Tanti minibond, pochi investimenti

Alessandro De Nicola – Affari & Finanza

Un proverbio inglese ricorda che puoi portare un cavallo alla fontana, ma non puoi costringerlo a bere. Questa chicca di saggezza popolare ben si adatta agli sforzi che legislatori e autorità monetarie compiono per superare il credit crunchche attanaglia l’Italia e di cui la storia della giovane coppia che gira 12 banche e non riesce ad ottenere un mutuo, pubblicata venerdì scorso su Repubblica, ne é l’esemplificazione. Il primo esempio di cavallo che beve in modo strano lo si trova nel mercato dei minibond. Questo strumento é stato introdotto ormai più di due anni fa. È stato poi man mano affinato, soprattutto allo scopo di finanziare i piani di sviluppo delle Pmi. Invece che sottostare alla rigida normativa societaria e fiscale applicabile alle emissioni di obbligazioni, le imprese che decidono di quotare in un mercato regolamentato i propri titoli di debito ottengono la piena deducibilità fiscale degli interessi e non devono rispettare i limiti di proporzione tra debito e patrimonio netto previsti dal codice civile.

Il governo Monti e successivamente quello Letta avevano voluto aprire un nuovo canale di approvvigionamento di risorse per le aziende innovative senza necessariamente far ricorso al credito bancario. L’esperimento sta riuscendo discretamente bene, in quanto sono stati finora emessi minibond per 1,2 miliardi di euro ed il mercato è in sicura crescita. Tuttavia il cavallo-impresa non ha bevuto esattamente l’acqua che si aspettava il legislatore. Infatti, secondo una ricerca della società di consulenza Crescendo che ha esaminato le 36 emissioni obbligazionarie fin qui effettuate, sono emersi dati curiosi. Del miliardo e 200 milioni raccolto sul mercato, solo152 sono serviti a finanziare progetti di sviluppo (il 13% del totale) cui possiamo forse aggiungere altri 150 milioni raccolti da società municipalizzate venete per le reti idriche. Il resto o è stato collocato da società quotate per le quali la procedura minibond non era necessaria (73 milioni), oppure per rifinanziare il debito bancario (818 milioni). Insomma, l’eterogenesi dei fini, di cui lo Stato non tiene mai conto, ha funzionato in questo caso a meraviglia, sopperendo sì ad un bisogno, ma non quello che si era immaginato l’estensore della legge. In futuro è possibile che la situazione si riequilibri, ma ad oggi il cavallo ha fatto di testa sua. E qui arriviamo ad un’altra fontana, la BCE, la quale, pur avendo offerto alle banche italiane una quantità enorme di denaro perché queste potessero utilizzarlo per gli impieghi delle imprese, si è trovata di fronte ad un’inaspettata flebile richiesta. Secondo il programma Tltro ( Targeted Longer Term Refinancing Operations) a settembre erano disponibili per gli istituti di credito italiani ben 75 miliardi di euro, ma i primi 10 di loro ne hanno richiesto solo 23.

Ma come, le nostre aziende lamentano il prosciugamento del credito, la Bce mette a sul piatto a tassi di interesse infimi una quantità enorme di denaro e il cavallo bancario non si abbevera? Anche in questo caso le spiegazioni potrebbero essere molteplici. Una, contingente, é che le banche sono in attesa degli stress test (o, se si preferisce, valutazione dei bilanci) che la Bce sta conducendo e quasi completando. Si vorrebbero attendere gli esiti della valutazione prima di decidere se indebitarsi troppo. Tuttavia, nei mesi scorsi il sistema bancario ha già restituito in anticipo una parte sostanziosa del denaro che era stato precedentemente preso a prestito dalla Bce e questo indicherebbe che la questione principale non è la mancanza di liquidità. Piuttosto, il sistema creditizio italiano è assediato dalle sofferenze e perciò in ogni caso le banche sono riluttanti a concedere mutui. Le imprese che non esportano non offrono probabilmente sufficienti garanzie, di conseguenza i tassi che vengono applicati sono tuttora alti o addirittura non si eroga il credito.

Il problema è circolare: finché c’è la crisi non è prudente aprire la borsa del credito, ma senza liquidità diventa più difficile uscire dalla crisi. Ecco dunque che i due cavalli, quello del minibond e quello del Tltro si ricongiungono: i soldi per lo sviluppo sono molto meno utili fino a quando non ci saranno le condizioni che favoriscono la crescita. E quali sono queste condizioni? Il pagamento dei crediti della PA é certamente uno, la riduzione del debito pubblico e un ulteriore abbassamento dello spread, in modo da rendere i BTP meno attraenti per le banche un altro. Inoltre, l’indebolimento dell’euro (facilitato dalle manovre della BCE) potrà aiutare. Ma il fattore principe sono le riforme invocate dallo stesso Draghi: sinché il mercato del lavoro, quello delle professioni e quello dei servizi non saranno liberalizzati, la giustizia non sarà efficiente, le tasse e le spese tagliate, il peso della burocrazia ridotto, la PA sottoposta a criteri meritocratici, inondare di liquidità il mercato avrà effetti limitati. I due cavalli, che siano imprese o banche, arrivati alla fontana chiedono dunque all’unisono una cosa sola: riforme, riforme, riforme.