michele salvati

Le illusioni da evitare per ristrutturare l’edificio dell’Europa

Le illusioni da evitare per ristrutturare l’edificio dell’Europa

Michele Salvati – Corriere della Sera

Quali saranno le conseguenze delle elezioni greche sui Paesi dell’eurogruppo, e soprattutto sui più deboli, nessuno è oggi in grado di prevedere: dalle prime reazioni dei mercati, delle autorità europee e dei Paesi più forti – della Germania soprattutto -, sembrerebbe esclusa una catastrofe imminente. Ma molte cose possono andare storte se il nuovo governo greco non si rimangerà gran parte delle sue promesse elettorali nelle negoziazioni con la troika. Se così non farà, e se l’atteggiamento europeo sarà poco flessibile, i rischi di guai seri saranno soltanto rimandati. Essendo troppe le variabili in gioco, guardare avanti è impossibile. È possibile invece guardare indietro e trarre qualche lezione, per noi e per i Paesi in condizioni simili alle nostre, dalla (sinora) breve storia dell’Unione monetaria europea.

Alcuni colleghi hanno trovato eccessive le affermazioni di un mio recente articolo (Corriere, 17 gennaio): che è stato un errore aderire al trattato di Maastricht e che, se fosse possibile farlo senza incorrere in costi esorbitanti, dovremmo uscire dalla moneta unica. A quell’errore ho partecipato: negli anni 90, la convenienza ad aderire al Trattato – data la situazione di inflazione latente e gli alti tassi d’interesse che eravamo costretti a pagare – mi sembrava ovvia. Non mi rendevo però conto che, nel lungo periodo, tale convenienza era legata a tre scommesse, tutte perse, dunque a tre illusioni.

La prima era che la favorevole situazione economica internazionale che accompagnò la nascita della moneta europea durasse indefinitamente. Ci eravamo dimenticati delle analisi di Keynes e di Minsky, dell’instabilità congenita del capitalismo, degli squilibri reali e finanziari che stavano montando. Quando esplose, nel 2008, la crisi finanziaria americana rapidamente si trasmise all’Europa, in un mondo ormai strettamente interconnesso i capitali cominciarono ad abbandonare gli investimenti nei Paesi più fragili dell’eurozona. Erano in euro, è vero, ma l’Europa non era uno Stato sovrano e non c’era una Banca centrale costretta a intervenire per difenderli, non c’era un prestatore di ultima istanza. Cominciò allora la divaricazione (spread) tra i rendimenti e iniziarono a crescere gli oneri a carico degli Stati più indebitati e più fragili. Già, ma perché negli anni favorevoli, tra il 1999 e il 2007, questi Stati non si erano dati maggiormente da fare per ridurre il proprio indebitamento e, più in generale, per aumentare la propria competitività?

E qui si rese evidente la seconda illusione: rimediare ai guasti di un passato di cattiva gestione economica e di debolezza strutturale non è per nulla semplice, e sicuramente non è rapido. Nelle migliori élite italiane circolò a lungo l’idea che il «corsetto» dell’euro avrebbe indotto i governanti a una gestione più responsabile delle finanze pubbliche (la famosa metafora di Ulisse che si fa legare all’albero maestro per non cedere alle lusinghe delle sirene). Si vide però assai presto, nella legislatura 2001-2006, che il corsetto non teneva e che il confortevole avanzo primario della precedente legislatura veniva rapidamente dilapidato.

Non voglio farne una questione di parte, perché dubito che un governo di centrosinistra si sarebbe comportato in modo molto diverso: troppo invitante è l’uso della spesa pubblica per assicurarsi consenso politico. Trasformare un Paese «vizioso» in uno virtuoso, quando non ci sono ragioni impellenti per stringere la cinghia, è uno sforzo politico sovrumano e richiede o un consenso sociale straordinario (quello inglese ai tempi della guerra, del «sudore, lacrime e sangue ») o un dittatore benevolo, più che un normale leader democratico. O entrambi. Ma non avrebbe potuto l’Unione – e i Paesi più forti dell’eurogruppo – venire in soccorso del Paese (temporaneamente?) in crisi e sotto attacco speculativo?

Questa è la terza illusione, la terza scommessa irrealistica, quella di scambiare il sogno di un’Europa federale con la realtà, una realtà in cui un demos europeo è molto debole, la politica è ancora largamente un affare nazionale, i sospetti e i pregiudizi dei singoli Paesi dell’Unione nei confronti degli altri sono molto forti. Se persino una parte del popolo italiano – quella rappresentata dalla Lega – protesta contro lo sforzo di mutualità richiesto alle regioni più ricche a sostegno di quelle più povere, e questo dopo 150 anni di unità politica, come illudersi che la Germania avrebbe potuto comportarsi diversamente con l’Italia?

Gli economisti si saranno accorti che mi sono limitato a riformulare diversamente parte degli argomenti secondo i quali l’Europa dell’euro non è un’area valutaria ottimale e dunque un’unione monetaria vincolante è difficilmente sostenibile. Questa è la lezione riassuntiva che i Paesi più fragili dell’eurogruppo dovrebbero trarre dall’esperienza dei quindici anni di moneta unica. La crisi provocata dalle elezioni greche può essere una occasione per ristrutturare l’intero edificio costruito a Maastricht. Una ristrutturazione che non abbisogni, per funzionare, delle tre scommesse illusorie che ho appena descritto.

Una riforma del lavoro per ripartire. Riduzione dei costi, non del salario

Una riforma del lavoro per ripartire. Riduzione dei costi, non del salario

Michele Salvati e Marco Leonardi – Corriere della Sera

Conosceremo presto la formulazione definitiva che il governo intende dare al suo progetto di riforma della legislazione del lavoro, quel Jobs Act che ha nella sua pancia il tormentone dell’articolo 18: i giornali danno per scontata l’ipotesi di un decreto, ma staremo a vedere. Il nostro articolo precedente (Corriere, 7 settembre) poteva aver lasciato l’impressione che l’attivismo riformistico del governo fosse soprattutto indirizzato a ottenere dalla Germania un allentamento delle condizioni di austerità cui siamo sottoposti: come rifiutarsi di allentarle se facciamo i nostri compiti a casa e attuiamo una riforma così importante secondo un modello uguale o molto simile a quello tedesco?

Vorremmo rettificare questa impressione, se c’è stata: il modello tedesco è opportuno nella sostanza e presentarlo presto in Europa sicuramente rafforza la nostra posizione contrattuale, ma dubitiamo che questa o altre riforme convincano i tedeschi a modificare in tempi brevi il loro atteggiamento. I difetti del sistema della moneta unica sono così profondi, e i vantaggi immediati che esso offre alla Germania sono così importanti, che è improbabile che essa voglia mutare le sue politiche interne e il suo atteggiamento nei confronti degli attuali assetti europei, quali che siano le «riforme strutturali» alle quali i Paesi deboli si sottomettono. Se è così, ristagno e dualismo sono destinati a permanere per un lungo periodo.

Ma allora perché il modello tedesco? O addirittura, perché una revisione profonda della legislazione del lavoro? Risposta: perché comunque ci conviene. Perché in ogni caso, sia che l’austerità europea si attenui sia che persista, e persino in presenza di forti turbolenze degli assetti istituzionali dell’Unione, avere un mercato del lavoro che funziona bene è meglio di averne uno che funziona male. In un contesto globalizzato, in cui tutti i Paesi avanzati sono comunque soggetti a forti pressioni competitive, tra i loro sistemi di legislazione del lavoro quello tedesco è un buon compromesso tra flessibilità e garanzie, tipico di un Paese dell’Europa continentale con un welfare sviluppato e con sindacati forti: difficilmente sistemi anglosassoni sarebbero applicabili da noi.

È un sistema che mantiene un filtro giudiziario al licenziamento, che però non interferisce con le motivazioni economiche addotte dall’imprenditore e solo opera, e può condurre al reintegro in casi estremi, se il lavoratore e i sindacati dimostrano che le motivazioni economiche sono un pretesto che nasconde motivazioni incostituzionali. È un sistema dove esiste una indennità automatica: all’atto del licenziamento l’impresa è tenuta a offrire una indennità di un mese di salario per ogni anno di lavoro e, se il lavoratore 1’accetta, perde il diritto di rivolgersi al giudice. Ed è un sistema dove i centri per l’impiego funzionano decentemente e dove all’indennità di disoccupazione – con durata e modalità non molto diverse dalla nostra Aspi – fanno seguito misure assistenziali, molto modeste, ma di durata indefinita. Tutto si tiene nel mercato del lavoro e una riforma del solo articolo 18 serve poco se non è accompagnata da una revisione di altre parti della legislazione del lavoro e del welfare.

Pochi i punti fermi. Il primo è che l’Italia ha un tasso di occupazione, in particolare quello femminile, troppo basso per permettersi un welfare generoso: il numero degli occupati è all’incirca uguale a quello degli inattivi o disoccupati e poi gli occupati hanno i pensionati sulle loro spalle. Il primo obiettivo è dunque quello di aumentare l’occupazione, con ogni mezzo. Il secondo punto fermo è che l’Italia ha un numero abnorme di occupati in lavori autonomi, il 23%, contro un 13% di Francia e Germania: il secondo obiettivo è dunque eliminare gli impedimenti che ostacolano il ricorso al lavoro dipendente. Oggi il problema non sono gli ostacoli contro i contratti a termine, dove siamo più o meno in linea con gli altri grandi Paesi europei, ed è la Spagna il caso abnorme. Da noi il grande problema è quello delle partite Iva fasulle. Sono loro la fonte dei veri precari del XXI secolo, senza diritti né minimi salariali, privi della possibilità di accumulare contributi pensionistici e spesso costretti all’evasione: è una piaga che dev’essere eliminata.

Il terzo punto fermo è che l’occupazione si favorisce più con le politiche salariali che con l’abolizione dell’articolo 18, pur necessaria. Quando arrivò la crisi del 2007-2009 la Germania si ritrovò con un sistema di relazioni industriali in cui la metà delle imprese e dei lavoratori contrattavano i loro salari al di fuori dei contratti nazionali di categoria e con un sistema di ammortizzatori sociali chiaro e ben funzionante. La combinazione di orari e salari flessibili, di un forte legame tra salari e produttività, ha fatto uscire dalla crisi il Paese meglio di come vi era entrato. Dunque, sarebbe opportuno che nella riforma fosse compresa anche la materia contrattuale.

Un’osservazione finale e di natura politica. In via generale i lavoratori non hanno «colpa» del fatto che il loro lavoro è poco produttivo e che l’occupazione scarseggia. Le colpe sono diffuse su altri soggetti: su imprese incapaci di innovare e organizzarsi in modo efficace, su un sistema fiscale che tassa troppo e male il lavoro e l’impresa, su uno Stato e su una pubblica amministrazione inefficienti e bizantini. Che le conseguenze di queste inefficienze altrui ricadano sul lavoro genera reazioni e resistenze, ed è comprensibile che così avvenga. Ma i costi salariali sono la trazione più importante del valore aggiunto e su di essi occorre incidere se si vogliono restaurare rapidamente condizioni di maggiore competitività. Una penosa bisogna, di cui il governo può essere perdonato solo se attacca con eguale determinazione gli altri segmenti del Sistema-Paese dai quali la nostra scarsa capacità di crescita dipende.

Minori indennità e più certezza di giudizio: sì al Jobs Act alla tedesca

Minori indennità e più certezza di giudizio: sì al Jobs Act alla tedesca

Michele Salvati e Marco Leonardi – Corriere della Sera

È ricominciato nella commissione Lavoro del Senato l’iter legislativo del Jobs act, la legge delega sulle riforme della legislazione del lavoro proposta dal governo. La materia è molto ampia – va dagli ammortizzatori alle politiche attive, dalle semplificazioni normative al riordino dei contratti – ma è probabile che l’attenzione interna e internazionale si concentrerà soprattutto sulle tutele relative al licenziamento individuale. Insomma, riprenderà il tormentone sull’articolo 18, che non si è sopito neppure durante le ferie. Questa concentrazione politica e mediatica è eccessiva: altre materie sono importanti ed è poi l’insieme quello che conta. Ma siccome avverrà così, avanziamo una «modesta proposta» che potrebbe essere una buona via d’uscita per il governo. Renzi ha detto che il modello di riferimento per il mercato del lavoro è la Germania. Siamo d’accordo. Si pensi a come sarebbe efficace poter dire in sede europea, a chi rinfaccia al governo le sue resistenze in materia, che la disciplina italiana del licenziamento individuale è identica a quella tedesca.

L’articolo 18, inteso come protezione contro il licenziamento individuale senza giusta causa, esiste in tutti Paesi a democrazia avanzata, seppure con varia intensità. È poco credibile che l’Italia possa prendere a modello i Paesi anglosassoni, dove il licenziamento individuale è politicamente e culturalmente più accettato, ma non per questo senza regole. Può però «diventare come la Germania» e ci manca poco a raggiungere l’obiettivo: già la riforma Fornero aveva preso quel Paese come esempio e gran parte del percorso di avvicinamento è stato fatto. Anche in Italia è oggi obbligatorio un tentativo di conciliazione di fronte al giudice prima di andare in tribunale e la reintegrazione del lavoratore non è più necessaria in caso di licenziamento ingiustificato: nella maggioranza dei casi basta una indennità monetaria. La conciliazione obbligatoria funziona e più del 50% dei casi non arriva in tribunale, come in Germania. Nei casi che arrivano in giudizio, per la metà vincono i lavoratori e solo in pochi casi più gravi c’è la reintegrazione. Cosa manca dunque a diventare esattamente come la Germania? Anzitutto, si tratta di un problema rilevante?

I numeri dei licenziamenti ex articolo 18 in Italia sono molto bassi, meno di 10.000 all’anno. Ma questo non dimostra che l’attuale disciplina sia un problema irrilevante per le imprese, come sostengono i suoi difensori: molte imprese non si azzardano a fare licenziamenti individuali, che pure sarebbero per loro convenienti, per il timore di un possibile giudizio di reintegro. Inoltre l’indennità per il licenziamento è tra i 12 e i 24 mesi di salario, un’indennità ragionevole per i lavoratori anziani ma molto alta per chi è in azienda da poco tempo. Per «diventare come la Germania» possiamo allora limitarci a due modifiche dell’attuale disciplina, che non ci sembrano politicamente impossibili nelle attuali condizioni.

Non è necessario impedire al lavoratore di impugnare in giudizio un licenziamento individuale per motivi economici. Anche in Germania lo si può fare e nei casi di ingiustizia più grave si può ottenere anche la reintegrazione nel posto di lavoro. Si deve però ridurre l’incertezza del giudizio, perché in Germania, di fatto, l’incertezza è poca, i sindacati sono collaborativi e i giudici normalmente prendono per buone le motivazioni dell’imprenditore. In Spagna hanno risolto la questione scrivendo nella legge che, se l’azienda è in perdita, ciò costituisce di per sé una giusta causa di licenziamento. Solo se l’azienda è in perdita? Non potrebbe essere un giustificato motivo quello di adattare la forza lavoro al mutamento della situazione economica, così com’è valutata dall’imprenditore? Possibile che non ci sia un modo per ridurre l’arbitraria sostituzione della valutazione del giudice a quella dell’imprenditore?

In secondo luogo, per «fare come la Germania», è necessario ridurre l’indennità di licenziamento per i lavoratori con poca anzianità di servizio: per dare un’idea, se un lavoratore è in azienda da sei mesi l’indennità di licenziamento potrebbe essere di un mese e così via. Se è questo il contratto unico a tutele crescenti, allora ci si avvicina alla Germania, dove c’è la stessa quantità di contratti a termine dell’Italia e non ci si è mai preoccupati di un contratto unico a tutele crescenti: si possono lasciare le regole vigenti per i contratti a termine anche in Italia, con un limite di rinnovo fino a tre o cinque anni. Se è ottimista sul futuro, è probabile che l’azienda decida di stabilizzare il lavoratore con un contratto a tempo indeterminato: le aziende decidono le stabilizzazioni più in riferimento alle prospettive di crescita che al costo del lavoro. Se poi quelle prospettive non si realizzassero, non si tratterebbe di un rischio intollerabile perché si potrebbe procedere a licenziamenti individuali con ragionevole certezza e a costi accettabili.

Due sole modifiche, dunque. Anzi, a rigore, una sola, perché in astratto un cambio nell’atteggiamento dei giudici e del sindacato potrebbe avvenire anche a legislazione vigente. Ma, siccome è difficile che ciò avvenga dopo una lunga storia di conflitti e sospetti, lo si può stimolare con regole che inducano giudici e sindacato ad un atteggiamento meno ostile nei confronti delle decisioni aziendali. Pietro Ichino è convinto che il suo «contratto di ricollocazione» risolverebbe il problema. Potrebbe essere. L’importante è che imprenditori onesti, che vivono in un ambiente difficile, si convincano che il giudice riconoscerà le buone ragioni economiche che li hanno indotti ad un licenziamento individuale. E solo allora saremo diventati… «come la Germania». Almeno in questo.