Matteo Renzi

Renzi tassa più di Letta

Renzi tassa più di Letta

Franco Bechis – Libero

Al momento la differenza è di 10 miliardi di euro, cifra che è sicuramente destinata a cambiare quando finalmente sarà rivelata la relazione tecnica alla legge di stabilità 2015. Ma fino a quel documento – che non incide sui conti del 2014 – la differenza fra il governo di Matteo Renzi e quello di Enrico Letta è esattamente quella: 10 miliardi. E non è poco, perché si tratta di tasse. Con i suoi provvedimenti fino ad oggi il governo Renzi ha segnato nelle relazioni tecniche che li accompagnavano 13 miliardi e 414 milioni di euro di nuove entrate fiscali. Durante tutto il governo di Enrico Letta, con la sola esclusione delle clausole di salvaguardia future (che vengono contabilizzate solo quando scattano), le nuove entrate nette furono di 3 miliardi e 436,5 milioni di euro (anche in questo caso la fonte è nelle relazioni tecniche dei provvedimenti che accompagnavano disegni di legge e decreti).

Sarete sorpresi dal Renzi tassatore. Il premier in carica sostiene infatti di avere fatto la più grande operazione di alleggerimento della pressione fiscale nella storia di Italia. E si riferisce al suo bonus 80 euro e alla riduzione Irap per le imprese. Gli 80 euro sono effettivamente arrivati in busta paga. Ma tecnicamente quelli erogati nel 2014 non hanno toccato nemmeno di un decimale di punto la pressione fiscale prevista. Era un bonus, una sorta di elargizione da parte dell’esecutivo in carica proprio alla vigilia delle elezioni europee (che infatti hanno premiato Renzi e il suo Pd più o meno come al- l’epoca la scarpa donata ai napoletani prima del voto aveva premiato Achille Lauro e la dc dell’epoca). È stato contabilizzato in aumento della spesa pubblica fra i trasferimenti alle famiglie, e così è stato inserito anche nei provvedimenti di finanza pubblica del governo. Non è andato quindi a diminuire la pressione fiscale complessiva, come invece ha fatto (per cifre molto inferiori) lo sconto Irap alle imprese che ora verrà completamente riassorbito nei 5 miliardi del 2015 previsti dalla nuova legge di stabilità.

Il cosiddetto decreto sugli 80 euro (che comprendeva anche l’Irap) aveva invece in relazione tecnica 10,8 miliardi di maggiori entrate tributarie, altri 4,7 miliardi di maggiori entrate extratributarie e 7,2 miliardi di minori entrate tributarie. La variazione netta che si è portata dietro era di 8,3 miliardi di maggiori tasse. Tre di queste erano state conteggiate per l’aumento di sei punti dell’aliquota di tassazione sulle rendite finanziarie, che è passata dal primo luglio scorso dal 20 al 26 per cento. Al governo Renzi spetta la firma anche sul decreto che fa entrate in vigore la Tasi: è stato il suo primo provvedimento, e poco importa che sia conseguente alle previsioni della legge di stabilità precedente. In quel decreto veniva di fatto riassorbita l’Imu sulla prima casa che il governo Letta aveva cancellato nel 2013: si tratta di 3,7 miliardi di tasse in più sulle famiglie. Ma la cifra è indirettamente aumentata, perché il governo precedente aveva approvato un fondo da 500 milioni per il 2014 da girare ai Comuni finalizzato per legge alla concessione delle detrazioni prima casa e figli per le famiglie con redditi più bassi (per loro la Tasi rappresenta una stangata imprevìsta, perchè di fatto con le detrazioni prima l’Imu non la pagavano).

Come suo primo atto Renzi ha incrementato di 125 milioni di euro quel fondo per i Comuni, ma ha abrogato la finalizzazione.Via le detrazioni, è come fosse aumentata la pressione fiscale sulla prima casa per 625 milioni di euro. Nei mesi scorsi con altri due provvedimenti Renzi ha aumentato la tassazione dei tabacchi di 163 milioni di euro l’anno e – per finanziare l’Ace – le accise sulla benzina di 435,4 milioni di euro in più anni futuri (ma già decisi con legge). Altre piccole tasse messe vanno da quelle inserite nel decreto sulla cultura, al nuovo contributo unificato previsto per i pignoramenti, alle maggiori entrate contributive obbligatorie previste dal primo decreto sul jobs act.

Anche Letta non ha scherzato con le nuove tasse, ma è riuscito ben più del suo successore a equilibrarle con la cancellazione di altri tributi. Ha tolto l’Imu e inserito le detrazioni sulla Tasi (poi cancellate da Renzi). Nella sua legge di stabilità ha messo nuove entrate da 8,5 miliardi di euro (in parte sulle banche), e previsto cali di tasse per quasi 3 miliardi di euro al netto delle clausole di salvaguardia. In tutto 5,6 miliardi in più. Ma ha tolto tasse sulla prima casa e anche su alcuni immobili produttivi per quasi 4,5 miliardi di euro. Ha aumentato la tassazione sui giochi e concesso sgravi contributivi più o meno per la stessa cifra. Ha costretto le imprese ad anticipi di imposta anche consistenti per 655 milioni di euro. Si è trovato di fronte a una clausola di salvaguardia messa da Mario Monti sull’Iva. È riuscito a rimandarla di tre mesi con uno sgravio di 1,05 miliardi di euro. Non è riuscito a farlo per gli ultimi tre mesi dall’anno, con un aggravio identico. Sul 2013 il risultato netto è stato nullo.

LA SCHEDA

Sgravi e aggravi
A fronte di sgravi Irap concessi alle imprese pari a 4,1 miliardi di euro la legge di Stabilità ha cancellato di fatto tutti i benefici sulla medesima Imposta introdotti dal governo Letta: 1,9 miliardi.

Clausola capestro
Qualora in corso d’anno (2015) le previsioni contenute nella finanziaria non fossero rispettate scatterebbe la clausola di salvaguardia che farebbe scattare nuove tasse, sotto forma di Iva e accise. Ben 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017 e addirittura 28 l’anno successivo.

Tagli lineari
Sia sui ministeri sia sulle amministrazioni centrali viene operato un taglio che complessivamente vale 6,1 miliardi. Il meccanismo è quello del taglio lineare applicato dall’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti e tanto criticato.

Regioni spremute
Altri 4 miliardi di risparmi dovrebbero arrivare da «efficientamenti» della spesa nelle Regioni. In questo caso, addirittura, l’esecutivo non fissa neppure le linee guida degli interventi. La scelta spetterebbe ai governatori. Palazzo Chigi non ha tenuto conto nemmeno del lavoro svolto al riguardo dall’ex commissario alla spending review Cottarelli.

Legge di stabilirà

Legge di stabilirà

Davide Giacalone – Libero

Più che una legge di stabilità si avvia a essere una legge di stabilirà. Nel senso che si modella e adatta con il passare delle ore. Il tempo passato dall’annunciazione alla presentazione è servito anche per far tesoro dello sgomento suscitato nel sentir dire alcune cose. Per esempio: la decontribuzione annunciata, sulle assunzioni a tempo determinato, era di 6200 euro, ma trattavasi di un errore, perché già ci sono aziende che avrebbero diritto a una decontribuzione superiore, sicché nel testo che sarà presentato in Parlamento (dove ancora neanche c’è) quel limite sarà alzato a 8060. Vedremo cosa combineranno con il Tfr, i cui errori sono stati qui illustrati per tempo.

Originale la teoria illustrata da Yoram Gutgeld, consigliere economico di Matteo Renzi: se le norme esistenti si dimostrassero più convenienti di quelle che stiamo preparando, il contribuente potrà attenersi a quelle che preferisce. Lui si riferisce alle agevolazioni per le partite Iva, ma, certo, ha tutta l’aria d’essere un bislacco principio generale: noi ideiamo agevolazioni, che annunciamo a raffica, ma se, eventualmente, la legge preesistente fosse migliore di quella da noi magnificata, niente paura, potrete continuare a usarla. In espansione, se non altro, c’è la fantasia.

Direi che dalla scuola alla giustizia la nouvelle vague governativa s’è l’asciata un po’ prendere la mano dall’ebrezza della consultazione popolare: noi annunciamo una cosa, stilando un menù che non comporta scelte, e voi siete liberi ciascuno di dire la propria. Tanto nessuno sta a sentire. In campo fiscale sembra ci sia un salto di qualità: mettiamo in parallelo un paio di sistemi e voi scegliete quello in cui vivere. La legge di stabilirà. Intanto, per non rendere noiosa la vita, continua la serrata campagna degli annunci. Immagino che al Quirinale si siano domandati: ma se ci hanno appena consegnato il testo della legge di stabilità, perché l’idea degli 80 euro alle mamme non c’è e sono andati a illustrarla in un salotto televisivo? Non so cosa si siano risposti. Di certo, un tempo erano più arcigni e meno comprensivi.

Una cosa buona, comunque. O no? No, non lo è. È una roba demagogica e controproducente. Lasciando da parte la fissazione per il numero 80, che non si capisce per quale logica quantifica i regali governativi, è bene rendersi conto che questa perversione laurina comporta una concezione della società come fossimo tutti minorenni, pronti a gioire per le mance temporanee. In una società maggiorenne le famiglie hanno bisogno dei servizi che le affianchino nella gestione dei bambini, a cominciare dagli asili nido. In una società maggiorenne la fiducia nel futuro discende dalla crescita economica, quindi dalla ragionevole certezza che lavorando si possa giovarsene. Mentre è tipico di una società minorenne il supporre che si possa dare e prendere senza che questo sia legato al produrre. Certo che 80 euro, al mese, tornano utili quando si affrontano le spese per un bambino, e certo che prendere gli applausi è cosa piuttosto semplice, annunciandoli, ma il bambino sopravvive ai tre anni e se non ci sono asili a sufficienza si perde partecipazione al lavoro degli adulti. Poi supera i sei anni, e se nelle scuole trova gli stabilizzati anziani avrà un’istruzione carente. E se lo mandiamo in scuole analogiche, con testi stampati e senza digitalizzazione non solo gli rubiamo capacità, ma rubiamo soldi alle loro famiglie, come capita anche quest’anno. Poi supera i diciotto, e se si trova in università chiuse alla concorrenza e autoreferenziali nell’assegnazione delle cattedre diventerà un analfabeta laureato. Ci sono toghe che non compitano nell’italico idioma. A quel punto che gli diamo, il contributo per disadattamento al lavoro e al mondo?

Quando i soldi sono troppi può capitare di contrarre i vizi dell’agio e dell’improduttività. Ma ora i soldi sono pochi e spenderli fuori dal rilancio di istruzione e produzione è un delitto. Salvo prendere applausi, per la legge che solo poi stabilirà

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Dopo tanti annunci e tante promesse la montagna della legge di Stabilità ha partorito meno di un topolino. Il governo Renzi è tornato indietro perfino rispetto a quanto prodotto dall’esecutivo Letta in materia di credito di imposta per la ricerca. Così da un biennio l’Italia, in piena crisi da mancanza di investimenti privati e da competitività dell’offerta, non ha una bonus che incentiva gli investimenti in ricerca ed in innovazione.

L’ultimo intervento in materia è stato quello del governo Berlusconi che aveva introdotto una vera discontinuità per l’Italia: un credito di imposta pari al 90% degli investimenti fatti nel biennio 2011-2012 con università o enti di ricerca, recuperabile per quote paritetiche in tre anni. I 155 milioni di euro a suo tempo stanziati in bilancio non sono stati neppure tutti utilizzati dal mondo produttivo, a riprova che i timori della Ragioneria spesso cozzano con la realtà della recessione. Prima il bonus fiscale, sempre deciso dal governo Berlusconi, era stato commisurato al valore complessivo degli investimenti fatti dalle imprese: il 10%.

A fine 2013 Enrico Letta vara un credito di imposta pari al 50% delle spese incrementali in ricerca a partire dall’esercizio 2014. La burocrazia ha lasciato la norma inattuata e così le imprese che hanno creduto nella serietà della Repubblica italiana e hanno fatto nel corso del 2014 investimenti in ricerca confidando nel credito di imposta si ritrovano oggi con un deficit di cash flow da dover finanziare. In pieno credit crunch non è un gap facile da chiudere attingendo al credito bancario.

Ora la legge di Stabilità cambia nuovamente le carte in tavola: credito di imposta dimezzato al 25%, sempre solo per gli investimenti incrementali e con effetti che si produrranno, ragionevolmente, solo a partire dalla seconda parte del 2016 quando i bilanci saranno stati depositati. Sarebbe stato molto più serio, onde evitare di impattare nuovamente sulle aspettative delle imprese, lasciare la norma Letta invariata e non eliminare il 2014, esercizio ormai chiuso e quindi con effetti risibili sui conti pubblici, dall’applicazione della norma. In questo modo si potevano premiare in pochi mesi le imprese che, nel corso del 2014, hanno avuto il coraggio di investire mentre il pil crollava e la deflazione prendeva il largo, cioè già il prossimo maggio.

In Francia per il triennio 2013-2015 il Cir, il credito di imposta per la ricerca francese, varato nel 1983, è stato dotato di un fondo annuo di 5 miliardi di euro perché raddoppiato dal presidente François Hollande. La legge di Stabilità di Renzi è stata coraggiosa sull’Irap e sugli 80 euro ma troppo timida sulla ricerca.

I quattro filtri

I quattro filtri

Giuseppe Turani – La Nazione

Il premier Renzi è uno che corre veloce, e infatti anche la sua Legge di Stabilità è arrivata in perfetto orario. Adesso, però, la corsa rallenta obbligatoriamente: infatti l’aspettano ben quattro filtri importanti. Il primo è quello della coerenza delle cifre. Si sa che Renzi ha molta voglia di fare e quindi è possibile che da qualche parte si sia stati un po’ larghi. Oggi, però, c’è il testo definitivo e chiunque (opposizione compresa) potrà valutare se c’è coerenza fra quello che si promette di spendere e quello che si spera di incassare. È un esame che sarà fatto da economisti, giornali, opinione pubblica: tutta gente che non ha ruoli istituzionali ma che conta in un paese in cui tutti si sentono commissari tecnici della Nazionale e primi ministri.

Il secondo  filtro sarà probabilmente il più severo. Si tratta infatti dei guardiani dell’Unione europea fra cui spiccano tedeschi e esponenti dei paesi nordici. In pratica dei puritani del bilancio pubblico in ordine. Si può star certi che nei confronti della prima Legge di Stabilità di Renzi saranno attentissimi. E non disposti a fare sconti. È vero che il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan dovrebbe rappresentare un buon scudo. Oltre a essere un uomo di riconosciuta prudenza e ben noto negli ambienti internazionali, tutti sanno che non avrebbe mai firmato una legge tenuta insieme con lo spago e gli elastici. Però questa Legge è, in buona sostanza, un bilancio di previsione: sta insieme se le previsioni che si sono fatte, a proposito ad esempio della crescita economica (e quindi delle entrate fiscali) sono ragionevoli. In questi ultimi anni l’Italia è diventata famosa per mettere nero su bianco previsioni di crescita manicomiali: a un certo punto si era persino detto che quest’anno avremmo avuto una crescita dell’l,1 per cento. Invece andremo indietro dello 0,3 per cento, ma c’è anche chi parla dello 0,4 per cento. Su questo punto, che poi è il cuore della Legge di Stabilità, si può stare certi che il confronto con di Bruxelles non sarà semplice.

Il terzo filtro è rappresentato dal Parlamento. E qui la faccenda si complica. Per due motivi. In primo luogo c’è che i deputati approfittano sempre dell’arrivo della Legge di Stabilità per cercare di infilarvi dentro qualcosa per i loro protetti. Ma c’è un altro aspetto parlamentare da tener presente. Non è un mistero che a molti deputati e senatori questa manovra non piace. Inoltre c’è una certa quota di onorevoli che farebbe qualunque cosa pur di vedere Renzi ruzzolare insieme alla sua Legge di Stabilità. Il confronto parlamentare, quindi, sarà una prova politica fra le più difficili per il premier.

Infine c’è l’ultimo filtro: i sindacati. Renzi ha dato l’impressione, fin qui, di non curarsene molto, a causa della loro relativa impopolarità presso gli elettori. Però, se alla fine ci si trova davvero con un milione di persone in piazza e con la prospettiva di uno sciopero generale, bisognerà inventarsi qualcosa. Non sono più i tempi del governo Rumor, quando bastava l’annuncio di uno sciopero generale per provocare le dimissioni del governo. Però, insomma, non si potrà nemmeno cavarsela con due battute e tre tweet. Oggi nessuno può dire che cosa resterà della Legge di Stabilità dopo il passaggio in questi quattro filtri. Si sa solo che “qualcosa” entro la mezzanotte del 31 dicembre va approvato.

Fra l’uscio e il muro

Fra l’uscio e il muro

Marcello Mancini – La Nazione

I tagli del patto di stabilità hanno messo le Regioni fra l’uscio e il muro. Ora dovranno trovare il verso di far quadrare i conti. I governatori attaccano: «Saremo costretti noi ad alzare le tasse»; «Renzi invita a cena con i soldi degli altri». Detto così può sembrare anche un ragionamento giusto: il premier si fa un altro spot («È la più grande riduzione di tasse mai fatta da un governo della Repubblica») mentre scarica sulle Regioni l’antipatica responsabilità di recuperare da qualche parte i finanziamenti che i rubinetti statali smetteranno di erogare.

L’istantanea e rabbiosa reazione di tutte le Regioni, però, non convince per nulla. Prima di tutto perché non può piangere miseria e minacciare di ritorsioni (più tasse) sui cittadini, una categoria di politici che negli ultimi anni ha prodotto le evoluzioni di Fiorito-Batman, le aragoste a colazione, le mutande verdi di Cota e le prodezze di un esercito di inquisiti che hanno fatto man bassa dei nostri soldi, sottraendoli alle casseforti regionali. Proviamo invece a leggere i tagli di Renzi come una spallata alla Casta, un modo per dire: arrangiatevi voi. Troppo facile rifarsela con i cittadini.

Che le Regioni siano una sacca di sprechi e di burocrazia non è una scoperta recente. Gonfiate negli anni da assunzioni clientelari, consulenze esterne milionarie, missioni e uffici all’estero, appropriazione di funzioni figlie della megalomania di qualche assessore, hanno creato canali di spese inarrestabili. Perciò molti hanno pensato – soluzione assai condivisibile – che invece di abolire le Province sarebbe stato più logico ridimensionare le Regioni. a questo avrebbe comportato una botta per migliaia di posti di lavoro. Allora la strada scelta da Renzi è un modo per costringere i governatori a guardarsi in casa e tirare la cinghia sul serio. Il presidente dei governatori, Sergio Chiamparino, si è avventato su patto di stabilità con una tale violenza, nonostante sia un renziano della prima ora, da far pensare che i cannoni della manovra abbiano centrato il bersaglio.

Costa fatica muoversi dalla pigrizia amministrativa, che ha lasciato correre soldi senza badare troppo a dove finivano (pensate alle spese dei gruppi consiliari che, fuorché in Toscana, sono sotto inchiesta), salvo poi bussare alla porta del salvifico decreto romano. È il momento di studiare soluzioni nuove e far calare la spending review su qualche allegra scampagnata finanziaria, sopravvissuta ai risparmi. In Toscana il non-renziano Enrico Rossi ha già messo le mani avanti – eppure con il freno a mano tirato, rispetto a Chiamparino – e ha ipotizzato un superticket sui servizi nella Sanità. «Paghino i ricchi» è il ritornello trotskista di Rossi, già brandito per difendere i servizi dei treni pendolari divorati dall’Alta velocità colpevole di non costare abbastanza ai privilegiati passeggeri. A parte che bisognerebbe capire fin dove Rossi – in questo nostro disgraziato sistema – estende il concetto di «ricchi», gli consigliamo di ripensare anche ai costi della politica sanitaria, agli sprechi trascorsi (il buco Asl di Massa; il magazzino Estav di Calenzano, pagato 20 milioni e inutilizzato) e alle future strategie: la scelta, per esempio, di dirottare su Massa tutta la cardiochirurgia, non chiarisce quale sarà il ruolo del Meyer di Firenze, sul quale la Regione ha investito ma che sta ignorando in settori delicati come oncoematologia, traumatologia e urologia. Vanno bene tutti i ticket del mondo – tanto pagano i ricchi! – ma almeno i soldi spendeteli bene.

Noi scudi umani

Noi scudi umani

Giovanni Morandi – Il Resto del Carlino

Per capire se ha ragione Renzi a tagliare 4 miliardi alle Regioni o le Regioni che non ne vogliono sapere potremmo fare un referendum. E già che ci siamo potremmo chiedere se abbia ancora senso tenersi questi baracconi inutili per i cittadini, ma utilissimi per coloro che vi mettono piede e scoprono di poter vivere a nostre spese. Amara conclusione di un’età in cui c’era chi aveva il cuore verde di passione, almeno fino a quando non si sono accorti che era una passione che viaggiava cash per le spesucce più varie, per i figli, le amanti, gli amici, le case, le auto da corsa, le lauree in Albania e cose del genere.

Qualcosa mi dice che se si votasse le cose si metterebbero male per quelli che in modo altisonante amano farsi chiamare governatori. Governatore è colui che governa, ma che cosa governano questi che per loro ammissione sono solo passacarte, intermediari tra Stato e strutture sanitarie verso le quali va il 75 per cento del loro bilancio? Ci costano 180 miliardi e se li abolissimo sicuramente risparmieremmo. Potrà essere sgradevole dire queste cose ma è inevitabile dopo aver visto la loro scomposta reazione appena hanno saputo che le loro casse sarebbero state tagliate, sebbene nemmeno di tanto. Hanno fatto le vittime. Come se gli italiani non ricordassero gli scandali con le centinaia di politici che pensavano a far la bella vita non alla salute nostra. Per non parlare di quella truffa che sono le Regioni a statuto speciale, dove lo spreco è istituzionalizzato. Perché dovrebbero avere più denaro delle altre? 150 milioni solo per il consiglio regionale siciliano.

I governatori pensavano di prenderci come scudi umani, o ci date quei 4 miliardi o togliamo le spese alla sanità. Un’uscita che si chiama solo in un modo: ricatto. Ci provino, se ne accorgeranno. La verità è che la levata di scudi ha dimostrato che si sono solo preoccupati di difendere il proprio status, per continuare a disporre di fiumi di denaro. Ha fatto male Renzi a pensare che indicando il saldo del taglio le Regioni avrebbero deciso da sole come disporre della propria quota di denaro. L’unica cosa invece che hanno detto è stata: e noi aumentiamo le tasse. Ci provino e così vedranno come si sloggia dai grattacieli che si sono costruiti. Altra cosa sono i Sindaci, è vero che ci sono migliaia di Comuni microscopici, ma i sindaci e i Comuni rappresentano identità, storie specifiche, appartenenze, culture, sono le radici della nostra società e vanno conservati, tutt’altra cosa dalle Regioni che, in quanto enti non in quanto territori, non hanno mai rappresentato nessuno se non quel sottobosco politico che trovava in quei grattacieli un motivo di consolazione ben remunerato.

Quarant’anni di storia delle Regioni non sono bastati a dare loro un senso alla loro esistenza. Sono sempre state, sono e saranno solo enti per burocrati gonfi di denaro pubblico. Che ci siano o non ci siano, non fa nessuna diflerenza. Solo la spesa cambia. Se non ci fossero i finanziamenti andrebbero direttamente alle strutture sanitarie, anziché passare prima dalle Regioni che poi provvedono a ridistribuirli. È un passaggio in più e un risparmio in meno.

Renzi, il premier carro armato

Renzi, il premier carro armato

Bruno Vespa – Il Mattino

Sempre contro le istituzioni, sempre con l’opinione pubblica. Matteo Renzi è fatto così. Per istituzioni qui si intendono i poteri pubblici e privati costituiti e riconosciuti. Il vecchio Pd, il seminario economico di Cernobbio, l’assemblea di Confindustria, la Cgil. E adesso le regioni e le province. Ieri mattina ho provato a chiedere alla radio se avesse ragione Renzi a chiedere tagli alle regioni o le regioni a protestare. Un diluvio (quasi) a favore del presidente del Consiglio. «Quando il mio capo ha scoperto che cercavo su internet un fornitore di apparati sanitari più conveniente dei soliti mi ha bloccato». «Ho fatto uno stage in un Comune e ho visto tanti sprechi che lei non può immaginare». «Lavoro nell’edilizia e per fissare a terra tre panchine sono venuti tre operai comunali per tre giorni». «Giro per conto di un’azienda farmaceutica e non le dico quel che vedo». E così via.

Matteo Renzi ha sotto il letto due fantasmi pronti a venir fuori. Uno si chiama Franco Fiorito, il Batman di Anagni, già potentissimo capogruppo del PdL al consiglio regionale del Lazio. L’altro è Filippo Penati, potentissimo presidente della provincia di Milano, poi assistente a Roma di Pierluigi Bersani: esempio classico, con il «sistema Sesto», della continuazione nelle relazioni oblique tra costruttori e politici, anche «rossi»›, dai tempi di Tangentopoli alla Seconda Repubblica. Condannato a tre anni e quattro mesi e a restituire un milione 90mila euro, Fiorito disse in una memorabile trasmissione di «Porta a porta» poco prima che l’arrestassero (e continua a dire tuttora): «Non ho rubato nulla, quei soldi mi sono stati assegnati con regolari delibere». Nel senso che i capigruppo in consiglio regionale potevano amministrare, diciamo così, discrezionalmente, i fondi ad essi assegnati. Penati se l’è cavata con la prescrizione: era accusato di concussione perché il «sistema Sesto» che ruotava intorno al risanamento dell’area Falk-Marelli di Sesto San Giovanni era il modo esemplare di gestione affaristica del Pci-Pds-Ds. Renzi ha eliminato i consiglieri provinciali elettivi: da 2600 li ha portati a poco meno di mille, senza retribuzione aggiuntiva perché sono consiglieri regionali o comunali. Ma la corsa avvenuta tra il 26 settembre e domenica scorsa per accaparrarsi posti in cui si lavora gratis è stata così forte che il governo ha chiuso i rubinetti togliendo un miliardo alle province contro i quattro chiesti alle regioni.

È evidente che queste misure vanno amministrare con saggezza: qualcuno dovrà pur provvedere le scuole e le strade in carico alle province, mentre sarebbe grave se i tagli alle regioni si ripercuotessero su sanità e servizi. Quattro miliardi sono meno del 3 per cento della spesa regionale, assorbita in larghissima parte da stipendi e sanità. Quanto si può tagliare sulla sanità senza penalizzare uno dei migliori servizi del mondo? Basterebbe imporre sul serio i costi standard ed eliminare le anomalie ancora visibili nel Sud, ma non solo. Resta incomprensibile perché dal rispetto dei costi standard sono escluse le cinque regioni a statuto speciale per un patto del febbraio 2011. Non credo che l’autonomia etnica verrebbe compromessa da un adeguamento alla linea nazionale di risparmio. La Lega, che pure era al governo, non protestò. Se Matteo Renzi riuscisse a togliere anche questa anomalia, farebbe cosa buona e giusta.

Lo sforzo di restituire (un po’) il maltolto

Lo sforzo di restituire (un po’) il maltolto

Nicola Porro – Il Giornale

Sulla prima finanziaria di Matteo Renzi si deve dire ciò che vale per ogni legge di Bilancio. Non esiste una formula miracolosa: il giorno dopo sono tutti dei fenomeni a consigliare il meglio per il paese. Spesso sono gli stessi, che con o senza responsabilità, fino al giorno prima hanno attuato o proposto il peggio. Governare i conti dell’Italia spa è un casino. Per i vincoli interni ed esterni che ci sono. Non parliamo solo dell’Europa, ma provate voi a trattare con i tecnici della Ragioneria o con le leggi che trascinano i loro effetti pluriennali senza che si possa modificare una virgola. Vabbé questa è filosofia. Andiamo al dunque. La manovra è tosta, da 36 miliardi. E, aspetto fondamentale, non è ideologica. Non è figlia di un pregiudizio politico. Una rarità per la sinistra: almeno sulla carta questo resta un governo di sinistra, o no? Per farla semplice semplice si compone di tre capitoli.

Il primo è la riduzione della spesa pubblica. Per una cifra monstre di 15 miliardi. Una buona parte a carico degli enti locali e specialmente le regioni. Non giriamoci troppo attorno, si tratta di tagli lineari belli e buoni. Ovviamente, soprattutto a livello locale, si stracceranno le vesti. Abbiamo già dato, sosterranno. È vero. Ma non siamo più nelle condizioni di andare per il sottile: occorre affamare la Bestia. E se questa prova a comprarsi un po’ di biada alzando ancora le imposte locali, saranno guai. Il rischio che si sindaci e presidenti di regione si rifacciano alzando le loro aliquote ovviamente c’è. È forse questo un buon motivo per astenersi dall’imporre loro nuovi tagli? Secondo noi, no. Lo stato deve dimagrire, regioni ed enti locali pure. Il principio è semplice così come i privati si sono arrangiati a spendere di meno e pagare di più, il pubblico si arrangi almeno a spendere di meno.

Il secondo capitolo riguarda i tagli fiscali. La cifra totale è di 18 miliardi, di cui la gran parte (10) per il bonus degli 80 euro rivolto alle sole fasce più deboli della popolazione con contratto di lavoro dipendente. Si tratta di un déjà vu , che abbiamo già criticato. Aiutare la classe medio bassa, e per di più solo una parte di essa, non aiuta i consumi. Come si è visto. Ovviamente, a questo punto togliere l’incentivo avrebbe però creato un effetto boomerang. La vera novità è aver inserito circa 7 miliardi di euro a beneficio delle imprese. In questo momento si devono aiutare loro. Il problema è dare una mano a chi assume. Il taglio dell’Irap e la defiscalizzazione delle nuove assunzioni (sommato alla riforma del lavoro che si prevede di chiudere nel giro di un anno) è cosa buona e giusta. Chiunque può trovare il pelo nell’uovo, ma ci troviamo finalmente nella condizione di criticare gli aspetti di dettaglio di un taglio fiscale invece che a commentare l’ennesima imposta creativa.

Piccola parentesi su questo aspetto. Come ha magistralmente scritto ieri Guido Tabellini: questo non è proprio il momento di incentivare le famiglie al risparmio. Le banche sono gonfie di liquidità, anche privata. Il problema oggi è spendere. L’idea di mettere a disposizione la liquidazione (anche se il vizietto di farci cassa tassandola con aliquota ordinaria il governo se lo poteva risparmiare) è sacrosanta. Solo uno Stato socialista e paternalista si preoccupa dell’insipienza dei propri sudditi nell’utilizzare i propri quattrini. Chi opterà per avere subito in busta paga il proprio tfr avrà le sue buone o cattive ragioni, e non sta ai burocrati deciderle. Ritornando dunque alla tesi di Tabellini, il combinato disposto degli 80 euro, del tfr in busta paga e delle defiscalizzazioni per le imprese agisce tutto nel verso giusto: stimolo ai consumi più che al risparmio. Se vogliamo fare i sofisti (ma evidentemente mancavano i soldi) la vera mossa per far ripartire la macchina sarebbe stata quella di dare un po’ più di ossigeno all’edilizia. Negli ultimi due anni le sciagurate tasse introdotte da Monti e Letta hanno trasferito 40 miliardi dai privati allo Stato e soprattutto hanno convinto gli italiani che la casa più che un rifugio è un debito. Una pazzia. È la mancanza più grossa di questa finanziaria. Nel nostro personale libro dei sogni sarebbe stato meglio togliere il bonus degli 80 euro e utilizzare quei 10 miliardi per la proprietà edilizia.

Infine il terzo capitolo. Parte di questa manovra (circa 11,5 miliardi) non è finanziata da maggiori tagli di spesa o da maggiori entrate, ma è finanziata a debito, aumentando il deficit. Tutto rimanendo nella soglia famigerata del tre per cento, ma rallentando il processo di risanamento che vorrebbero in Europa. Bene. Non perché sia positivo fare deficit: esso rappresenta un’ipoteca sul futuro. Oggi paghiamo le scelleratezze dei nostri padri e nonni che si sono ubriacati a botte di Krug facendo pagare il conto alle generazioni che seguivano. In un periodo di profonda recessione come questa e con prezzi in calo, fare i Mandrake del rigore è da drogati. Inoltre l’aumento del deficit non sembra dovuto a nuove leggi di spesa, ma a riduzioni fiscali. Se prendiamo un veleno, lo si faccia in modiche quantità e a fin di bene.

Il giudizio complessivo su questa manovra (anche se molti dettagli non di poco conto sono ancora da studiare) è che nei suoi saldi ha cercato di affamare la Bestia e restituire un po’ di maltolto ai sudditi.

Macché, lo spread vola alto

Macché, lo spread vola alto

Daniele Capezzone – Il Tempo

È vero: nella legge di stabilità ci sono alcuni aspetti positivi, che vanno riconosciuti onestamente, anche per rendere più credibili le nostre critiche. Ad esempio, sono positive le scelte di confronto a testa alta con l’Ue e gli interventi su Irap e detassazione delle nuove assunzioni (questi punti oggetto da tempo di nostre proposte, in qualche modo ora raccolte dall’Esecutivo, speriamo senza trucchi e senza inganni).

Però è come se Renzi si fosse fermato a metà strada: ancora troppo poco (temo) per dare uno choc positivo alla domanda interna, ma (purtroppo) già abbastanza per aprire un conflitto con l’Ue (e la cosa non mi spaventa di certo, anzi) ma anche per destare dubbio sui mercati (e qui invece occorre una riflessione attenta). Insomma, detta senza demagogia: ho paura che non ripartano i consumi ma lo spread. A questo punto, sarebbe stata più saggia l’apparente “imprudenza” di rischiare ancora di più, andando nella direzione – da me indicata da tempo – di un vero e proprio choc fiscale, con 40 miliardi (veri) di tasse in meno, accompagnati da tagli di spesa ancora più consistenti, e da un chiaro sforamento del vincolo del 3%.

Andiamo alle criticità più serie. Resta il macigno della tassa sulla casa, di cui Renzi porta la responsabilità (l’ha aggravata lui all’inizio del 2014), e che aumenterà ancora nel 2015. Sui tagli di spesa, non c’è stato coraggio né sui costi standard né sulle municipalizzate. E con il rischio (Padoan lo ha ammesso) che in sede locale si provveda ad aumentare le tasse, facendo fare il “lavoro sporco” a Comuni e Regioni. Poi ci sono alcuni aumenti di tasse: a partire da quello sui fondi pensione, assolutamente inaccettabile. Così come va indagato il meccanismo che sarà alla fine scelto per il Tfr, che potrebbe creare serissimi problemi alle imprese medio-piccole (causando contemporaneamente – che beffa!- aggravi di tassazione per i lavoratori). E soprattutto va posta la questione delle mega-clausole di salvaguardia per i prossimi anni, tutte bombe fiscali destinate a esplodere ai danni dei cittadini. Per queste ragioni, la mia opinione è che FI debba lanciare una sfida su alcuni punti qualificanti, per aumentare i tagli di tasse, e per rendere migliori i tagli di spesa. Avanzerò precise proposte in tal senso.

Il doppio azzardo del premier

Il doppio azzardo del premier

Luca Ricolfi – La Stampa

Sono stato fin troppo facile profeta, tre giorni fa, quando ho provato a insinuare il dubbio che i mercati finanziari non l’avrebbero bevuta. Che i mercati, cioè, non avrebbero apprezzato affatto una manovra che, anziché tentare di risanare i conti pubblici, li sfascia ulteriormente, pianificando un aumento del deficit di ben 11 miliardi di euro. E così è stato, purtroppo: fra ieri e l’altro ieri lo spread dell’Italia rispetto alla Germania è tornato a salire. Si potrebbe pensare che questo peggioramento non sia dovuto a un deterioramento del giudizio dei mercati sui conti pubblici dell’Italia, ma al cattivo momento dell’economia europea e alle preoccupazioni sullo stato patrimoniale delle banche greche, ma purtroppo questa interpretazione, vagamente autoconsolatoria, si scontra con la pietosa realtà dei dati.

I dati: lo spread dell’Italia non è aumentato solo rispetto alla Germania, ma anche rispetto alla Francia, al Belgio alla Spagna, all’Irlanda, ed è migliorato solo rispetto all’inguaiatissima Grecia e al Portogallo. Si potrebbe pensare (e sperare) che nel giro di qualche giorno questa situazione di pericolo per i nostri conti pubblici rientri, e che i mercati si auto-tranquillizzino, o vengano tranquillizzati dal solito «aiutino» di Mario Draghi, o da una improvvisa conversione keynesiana di Angela Merkel. Il punto, però, è che anche nel più ottimistico degli scenari possibili, con l’Europa che ci lascia fare deficit e i mercati che continuano a prestarci denaro a basso costo, la manovra da 36 miliardi resta ad alto rischio. Ed è un vero peccato, perché la filosofia della manovra è più che giusta.

L’idea di fondo è di modificare la struttura dei conti pubblici facendo diminuire l’interposizione della Pubblica amministrazione (meno tasse e meno spese) e di farlo più dal lato delle entrate che da quello delle uscite, in modo da far respirare l’economia: se i numeri della manovra venissero rispettati, a fine 2015 avremmo sì più deficit pubblico, ma gli italiani si troverebbero ad aver pagato meno tasse. E altrettanto condivisibile è l’idea che, per far ripartire l’occupazione, si debbano ridurre i contributi sociali a carico del lavoro dipendente. Dov’è dunque il problema?

Il problema si annida in due passaggi assai delicati della manovra. Il primo riguarda la spending review: 15 miliardi di tagli delle spese improduttive, di cui circa 3 sulla sanità, sono facili da annunciare ma molto difficili da attuare, e questo per un mix di cattive e di buone ragioni: la resistenza della casta burocratica, ma anche la mancanza di piani di riduzione degli sprechi così analitici e così ben fatti da consentire riduzioni di spesa senza riduzione dei servizi. Lo scenario più probabile è un negoziato di Renzi e Padoan con gli Enti locali (e con i ministri!) per ridimensionare i tagli, seguito da un aumento della tasse locali. La reazione irritata del governatore del Piemonte, il renziano Chiamparino, all’annuncio dei tagli prelude precisamente a uno scenario del genere.

Ancora più delicato è il secondo passaggio, quello in cui si annuncia l’azzeramento dei contributi per le imprese che assumono. Qui molta enfasi è stata posta sul fatto che un’impresa risparmierà circa 9 mila euro per ogni assunzione a tempo indeterminato, ma si sta dimenticando che se i miliardi a disposizione sono solo 1.9, le assunzioni a contributi zero potranno essere appena 200 mila, ossia molte di meno delle assunzioni a tempo indeterminato totali (oltre 1 milione). Ma non si tratta solo di questo, ovvero della ridotta ampiezza della «platea» dei beneficiari. Il problema è che in una situazione in cui c’è molta capacità produttiva inutilizzata, gli sgravi contributivi si limitano ad alleggerire i conti delle imprese (più profitti, o meno perdite), ma difficilmente generano nuova occupazione perché per soddisfare i pochi ordinativi che le imprese ricevono quasi sempre basta e avanza la forza lavoro già occupata. Se anche nel 2015, nonostante lo stimolo del deficit, la domanda aggregata sarà debole, e il Pil resterà quindi stagnante (come il Governo stesso ammette), non vi sono motivi per pensare che l’occupazione totale possa crescere in modo apprezzabile: perché si abbia un aumento degli occupati, il Pil nel 2015 dovrebbe crescere almeno del 2%, eventualità che tutti gli osservatori escludono.

Ecco perché non sono molto ottimista. La decontribuzione resta un’ottima idea, ma se le risorse ad essa destinate sono così esigue, sarebbe di gran lunga preferibile concentrarle sulle imprese dinamiche. Il che, in concreto, può significare due cose: o riservare gli sgravi alle imprese che esportano, con conseguenti benefici sulla competitività (un’idea di recente lanciata da Oscar Farinetti); oppure riservarli non già ai neoassunti in generale (compresi i lavoratori che ne sostituiscono altri, andati in pensione o licenziati), ma ai lavoratori assunti su nuovi posti di lavoro, ossia ai casi in cui l’impresa incrementa l’occupazione rispetto all’anno precedente (un’idea suggerita dalla Fondazione Hume, con il contratto denominato job-Italia). Il vantaggio sarebbe che, in entrambi i casi, si avrebbe un effetto non trascurabile sul Pil, con benefici nei tre ambiti chiave: competitività, occupazione, entrate dello Stato.