse sulla casa che, triplicate nel 2014 rispetto al 2011 hanno causato il crollo del mercato immobiliare e di un settore, quello edile, fondamentale per l’economia; 3) una vera riforma del mercato del lavoro, che aumenti la produttività del lavoro e di tutti i fattori produttivi, favorendo la competitività del “sistema Italia”. Senza crescita e con il rischio di una esplosione estiva della crisi, inutile insistere con l’Europa per avere flessibilità per l’Italia, che tra l’altro non è credibile in questa richiesta perché non riesce a usare neanche i margini che le sono già stati riconosciuti (es. per il pagamento dei debiti della Pa, per il contrasto alla disoccupazione giovanile e come fondi

strutturali). La strada da seguire è un’altra. L’ha indicata il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi: «Ci vuole una governance europea per le riforme strutturali». In questo articolo abbiamo illustrato le nostre proposte. #matteofatteneunaragione.

L’ottimismo del premier e la dura realtà

L’ottimismo del premier e la dura realtà

Gaetano Pedullà – La Notizia

Il premier si lamenta dei giornali che vedono nero, che evidenziano i dati negativi e ignorano quelli buoni, che raccontano di un’Italia in ginocchio. Ora, poiché di Giacomo Leopardi non se ne vedono in giro, il pessimismo è ovunque perché una cosa è la realtà e un’altra è il sogno di ciò che vorremmo. Se poi abbiamo a che fare tutti i giorni con dati come la produzione industriale in calo, i consumi ai minimi storici, il credito alle imprese da anni col segno meno, la disoccupazione in crescita e i mercati di nuovo lanciati verso la tempesta perfetta, allora è obbligatorio smettere di sognare e svegliarsi per non cadere inesorabilmente in questi incubi.

Perciò Renzi – che ha molti meriti per il lavoro dei primi quattro mesi di governo – convince poco quando ci racconta che il Paese ha ricominciato ad assumere (una goccia nel mare), che non ci sarà a breve nessuna manovra e si farebbe meglio a raccontare un’Italia diversa. La favoletta dei ristoranti sempre pieni l’abbiamo già sentita. Sarebbe meglio invece evitare di professare ottimismi piacevoli ma in questo momento fuori luogo e affrontare a viso aperto i problemi. L’Europa ci permetterà di tagliare le tasse che stanno ammazzando le imprese? Dopo gli 80 euro, il Governo farà altro per sostenere i consumi? Un’azienda che assume avrà gli incentivi che servono (mica il bonus assunzioni di Enrico Letta, servito infatti a poco)? Adesso sono in agenda le riforme costituzionali. Un passaggio necessario. Ma se Renzi vuol vedere un po’ di ottimismo e i numeri – che sono argomenti testardi! – non lo accontentano, allora tiri fuori le idee. Se son buone, i risultati e l’ottimismo verranno.

L’autogol di Renzi: bloccati gli investimenti dei Comuni

L’autogol di Renzi: bloccati gli investimenti dei Comuni

Marco Palombi – Il Fatto Quotidiano

Quando si parla della fretta di Matteo Renzi, di una sua certa tendenza al superomismo da bar di provincia e a governare a colpi di piccone un grande Paese sembra si parli di critiche astratte, che il giudizio estetico faccia premio sul pragmatismo necessario al difficile compito dell’amministrazione. La storia che andiamo a raccontare dimostra il contrario: quei difetti comportano malgoverno e persino una certa schizofrenia. Mentre, infatti, l’esecutivo si batte in Europa (senza molto successo, per ora) per assicurarsi maggiore flessibilità nella spesa per investimenti, in Italia ha paralizzato di fatto la spesa in conto capitale (cioè gli investimenti) dei Comuni. Nota bene: coi consumi delle famiglie fermi per povertà o incertezza nel futuro, la domanda pubblica è l’unico volano di crescita possibile. Il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan e la Ragioneria generale sanno quanto serva a questo Paese.

Che la situazione sia questa non lo dice Il Fatto Quotidiano ma una lettera inviata dall’Anci (l’associazione dei Comuni) ai ministri dei Trasporti, dell’Economia e degli Affari regionali: c’è una norma, scrivono i sindaci, che «sta provocando il sostanziale blocco delle gare d’appalto, paralizzando anche attività già in parte avviate dai Comuni». Il paradosso è che la legge denunciata dall’Anci è il decreto Irpef, quello con cui Renzi ha dato gli 80 euro ai redditi medio-bassi: in quel testo, infatti, oltre a un folle taglio da 2,1 miliardi agli acquisti di Stato, Regioni e Comuni per il 2014, si prevede anche che le stazioni appaltanti scendano da 35mila a 35 in un paio d’anni (al proposito, il premier usò anche la relativa slide). E come si fa a fare questa rivoluzione? Di fretta. Dal primo luglio infatti – prevede il decreto – i Comuni non capoluogo (cioè quasi tutti) hanno il divieto di acquisire lavori, servizi e forniture in assenza di una Centrale unica di committenza. Le nuove stazioni appaltanti dovrebbero essere certificate da un’apposita anagrafe unica: di diritto vengono iscritte la Consip e le centrali regionali. Risultato: al momento l’unico modo è rivolgersi a Consip, visto che le altre centrali non esistono ancora. Peccato, denuncia l’Anci, che Consip non sia attrezzata per garantire – in tempi rapidi – le piccole gare di cui hanno bisogno i Comuni non capoluogo: tutto bloccato. Tutto cosa? potrebbe chiedersi il lettore. La risposta illustra meravigliosamente l’eterogenesi dei fini del governo degli slogan: sono fermi gli appalti per usare i fondi europei, la manutenzione generale e – dulcis in fundo – l’edilizia scolastica, il piano per mettere in sicurezza le scuole annunciato in pompa magna dal premier e che dovrebbe concludersi entro il 31 ottobre.

Il presidente dell’Anci Piero Fassino ha chiesto che il governo intervenga con un decreto ad hoc ai ministeri interessati di emanare subito una circolare che consenta «ai Comuni di continuare a svolgere le funzioni istituzionali, in considerazione dell’insussistenza di un congruo periodo di tempo per applicare la nuova previsione». Dalle parti di palazzo Chigi, però, non ci sentono e allora toccherà alla maggioranza provvedere con un emendamento nel decreto Competitività o in quello sulla pubblica amministrazione che fa slittare la nuova disciplina al primo gennaio prossimo per l’acquisto di beni e servizi e al primo luglio 2015 per l’acquisto di lavori. A Montecitorio Dario Ginefra, deputato pugliese del Pd, ieri ha lanciato un appello a favore dell’emendamento proposto da Anci: a sera avevano firmato 70 democratici.

La burla del 730 “a domicilio”

La burla del 730 “a domicilio”

Franco Bechis – Libero

La dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo (quella relativa al 2014) non arriverà a casa dei contribuenti, come più volte annunciato da Matteo Renzi. Sarà disponibile solo per via telematica, e per leggersela bisognerà effettuare tutte le procedure di registrazione presso il sito Internet dell’Agenzia delle Entrate, passaggio questo che risulterà particolarmente ostico a una parte della platea a cui la semplificazione è rivolta: quella dei pensionati. La stessa condizione riguarderà i lavoratori dipendenti, unici altri ammessi al beneficio della dichiarazione dei redditi precompilata. La novità emerge dal testo dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di semplificazioni fiscali trasmesso al Senato dal governo lo scorso primo di luglio. Un testo di 34 articoli ben più complesso e insidioso di quel che appariva dalle premesse.

L’idea di Renzi era quella di sollevare una parte dei contribuenti italiani dal milione di contestazioni formali che arrivano ogni anno dall’Agenzia delle Entrate, facendo arrivare loro a casa una dichiarazione dei redditi precompilata dal fisco italiano, che è in grado di attingere alle varie banche dati del Grande Fratello fiscale anche per controllare già le detrazioni e le deduzioni cui il contribuente avrebbe diritto. Idea semplice, che Renzi ha rubato ad uno dei suoi alleati (la proposta era di Angelino Alfano), facendola sua e rivendendosela subito all’opinione pubblica. Ma quella semplicità si è complicata molto con il decreto attuativo che la fa entrare in vigore in parte dal 2015 (quando anche le spese mediche saranno calcolate dall’Agenzia). Perché il testo arrivato in Parlamento fa entrare i contribuenti in un vero e proprio labirinto, causa non pochi problemi alle aziende da cui dipendono e che fungono da sostituti d’imposta, e rischia di provocare una rivolta da parte degli intermediari fiscali, siano essi Caf o commercialisti. Non solo, ma grazie alla apparente “semplificazione” del governo il costo della dichiarazione dei redditi rischia di lievitare per gran parte dei contribuenti, a meno che rinuncino alla dichiarazione precompilata e continuino a presentarla come hanno fatto in tutti gli anni precedenti.

La prima novità che sicuramente causerà disagio alle imprese sarà l’obbligo di trasmettere all’Agenzia delle Entrate entro il «7 marzo di ogni anno i dati relativi alla certificazione unica che attesta l’ammontare complessivo delle somme erogate, delle ritenute operate, delle detrazioni d’imposta effettuate e dei contributi previdenziali e assistenziali trattenuti». Significa un anticipo di un mese e mezzo rispetto ad oggi, e con le imprese che devono chiudere i bilanci dell’anno precedente e ottemperare agli altri adempimenti consueti sarà non piccolo il problema. In caso di ritardo o di errata trasmissione, alle imprese sarà comminata una multa fissa di 100 euro per ogni dipendente. Tra gli anticipi obbligatori anche la modifica del termine (dal 30 aprile attuale al 28 febbraio che scatterà nel 2015) «per la trasmissione all’Agenzia delle Entrate dei dati relativi ad alcuni oneri deducibili e detraibili sostenuti nell’anno precedente, quali interessi passivi sui mutui, premi assicurativi, contributi previdenziali, previdenza complementare». Raccolti tutti i dati entro il 15 aprile, per i lavoratori dipendenti e pensionati sarà disponibile solo per via informatica la dichiarazione precompilata da parte dell’Agenzia delle Entrate. I contribuenti che potranno accedervi avranno due opzioni: accettarla così com’è o cambiarla, inserendo detrazioni o deduzioni che non erano state previste. Ma anche se si accetta così com’è, la storia è appena all’inizio. Perché quella dichiarazione precompilata va poi presentata alla stessa Agenzia. Come? Da soli, sempre per via telematica. O chiedendo al proprio datore di lavoro di prestare assistenza fiscale. Oppure attraverso un Caf o tramite il proprio commercialista. In questi due casi però quella dichiarazione che resta intonsa rispetto a come era stata compilata dall’Agenzia delle Entrate dovrà essere accompagnata da visto di conformità del Caf o del commercialista. E se risulteranno errori l’Agenzia delle Entrate multerà e sanzionerà il commercialista o il Caf, e non il contribuente. È un aspetto grottesco della rivoluzione di Renzi: lo Stato compila la dichiarazione dei redditi del cittadino, il commercialista deve dire se lo Stato ci ha preso o no, e se questo suo giudizio è errato verrà punito lui e non lo Stato che ha inserito un dato errato. Che cosa significa questo? Che di fatto Caf e commercialisti avranno la responsabilità civile di quelle dichiarazioni dei redditi che però sono compilate dall’Agenzia delle Entrate. Cercheranno quindi di assicurarsi, e trasferiranno quel costo suppletivo sulla clientela. Non solo: pretenderanno dal contribuente ogni documentazione immaginabile per controllare i dati dell’Agenzia, perché sono loro a poterci rimettere le penne in caso di errore. E il possibile errore dello Stato non è eventualità remota: già oggi quasi tutti gli avvisi bonari e le contestazioni dell’Agenzia si basano su dati errati. Proprio per questo non ha senso scaricare sui professionisti la responsabilità di uno Stato che lavora male. Più che una semplificazione, quindi, una presa in giro.

Meno spesa e meno tasse, due cose da fare insieme

Meno spesa e meno tasse, due cose da fare insieme

Roberto Perrotti – Il Sole 24 Ore

Matteo Renzi è andato al Parlamento europeo e ha fatto quello che si era ripromesso e che gli suggeriva il suo enorme fiuto politico: «Battere i pugni sul tavolo in Europa», come tanti vogliono in Italia. Ha suscitato la reazione di parlamentari, ministri e banchieri centrali tedeschi: che cosa c’è di meglio per la sua immagine in Italia?
Compiuta la missione, bisogna però tornare alle cose concrete. Renzi deve programmare la strategia per i prossimi anni di governo. Per farlo, deve lasciar perdere le solite diatribe tra filo- e anti-tedeschi, europeisti e anti-europeisti, fautori del rigore e fautori della flessibilità.

Deve semplicemente chiedersi: supponiamo che non esistano il Trattato di Maasticht, il Patto di stabilità e crescita, il Six- e il Two-pack, il Fiscal compact: che cosa vorrei fare per l’Italia nei prossimi tre anni? Le regole europee, diciamo la verità, sono quasi irrilevanti. Se l’Italia sfora il 3 per cento del disavanzo, o non riduce il rapporto debito/Pil del 5 per cento l’anno, gli altri paesi non possono mandarle i carri armati. Qualche burocrate della Commissione avrà il suo giorno di gloria bacchettando il governo italiano, qualche politico tedesco o finlandese rilascerà una dichiarazione, e finirà tutto lì. Chiunque abbia letto il testo dei trattati attentamente sa che non c’è nient’altro di importante che può succedere (eccetto, alla fine di una trafila lunghissima e che non verrà mai intrapresa, una multa massima dello 0,1 per cento del Pil).

Personalmente, credo che la risposta che Renzi si darà alla domanda di partenza sarà molto semplice. L’Italia è strangolata dalle tasse: bisogna ridurle.
Ma come? Renzi, anche perché giustamente preso dalle riforme istituzionali, ha scelto un approccio rischioso: tagliamo prima le tasse, e poi si vedrà. È rischioso, perché i governi italiani hanno una lunga tradizione di annunci roboanti di tagli di tasse, che poi si sono dovuti rimangiare. Ancora peggio se taglio delle tasse ma contemporaneamente ne alzo altre, come purtroppo è successo.

L’unica strategia che funziona e che dimostra una decisa discontinuità con il passato è quella di ridurre le tasse assieme alla spesa pubblica. È un approccio lento, perché per ridurre la spesa pubblica ci vuole tempo. Ma ha anche l’enorme vantaggio che crea, per la prima volta in Italia, un gruppo di pressione, una constituency, in favore della riduzione di spesa, sia nel paese sia all’interno del governo. Per attuare questa strategia, Renzi deve rinunciare all’illusione che la politica di bilancio possa fare uscire l’Italia dalla crisi con il botto. La famosa «scossa» è un’illusione pericolosa. Certo, non c’è niente di più facile che creare una crescita effimera con la politica di bilancio, riducendo le tasse di 50 miliardi o aumentando la spesa di altrettanto. I paesi sudamericani negli anni 80 e 90 erano maestri in queste operazioni: ogni nuovo presidente, appena eletto, le faceva, e poi le ripeteva a un anno dalla fine del mandato per cercare di essere rieletto. All’inizio funzionava, ma poi arrivava il redde rationem e il paese si ritrovava in ginocchio. E si fa sempre l’esempio dei tagli alle tasse di Ronald Reagan, all’inizio del suo mandato: ma ci si dimentica che poco dopo fu costretto a rialzarle più di prima, perché non era stato capace di ridurre la spesa (soprattutto quella militare).

Se vuole rendere un servizio al paese, e a se stesso, Renzi deve prenderesi un orizzonte un po’ più lungo. Non deve cedere alle sirene che gli suggeriscono di tagliare trenta miliardi di tasse subito, tanto poi i tagli di spesa si troveranno. Dimostri invece, per la prima volta in Italia, che la riduzione della spesa pubblica concreta, seria, vera, continua, duratura, è possibile. Sarà un lavoro lungo, oscuro, puntiglioso. Per gli economisti è facile dire: «Bisogna tagliare trenta miliardi di spesa pubblica», senza dire dove e come. Nella realtà si tratta di trovare venti milioni (non miliardi!) qui e trenta là, giorno dopo giorno. Per questo il lavoro del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, e dei suoi collaboratori è fondamentale e dev’essere la priorità del governo.

L’Antitrust dà l’assist a Renzi per liberalizzare e rottamare le fondazioni

L’Antitrust dà l’assist a Renzi per liberalizzare e rottamare le fondazioni

Alberto Brambilla – Il Foglio

Con la pubblicazione delle Segnalazioni ai fini della legge annuale sulla concorrenza, attese da quattro mesi, ieri l’Antitrust ha fornito un assist al governo. Il premier Matteo Renzi si era impegnato col Documento di economia e finanza a recepire le raccomandazioni per cominciare a liberalizzare i settori dell’economia più ingessati. Le segnalazioni ne toccano molti. Sulla Sanità, ad esempio, si chiede in sostanza di estendere a tutta Italia il modello lombardo nel quale pubblico e privato sono in concorrenza. Sulle Poste viene invocata la separazione societaria dei servizi bancari da quelli postali, che significa fare saltare l’attuale processo di privatizzazione, messo in discussione dal cda, e ripensare le modalità di vendita sul mercato. Sulle municipalizzate: togliere l’affidamento in house dei servizi locali e privilegiare la gara pubblica. Sul trasporto pubblico locale: limitare le attività dei monopolisti e consentire ai privati di offrire servizi aggiuntivi al servizio pubblico e in concorrenza tra loro. Sul trasporto cittadino, l’invito è di ridurre le «distorsioni concorrenziali» aprendo ad altri modelli di business diversi dai taxi (un approccio “uberista”).

«È un vasto programma che lascia il compito alla politica di determinare la priorità», dice al Foglio Salvatore Rebecchini, componente del collegio dell’Autorità. Il presidente dell’Autorità garante e del mercato (Agcm) Giovanni Pitruzzella il 30 giugno ha bersagliato l’intreccio tra potentati economici e politici, quel capitalismo di relazione che difende le «rendite di posizione» a detrimento di «concorrenza e innovazione». Ambizione che richiama all’orecchio lo Sherman Antitrust Act del 1890, prima legge antitrust americana tesa a colpire monopoli e cartelli che trovò applicazione solo a decenni dall’introduzione a causa di scontate resistenze. È lecito attendersi resistenze enormi nel caso delle raccomandazioni sule banche. Da un lato s’invoca l’abolizione del voto capitario nelle banche popolari, con cui i soci dipendenti possono condizionare le decisioni; tema oggetto di scontro tra Banca d’Italia (che ha cercato, senza successo, di fare una modifica) e la Banca popolare di Milano (che resiste). Dall’altro recidere il legame tra banche commerciali e fondazioni, per decenni simbolo del rapporto incestuoso tra finanza e politica. Per la prima volta l’Agcm ufficialmente consiglia al governo di archiviare l’era delle fondazioni padrone e limitare l’influenza sugli istituti di credito di cui sono azioniste: «Rafforzare la separazione fra fondazione e banca conferitaria», «vietare il passaggio dai vertici della fondazione agli organi delle banca e viceversa» ed «estendere il divieto per le fondazioni di detenere il controllo di una banca anche nei casi in cui il controllo è esercitato di fatto, anche congiuntamente con altri azionisti», si legge.

Ultimamente le fondazioni, vigilate dal Tesoro, sono state pungolate anche dalla Banca d’Italia e dal Fondo monetario internazionale in quanto le banche da esse influenzate rappresentano l’anello debole del settore. Per capire quanto la presenza degli enti incida sulle scelte strategiche basti dire che le fondazioni detengono congiuntamente il 9 e il 25 per cento del valore azionario di Unicredit e Intesa San Paolo, e arrivano a esprimere oltre l’80 per cento del consiglio in entrambi gli istituti esercitando pieno controllo, secondo Lavoce.info. Il legislatore ha più volte cercato di ridurne il potere (legge Amato-Carli del 1990 e legge Ciampi del 1996) con alterne fortune. Tuttavia il loro ministero regge, pur indebolito dalla crisi.

Renzi di rado ha sfiorato l’argomento: si è tenuto lontano dalle vicende del Monte dei Paschi pure quando la terza banca del paese è stata vittima di un abnorme assedio mediatico-giudiziario. A fare una richiesta così dirompente come quella dell’Agcm per ora ci hanno pensato i Radicali che, pur non essendo presenti in Parlamento, con la campagna “#sbanchiamoli” stanno cercando di reclutare deputati e senatori disponibili a firmare una petizione, contenente una proposta di legge, per separare le banche dalle fondazioni. Tuttavia gli onorevoli sono tuttora riluttanti a prendere posizione dato il conflitto di interesse dei partiti a livello locale.