maurizio ferrera

Riscoprire la cultura del lavoro

Riscoprire la cultura del lavoro

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Per il mercato del lavoro italiano il 2015 potrebbe davvero essere l’anno di svolta. Grazie alla ripresa dell’economia, le imprese dovrebbero tornare ad assumere. E il Jobs act le incentiverà a offrire occupazione stabile, disciplinata dal nuovo contratto a tutele crescenti. Secondo gli esperti, entro la fine dell’anno questo tipo di contratto sarà adottato per circa la metà delle nuove assunzioni. Non si tratterà solo di un cambiamento di regole. Gradualmente si affermerà una nuova logica di rapporti fra imprese, lavoratori e Stato: più simile a quella degli altri Paesi europei, più efficace e inclusiva. È una grande scommessa, che sarà vinta solo nella misura in cui ciascuno capirà qual è la posta in gioco e come interpretare bene la propria parte. Per le imprese, tornare ad assumere in forma stabile significa recuperare la cultura del lavoro (quello dei propri dipendenti) come investimento, come un fattore produttivo che va coltivato dall’interno.

Le statistiche segnalano che negli ultimi vent’anni in Italia non si sono registrati molti progressi, ad esempio, in termini di addestramento on the job o di formazione permanente. I dipendenti precari sono stati poi relegati su binari secondari, spesso utilizzati come risorsa «usa e getta». Non è un caso che i lavoratori italiani si sentano molto meno impegnati e coinvolti nell’organizzazione aziendale rispetto ai loro colleghi Ue. Lo scarso successo (sinora) dell’apprendistato e di tutte le forme di raccordo fra scuola e imprese è, almeno in parte, un segnale di poca attenzione per l’insostituibile ruolo che i datori di lavoro devono giocare nel contesto educativo e culturale dal quale reclutano il proprio capitale umano.

Anche per i lavoratori è necessario un cambiamento di mentalità. Veniamo da una tradizione in cui il posto fisso a vita è stato per generazioni l’obiettivo più ambito. Ancora oggi, a dispetto del precariato, l’Italia è il Paese Ue in cui la durata media del rapporto di lavoro è più lunga (15 anni) e in cui il numero di impieghi nel corso della vita è il più basso: due, rispetto ai quattro della Francia e ai cinque della Danimarca. Si tratta di una media che sconta l’inamovibilità del nostro pubblico impiego e l’onda lunga dell’articolo 18. Ma l’aspettativa del tempo indeterminato a vita è ancora molto radicata, anche fra i giovani. Contrariamente a quanto è successo nei Paesi nord europei, l’avvento della flessibilità in Italia ha coinciso con la precarizzazione, ossia uno stato di perenne insicurezza, frequenti interruzioni di reddito, «intrappolamento» nei settori meno qualificati del mercato del lavoro. Non sarà facile recuperare il significato positivo della parola flessibilità e convincere i giovani che – se si svolgono in contesti adeguati – la mobilità territoriale, il cambiamento del posto di lavoro o delle mansioni non sono un dramma e anzi possono diventare un’occasione di crescita. Senza questo salto culturale, le nuove logiche occupazionali sottese al Jobs act non potranno dare i frutti sperati. Per ottenere effetti virtuosi dalla riforma deve cambiare soprattutto lo Stato. Non so se il governo Renzi ne sia pienamente consapevole, ma la sfida è enorme.

La flessibilità non degenera in precarietà solo se l’amministrazione pubblica è in grado di fornire efficienti servizi di ricollocazione e formazione. Il nostro deficit inizia dalle scuole: la metà degli studenti italiani dichiara di non aver ricevuto alcun consiglio e consulenza mirata sui percorsi lavorativi post licenza e sulle proprie potenzialità. Negli altri Paesi questa è la norma per la quasi totalità degli allievi. La metà, di nuovo, dei lavoratori italiani dichiara che, in caso di perdita del posto di lavoro, la probabilità di trovarne un altro è molto bassa. Il dato medio Ue è inferiore di venti punti. Il segnale è chiaro: i servizi per l’impiego sono totalmente inadeguati rispetto alle esigenze di un mercato del lavoro flessibile. Difficile pensare di poterci allineare in tempi rapidi ai modelli nordici. Ma è urgente avviare un processo di riforma almeno simile a quello seguito da Francia e (soprattutto) Germania.

Qualche settimana fa l’Economist ha aperto una discussione sulla crescente diffusione del «lavoro a rubinetto»: la produzione di servizi in forma completamente decentrata da parte di mini-imprese capaci di sfruttare app, cellulari e tecnologia. Sarebbe la fine del lavoro dipendente come l’abbiamo conosciuto finora. È uno scenario futuribile da rivista settimanale, ma anche un segnale di quanto rapidamente l’economia stia cambiando grazie al progresso delle conoscenze. Vista dall’Italia, l’epoca del lavoro a rubinetto sembra un film di fantascienza. Ma non possiamo tirarci indietro rispetto alle concrete sfide di adattamento che oggi ci si pongono davanti. Rimbocchiamoci le maniche e facciamo uno sforzo collettivo per oltrepassare la soglia della flexicurity. Sarebbe un grande successo, e basterebbe per almeno una generazione.

Dei tagli non parla più nessuno

Dei tagli non parla più nessuno

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Che fine ha fatto quella «revisione della spesa» di cui tanto si è parlato nell’ultimo anno? E che doveva fungere da leva per risanare il settore pubblico sul versante delle uscite, in base a criteri di efficienza ed equità? Purtroppo ha fatto una brutta fine. Con le dimissioni del Commissario Carlo Cottarelli, lo scorso ottobre, il processo si è bloccato. Sull’apposito sito Internet compaiono solo scarne e obsolete informazioni. Nella scorsa primavera, la spending era diventata la regina dei talk show. L’omissione del sostantivo (review, ossia revisione, ristrutturazione) avrebbe dovuto insospettire. Molti politici consideravano infatti i risparmi futuri come un tesoretto a cui attingere per nuove spese. Clamoroso il tentativo di finanziare il pensionamento con le regole pre-Fornero di alcune categorie di insegnanti attraverso, appunto, la spending. I materiali prodotti da Cottarelli non sono mai stati discussi apertamente. In un’intervista televisiva quasi imbarazzante, il Commissario si è limitato a menzionare come «sprechi» le solite siringhe calabresi (che costano più di quelle lombarde) e le sedi estere di alcune Regioni.

Nella legge di Stabilità i tagli ci sono, è vero (per circa 15 miliardi di euro). Ma sappiamo come sono stati definiti: un tira e molla fra i vari ministeri e fra governo centrale e Regioni. Non c’è da stupirsi se questa vicenda ha rafforzato i dubbi dell’Europa. Nelle sue valutazioni sulla legge di Stabilità, Bruxelles ha espresso preoccupazioni, tanto più che la Commissione aveva fornito precise indicazioni su come impostare buone spending reviews. L’ingrediente principale è un forte investimento politico da parte dei governi, con una chiara definizione degli obiettivi e un mandato preciso alle strutture coinvolte. Poi servono buoni dati, analisi accurate, coordinamento organizzativo, trasparenza, comunicazione pubblica, monitoraggio e valutazione ex post, integrazione permanente di tutti questi elementi nel ciclo annuale di bilancio. Queste sono le condizioni perché una revisione della spesa possa avere successo. Quasi tutte, purtroppo, sono clamorosamente mancate nella spending di casa nostra. È comprensibile che i declassamenti di rating e i rimproveri di Angela Merkel diano fastidio. E sarebbe ingeneroso non riconoscere a Matteo Renzi un serio impegno per le riforme. La superficialità con cui è stata gestita la partita dei tagli da inserire nella legge di Stabilità è però difficilmente comprensibile. Ed è soprattutto un errore a cui il governo deve al più presto rimediare.

Le virtù e i difetti nascosti

Le virtù e i difetti nascosti

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Nella bozza inviata a Bruxelles, la legge di Stabilità è presentata come strumento «per la crescita»: meno pressione fiscale su imprese e famiglie e dunque – si spera – più investimenti, consumi e posti di lavoro. Le cifre confermano che stavolta l’impegno del governo è significativo: 36 miliardi fra entrate ed uscite. L’Irap e i contributi sociali per i neo-assunti (a tempo indeterminato) scenderanno. Il bonus di 80 euro sarà confermato, mantenendo le promesse fatte a maggio. I lavoratori che lo vorranno potranno attingere da subito a una quota del Tfr. Per la prima volta, poi, si concede un po’ di respiro fiscale a quel milione circa di «partite Iva» senza le quali interi settori produttivi sarebbero già scomparsi.

Non sono previsti tagli diretti alla spesa sociale. Anzi, ci saranno risorse aggiuntive per gli ammortizzatori, la famiglia e la scuola. Qui l’intento è virtuoso, ma tutto dipenderà da come i soldi verranno spesi. Colpisce l’inadeguatezza dei fondi destinati al contrasto alla povertà, nonostante le esortazioni a fare di più su questo fronte ricevute a giugno proprio dalla Ue.

Le coperture sono il punto più debole della manovra. Non solo (e forse non tanto) per gli 11 miliardi di maggior deficit, ma per l’aleatorietà di molti dei tagli previsti. Quella spending review che doveva dare inizio ad una incisiva razionalizzazione dell’intero settore pubblico ha partorito una covata di sfuggenti topolini. Ci sono alcuni tagli lineari, una gran quantità di microriduzioni, blocco generalizzato dei contratti nel pubblico impiego, tetti a Regioni ed Enti locali (sui quali si sta originando una spirale di polemiche: come spesso succede, la verità sta nel mezzo). Sicuramente la scure eliminerà varie spese inutili. Non c’è però stata una svolta nell’individuazione di inefficienze e sprechi, andando alla radice dei problemi. Inoltre molti dei provvedimenti di riduzione della spesa non saranno immediatamente esecutivi. Come al solito, richiederanno quella catena di misure attuative e «concerti fra ministeri» che hanno già affossato molte passate riforme.

Come reagirà l’Unione europea? Non è da escludere che la Commissione s’impunti (a questo punto assurdamente) su una questione di decimali. È possibile però che le perplessità Ue siano legate più alla bassa credibilità delle politiche italiane che ai livelli di deficit e debito. Senza nulla togliere alle capacità del ministro Padoan, fra lo smilzo documento in inglese presentato a Bruxelles e la disordinata bozza in italiano uscita dal Consiglio dei ministri c’è un divario preoccupante.

I documenti degli altri Paesi sono molto più ricchi di dettagli e valutazioni, i loro impegni risultano così più affidabili. Sul versante della «serietà», Matteo Renzi ha ancora molto lavoro da fare. Non solo per convincere l’Europa a concedere maggiore flessibilità, ma anche per garantire ai cittadini effettività ed efficacia dell’azione di governo. Condizione necessaria affinché le norme di legge abbiano un qualche impatto sulla realtà, nella direzione auspicata.

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Il premier e l’articolo 18, una battaglia già vinta

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Sul Jobs act è giunto il tempo della decisione. Oggi si riunisce la segreteria del Pd e questa sera sarebbe auspicabile avere un segnale chiaro di approvazione. C’è una minoranza che non è d’accordo. Per alcuni l’intangibilità dell’articolo 18 è una questione di principio. Per altri (più numerosi) sembra invece essere una questione di contenuti. I margini per non rompere ci sono: Renzi ha già ceduto sui licenziamenti discriminatori, per i quali rimarrà il reintegro. L’altro punto su cui cercare convergenze riguarda le nuove tutele.

A quanto ammonterà l’indennizzo in caso di motivazioni economiche? E verranno davvero rafforzati gli ammortizzatori sociali? Il governo è in grave ritardo su questo fronte. Renzi deve chiarire quante risorse saranno disponibili nella legge di stabilità. La soluzione è usare già dal 2015 i fondi della Cassa integrazione in deroga per finanziare una indennità semiuniversale che colmi i buchi di copertura esistenti, soprattutto per interinali e contratti a termine. Non è una partita di giro, ma passaggio da un sistema aleatorio e discrezionale a una tutela finalmente «europea», basata su diritti soggettivi.

Il presidente del Consiglio deve insistere su questi aspetti. Il nuovo «contratto a tutele crescenti» è oggi uno strumento per offrire stabilità d’impiego ai giovani che non ce l’hanno; la maggiore flessibilità in uscita si accompagnerà a protezioni più robuste ed efficaci. Qualcuno dei dissidenti farà ancora finta di non capire: pazienza. Con gli altri, Renzi non cerchi «rese dei conti», ma dia rassicurazioni, spieghi bene come e perché ci si può fidare del cambiamento. Il Jobs act non può e non deve essere vissuto e additato come boccone amaro imposto dalla Ue, ma come una opportunità per rendere il nostro mercato del lavoro più equo e inclusivo.

Il semaforo ideologico

Il semaforo ideologico

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Le riforme vanno fatte osservando i problemi concreti della società e non i semafori delle ideologie. E in politica chi strilla di più non merita necessariamente di ricevere maggiore attenzione. Queste celebri affermazioni di Tony Blair forniscono un’utile bussola per valutare ciò che sta accadendo in Italia sul fronte del lavoro. Giovedì scorso il Senato ha approvato in Commissione il disegno di legge delega noto come Jobs act . Gli obiettivi sono molteplici e ambiziosi: estensione e rafforzamento degli ammortizzatori sociali e delle politiche per l’impiego, misure per l’occupazione femminile e la conciliazione vita-lavoro, semplificazioni di norme e adempimenti, anche al fine di attirare investimenti esteri. Il testo contiene inoltre una delega al governo per introdurre un nuovo «contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti» che superi l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Su quest’ultimo punto si è scatenata l’opposizione dei sindacati, Cgil in testa, e di una parte del Pd. In base a un riflesso quasi automatico, il semaforo ideologico della vecchia sinistra ha subito acceso la luce rossa. L’idea di ricalibrare le tutele per i nuovi assunti (senza toccare, si badi bene, i contratti in essere) è stata bollata come un inaccettabile attacco ai diritti fondamentali e alla stessa dignità dei lavoratori. I sistemi europei che non prevedono il reintegro in caso di licenziamento sono forse delle giungle? Tutti hanno ovviamente il diritto di esprimere (anche «strillando») la propria opinione. Per chi è interessato alle buone riforme, la domanda da porre è però molto semplice: il Jobs act affronta in modo serio i problemi concreti dell’economia e della società italiana di oggi? E fornisce risposte promettenti?

Com’è tristemente noto, il dramma del nostro mercato del lavoro riguarda soprattutto i giovani: due milioni e 300 mila senza occupazione e altrettanti «precari». Su cento fortunati che trovano un lavoro subordinato, meno di 50 hanno un contratto a tempo indeterminato: in Francia e Germania sono più di 60, nei Paesi nordici e in Gran Bretagna (dove ha governato la Thatcher) sono più di 70. La stragrande maggioranza del mondo giovanile non conosce né l’articolo 18 né la cassa integrazione. I contratti atipici hanno scarsissime tutele in caso di mancato rinnovo e conseguente disoccupazione. Meno di un quarto di chi ha un lavoro dipendente riceve formazione professionale: in Germania e in Gran Bretagna almeno la metà, in Danimarca il 75%. Non v’è da stupirsi se i sondaggi internazionali rivelano che i nostri giovani (soprattutto le donne) sono i più insicuri, i più scoraggiati e pessimisti rispetto alle chance di carriera, i più angosciati dal timore di perdere il posto e non trovarne un altro.

È a questi problemi concreti che guarda il Jobs act , con un duplice intento. Da un lato, fare in modo che le imprese tornino ad assumere con contratti «buoni», a tempo indeterminato, investendo sulla formazione dei giovani. Dall’altro lato, assicurare a tutti un pacchetto di sostegni in denaro e in servizi per far fronte agli eventuali periodi di disoccupazione. La sequenza virtuosa su cui scommette il Jobs act è questa: con un sistema di regole più semplici e flessibili, le imprese assumeranno di più, e con contratti molto più stabili di quelli attuali. Le tutele saranno estese e rafforzate, ma in forme compatibili con la flessibilità, anche in uscita: non riguarderanno più il singolo posto di lavoro, bensì la transizione da un posto ad un altro, come avviene in tutti i Paesi Ue. Se la sequenza si attiva, la riforma contribuirà a risolvere il problema economico-sociale più drammatico che il nostro Paese si trova ad affrontare dopo la ricostruzione post-bellica e la crisi degli anni Settanta.

Il Jobs act che andrà preso in votazione al Senato è lungi dall’essere perfetto. Per superare l’articolo 18 basta una norma, mentre per allargare le tutele occorre un lavoro difficile e paziente di progettazione istituzionale, finanziaria, organizzativa. Una sinistra pragmatica e responsabile incalzerebbe il governo su questo fronte, invece di arroccarsi a difesa dello status quo. D’altro canto, un mondo imprenditoriale che ha molto da guadagnare dalla riforma potrebbe ben dare qualche segnale positivo: ad esempio confermando pubblicamente che la scommessa del Jobs act non è un azzardo, che le imprese sono pronte a fare la loro parte. Ci aspettano settimane di turbolenza politica e sociale. Il governo ascolti tutti, anche chi strilla, e non esasperi lo scontro. Ma vada avanti per la sua strada: il semaforo che conta è quello delle buone soluzioni ai problemi reali degli italiani, non quello delle vecchie sirene ideologiche.

Lavoro, rinvii e distrazioni

Lavoro, rinvii e distrazioni

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

L’Italia sta chiedendo più flessibilità all’Europa sulle regole di bilancio e in cambio promette incisive riforme economiche. La partita è delicata, ma non potrà iniziare sul serio se il governo Renzi non dà prima qualche segnale immediato sulle riforme. Il fronte su cui, giustamente, vi sono le maggiori aspettative è il mercato del lavoro, che funziona malissimo e ostacola la crescita.
I dati parlano chiaro. Su cento italiani fra 20 e 64 anni, meno di 60 hanno un’occupazione. In Germania sono 77, nel Regno Unito 75, in Francia 70. Anche negli altri Paesi c’è stata la crisi, perciò non si può dar la colpa solo a questo. La distanza rispetto ai valori dell’area euro era già molto alta prima del 2008. Nello scorso maggio si sono creati 50 mila nuovi posti di lavoro. È una buona notizia, ma nello stesso mese la Germania ne ha creati (fatte le debite proporzioni) quattro volte di più. Dobbiamo cambiare passo, e alla svelta.
I problemi «strutturali» del mercato del lavoro italiano sono noti. I servizi per l’impiego sono inefficienti e molte imprese non trovano persone con le qualifiche richieste. La cassa integrazione tiene artificialmente in vita aziende e posti di lavoro decotti, mentre gli ammortizzatori sociali non proteggono adeguatamente i veri disoccupati. Fisco e burocrazia scoraggiano gli investimenti, in particolare dall’estero. E, soprattutto, i rapporti di lavoro sono disciplinati da una giungla di norme e di fattispecie contrattuali, peraltro soggette a continui conflitti interpretativi. Oggi in Italia assumere è un vero e proprio terno al lotto.
Dal 1996 ad oggi sono state fatte tre grandi riforme (Treu, Biagi e Fornero). Il bilancio? Grandi ambizioni, misure non all’altezza degli obiettivi, applicazioni incomplete, niente valutazione. E nessuna modifica (o quasi) alla disciplina del lavoro a tempo indeterminato, risalente ai primi anni 70. Il credito che Matteo Renzi si è guadagnato a Bruxelles è in buona parte dovuto agli impegni presi sul fronte dell’occupazione. Il Jobs Act è stato presentato come un provvedimento capace di aggredire, questa volta davvero, i problemi strutturali, inclusa la rigidità in uscita. Sono finora seguite due iniziative concrete: il decreto Poletti sui contratti a termine e il disegno di legge delega sul mercato del lavoro. È proprio su quest’ultimo che il governo deve giocare bene le sue carte. Il testo contiene novità promettenti sugli ammortizzatori e sulle politiche attive. Ma il vero nodo è l’articolo 4 della delega, dove si prevede una drastica semplificazione del codice del lavoro, rendendolo finalmente certo e comprensibile. Verrebbe inoltre introdotto un contratto di lavoro a tempo indeterminato «a tutele crescenti» in sostituzione dell’attuale disciplina e un «contratto di ricollocazione» per accompagnare i lavoratori nella transizione da un posto ad un altro. Queste innovazioni cambierebbero in modo virtuoso gli incentivi per imprese e lavoratori e segnerebbero una inequivocabile svolta rispetto al passato.
Riuscirà Matteo Renzi a far passare la riforma, superando le resistenze del sindacato e di una parte del Pd? La delega è ferma in Commissione al Senato e si rischia il voto finale a settembre. Un brutto segnale, che certo non depone a favore della serietà e fermezza d’intenti. È chiaro che l’articolo 4 è una forca caudina sul piano politico. Ma se Renzi non sarà capace di attraversarla, la sua credibilità riformatrice ne uscirà indebolita. Forse irrimediabilmente.

I distruttori del lavoro

I distruttori del lavoro

Maurizio Ferrara – Corriere della Sera

La disoccupazione giovanile continua a crescere, soprattutto fra le donne. Due mesi ha preso avvio il programma “Garanzia giovani” cofinanziato dall’Unione Europea, il cui obiettivo è proprio quello di aiutare chi ha meno di 29 anni a inserirsi nel mondo del lavoro. Otto settimane non bastano certo a produrre risultati concreti. È però lecito chiedersi a che punto siamo e che cosa possiamo aspettarci da questa ambiziosa aspettativa. Quasi 100mila giovani si sono già inseriti al portale Internet e molti sono stati anche intervistati dai servizi per l’impiego. La vera sfida comincia adesso. La “Garanzia” prevede infatti che entro quattro mesi il disoccupato riceva una proposta concreta di inserimento. Sul portale si legge che le aziende per ora hanno segnalato circa 2mila occasioni di lavoro: un numero davvero esiguo, anche tenendo conto della crisi. Bisogna migliorare con urgenza i flussi informativi sulle posizioni vacanti in tutti i settori dell’economia.

Il compito di attuare la “Garanzia” spetta alle Regioni. Quelle del Centro-Nord (in parte anche la Puglia) sembrano sulla buona strada. Lombardia, Toscana e Lazio hanno già incontrato più di un terzo dei loro iscritti. Le Regioni del Mezzogiorno sono invece quasi ferme. E ciò che sta accadendo solleva, purtroppo, più di una preoccupazione. Nel piano di spesa della Sicilia, ad esempio, quasi due terzi dei 178 milioni di euro disponibili verranno destinati all’«accoglienza»e alla formazione, solo il 6 per cento ad attività concrete come l’apprendistato. Per quest’ultima voce («già incentivata da altre leggi») la Sardegna non prevede neppure un euro mentre abbonda in sussidi a formatori e mediatori. La Calabria dal canto suo ha appena chiuso un bando per 500 tirocini con modalità di selezione che rischiano di riprodurre sotto nuove spoglie le tradizionali logiche clientelari.

Dati questi segnali, vi è un’alta probabilità che la “Garanzia” fallisca proprio nelle aree del Paese dove è più necessaria. Invece di innescare dinamiche virtuose nei mercati del lavoro del Mezzogiorno, le risorse europee rischiano di alimentare, come in passato, il sottosviluppo assistito. Bruxelles è preoccupata e non ha ancora formalmente approvato il piano italiano: non una bella figura per il paese che più aveva insistito per mobilitare i fondi Ue e che ora detiene la presidenza di turno. Per evitare il fallimento, il governo deve attivarsi subito su almeno due fronti. Innanzitutto imponendo alle Regioni il rispetto dei criteri minimi di trasparenza ed efficacia nella fornitura dei servizi (costi standard, pagamento sulla base dei risultati, apertura alle agenzie del lavoro private e così via). In secondo luogo, collegando la “Garanzia giovani” in modo più diretto al mondo delle imprese. Occorrono incentivi, accordi, politiche di livello nazionale. Nel Mezzogiorno ciò significa trarre investimenti, avviare una seria politica per il turismo e per i servizi, in modo da facilitare anche iniziative dal basso di autoimpiego e di start-up. Un’opportunità concreta di mettersi in gioco nel mercato, in base alle proprie capacità e ai propri talenti: questa è la vera “garanzia” che dobbiamo offrire ai giovani italiani. Iniziando da quelli (troppi) che oggi non riescono a uscire con le proprie gambe dalle trappole dell’inattività, della disoccupazione e dell’assistenzialismo.