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La lezione di Atac per l’economia

La lezione di Atac per l’economia

di Massimo Blasoni – Il Tempo

Annunciando obtorto collo la strada inevitabile e dolorosa del concordato preventivo, il sindaco Virginia Raggi ha precisato che «Atac deve rimanere pubblica. Atac deve rimanere di tutti noi romani». Non voglio entrare nelle pieghe di una situazione aziendale drammatica e complessa, che comporterà a breve pesanti ricadute anche sulla stabilità finanziaria di Roma Capitale. Quel che mi colpisce è però il ricorrere, anche quando si è pencolanti sul precipizio della bancarotta, al mantra del “pubblico a tutti i costi” che accomuna un movimento di presunta rottura col passato con gran parte della tradizionale classe politica.

Se l’azienda pubblica di trasporto più grande, indebitata e sfasciata d’Italia è arrivata ormai al capolinea è perché in questi anni i suoi amministratori e i loro referenti politici si sentivano comunque al riparo da ogni responsabilità: a pagare il loro fallimento sarebbero stati solo i contribuenti. Nessuno ha così voluto accettare la sfida – europea e ragionevole – di un servizio pubblico gestito efficacemente in forma liberalizzata, con diversi operatori privati in concorrenza tra loro e costretti a osservare i rigidi paletti della qualità del servizio imposti da una piccola ma determinata struttura di governance pubblica. Si è preferito invece continuare a demonizzare i privati, additati dall’assessore di turno come assetati di profitto (parola ingiuriosa nel Paese del debito pubblico). Un alibi che serve ai partiti per garantirsi il profitto di una preziosa riserva elettorale e di potere economico.

La gestione pubblica di alcuni servizi nasce all’inizio del secolo scorso. Le aziende municipalizzate si occupavano di strade, illuminazione, trasporti, acquedotti, farmacie e anche forni per il pane. Colmavano un vuoto lasciato dallo Stato centrale ed erano una risposta di tipo sociale alle esigenze insoddisfatte delle masse inurbate impiegate nell’industria. Negli ultimi decenni, per una sorta di beffardo contrappasso, il proliferare delle municipalizzate e delle società miste costruite dagli enti pubblici (Carlo Cottarelli a suo tempo ne ha censite ben 8mila, spesso con più amministratori che dipendenti) è divenuto invece il simbolo di una politica incapace di garantire servizi efficienti a basso costo di gestione. Guidate da personale di nomina partitica (più fedele che capace), sono un cancro economico che consuma gli spazi dell’imprenditoria privata. Si tratta di organismi di diritto privato ma con ferreo controllo politico, che operando con i soldi dei contribuenti non hanno quasi mai avuto a cuore gli obiettivi di un’impresa: contenimento dei costi, efficienza e profitto. La loro nascita ha semmai consentito la duplicazione degli uffici (e quindi la moltiplicazione della burocrazia) nonché utili escamotage: assunzioni quasi sempre senza concorsi pubblici e cospicui finanziamenti pubblici senza dover rispettare i vincoli di spesa imposti dal Patto di stabilità. La crisi irreversibile di Atac serva almeno come salutare lezione liberale per il futuro: i servizi pubblici, per essere di qualità, non devono necessariamente essere gestiti dal pubblico. In un’azienda non si può spendere più di quanto si ricava. La pacchia è finita.

Gli enti locali tagliano i contributi alle imprese private, cresce la spesa per le partecipate pubbliche

Gli enti locali tagliano i contributi alle imprese private, cresce la spesa per le partecipate pubbliche

Negli anni tra il 2011 e il 2014, la spesa degli enti locali erogata a favore di imprese private e pubbliche (con l’esclusione delle aziende sanitarie e ospedaliere) è rimasta costantemente al di sopra degli 8 miliardi di euro. E nel 2015, anno per il quale non sono ancora disponibili dati definitivi, questa cifra non sembra aver subito variazioni significative. È questo il dato complessivo che emerge da una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro su dati Siope (Sistema informativo sulle operazioni degli enti pubblici).

La variazione più evidente, negli anni presi in considerazione dalla ricerca, è quella che ha riguardato la distribuzione di questi trasferimenti e partecipazioni tra la quota destinata alle imprese pubbliche e quella riservata alle imprese private. A livello nazionale, infatti, la spesa degli enti locali per le partecipazioni pubbliche è aumentata – tra il 2011 e il 2014 – di quasi un miliardo di euro (+35%), mentre l’importo destinato alle imprese private è calato di circa 800 milioni di euro (-17%).

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Il 77% di questa spesa è gestito direttamente dalle Regioni, per un dato annuo che è rimasto complessivamente stabile tra il 2011 e il 2014 intorno ai 6 miliardi e mezzo di euro. Il residuo 23%, invece, è di competenza dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Unioni di Comuni, con quote piuttosto variabili che sono oscillate tra gli 1,7 e i 2,2 miliardi di euro.

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Scomponendo il dato che riguarda i trasferimenti verso le imprese pubbliche la ricerca ha individuato una componente stabile e costante – pari a oltre 1,4 miliardi di euro – rappresentata dai trasferimenti correnti operati dalle Regioni (1,1 miliardi) e dagli altri enti locali. Più variabili, invece, i dati dei contributi in conto capitale, che sono praticamente raddoppiati dal 2011 (circa 770 milioni) al 2014 (1,5 miliardi). Crescono tendenzialmente, anche se in modo meno evidente, le partecipazioni azionarie nelle imprese pubbliche (arrivate a 244,5 milioni nel 2014). Mentre il dato sul ripianamento delle perdite, pur residuale, è pesato comunque per oltre 166 milioni nel 2014. La spesa verso le imprese speciali (le cosiddette “municipalizzate”), infine, composta quasi interamente da trasferimenti correnti di Comuni e Province, resta stabile al di sopra dei 300 milioni di euro all’anno.

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Per quanto riguarda le imprese private, la voce più rilevante (che è anche quella più colpita dai tagli degli ultimi anni) resta quella dei trasferimenti in conto capitale a carico delle Regioni, che nel 2011 erano pari a 2,7 miliardi di euro ma che sono scese fino ai 2,1 miliardi nel 2014. La diminuzione dei contributi alle imprese private si nota anche nei trasferimenti correnti delle Regioni: dai quasi 1,5 miliardi di euro del 2011 agli 1,2 miliardi del 2014. Stabili, invece, i trasferimenti da parte di Province e Comuni.

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A guidare la classifica della spesa pro-capite verso le imprese pubbliche e speciali sono le tre Regioni Autonome del Nord Italia – Trentino Alto Adige, Val d’Aosta e Friuli Venezia Giulia – i cui enti locali spendono rispettivamente 295, 205 e 116 euro per abitante. Agli ultimi posti si piazzano invece Molise e Calabria, che spendono meno di 10 euro per abitante.

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Nemmeno Renzi cambia verso al carrozzone municipale (per ora)

Nemmeno Renzi cambia verso al carrozzone municipale (per ora)

Marco Valerio Lo Prete – Il Foglio

In origine ci fu un tweet, ovviamente: “#municipalizzate: sfoltire e semplificare da 8.000 a 1.000″. Parola di Matteo Renzi, presidente del Consiglio, nell’aprile 2014, a poche settimane dall’insediamento. Poi in agosto il “programma di razionalizzazione delle partecipate locali” di Carlo Cottarelli, allora commissario governativo alla spesa pubblica: sono 7.726 le società che hanno come azionista – maggioritario o meno – le amministrazioni locali, anche se “non si conosce il numero esatto delle partecipate” (sic!), per un totale di 235 mila dipendenti. Poi di nuovo Renzi che annuncia: “Le ridurremo a un ottavo di quante sono oggi”. Quindi, al rientro dalle ferie estive, la rassicurazione del potente sottosegretario Graziano Delrio: “Il governo affronterà la questione in modo organico nella legge di stabilità”. “Una vergogna inaccettabile”, ha ribadito Renzi all’inizio di dicembre alla Camera sulla scorta del tormentone “Mafia Capitale”.

Adesso però il testo definitivo della legge di stabilità c’è, e le municipalizzate sembrano continuare a godere ancora di ottima salute, che si tratti del prosciuttificio o della società del trasporto pubblico locale. A dire il vero di un “processo di razionalizzazione” del capitalismo municipale, in Finanziaria, si parla. In maniera però poco radicale o rottamatrice, a giudicare dai commi 610 e seguenti del maxiemendamento governativo. “Una novità positiva è il riferimento alla soppressione delle partecipate “inutili”, cioè quelle non indispensabili al perseguimento delle finalità istituzionali, come agenzie di stampa, assicurazioni e farmacie, nel caso specifico in cui siano ‘composte da soli amministratori o da un numero di amministratori superiore a quello dei dipendenti’ dice al Foglio Serena Sileoni, vicedirettore generale dell’Istituto Bruno Leoni. Per il resto il governo si muove, ma come i gamberi, per tornare indietro. infatti la liquidazione delle partecipate inutili doveva avvenire entro il 31 dicembre 2014, cioè entro pochi giorni. Invece, parlando di una nuova scadenza, il 31 dicembre 2015, di fatto si concede un anno in più di tempo agli enti locali. Una proroga che ricorda quella contenuta nel dicembre 2013 nella Finanziaria del governo Letta.

Nel 2012 il decreto Spending review del governo Monti prevedeva lo scioglimento entro il 31 dicembre 2013 delle società “strumentali”, quelle che lavorano quasi totalmente per l’ente pubblico che le controlla; o la loro alienazione dal 2014. In più c’erano le norme ad hoc per le municipalizzate “inutili”, introdotte addirittura nel 2007 e da allora periodicamente rinviate. Fino al rinvio voluto dal governo di grande coalizione di Enrico Letta, appunto; un esecutivo che in alcune fasi sembrò navigare con l’obiettivo di evitare i dossier più spinosi. Ma perché Renzi, sulle municipalizzate, avanza pure lui a suon di annunci e proroghe? La spiegazione ufficiale – che soprattutto i tecnici del ministero dell’Economia (Mef) offrono agli investitori internazionali – è la seguente: “Non si poteva mettere troppa came al fuoco nella legge di stabilità”. Tuttavia negli ultimi mesi c’e stato un altro ostacolo: Palazzo Chigi sembra preferire che sia il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, a tirare le fila dell’iniziativa riformatrice, incentivando così un continuo palleggio tra i due dicasteri (Mef e Pa). Se Delrio annunciava norme chiare già in legge di stabilità, Madia finora sul tema è intervenuta poche volte in pubblico, dando l’idea di un work (molto) in progress: parlò di “riduzione delle municipalizzate” al punto 36 (su 44) della lettera inviata in aprile a tutti i dipendenti della Pa; poi in una recente intervista al Messaggero ha annunciato un “Testo unico” sulle partecipate in arrivo il prossimo anno.

Nella maggioranza dicono che fino a oggi tra i “frenatori” bisogna annoverare proprio l’ipercinetico Renzi, come dimostra la sorte dell’emendamento Lanzillotta-Chiavaroli (di due partiti della maggioranza, Scelta civica e Ncd) che almeno introduceva sanzioni per gli enti locali che non dismettono le partecipate inutili, emendamento cassato a notte fonda dal governo (cioè dal Pd). Il “partito dei sindaci”, con le sue ramificazioni societarie, ha ancora uninfluenza sull’ex primo cittadino di Firenze; visto che Renzi per mesi non ha escluso elezioni nella primavera 2015, finora ha preferito accarezzare quel partito nel verso giusto. D’adesso in poi si cambia?

Cooperative e società municipalizzate, così funziona la macchina dei voti

Cooperative e società municipalizzate, così funziona la macchina dei voti

Davide Giacalone – Libero

Per sapere che è in corso una campagna elettorale, in Emilia Romagna, devi comprare i giornali. Leggendoli scopri che si parla di tutto, a partire dai riflessi nazionali del voto, ma non di Emilia Romagna. Se giri per le strade non trovi traccia di politica. E sì che questa è la sanguigna terra di Brescello, di Peppone e Don Camillo. Che fine hanno fatto? Non credete a quelli che vi dicono esserci disinteresse e qualunquismo, è che sia la politica che i cittadini sono stati espulsi dalla competizione, ridotta ad affarismo e parolismo.

Se stessimo parlando di cose serie, proponendo agli elettori qualche cosa che abbia a che vedere con il futuro, i vibratori troverebbero posto solo nelle battute marginali. Invece sono lì (giacché fra le spese rimborsate ai consiglieri regionali, in questo caso Pd, a dimostrazione che oltre a fessi sono anche miserabili), ad eccitare solitari i dibattiti. Che manco si fanno. Già, perché non solo sono vuote le piazze, non solo mancano i manifesti, risultando in gran parte vuoti anche i tradizionali tabelloni, ma neanche le televisioni locali si mostrano interessate. Robetta. Normale amministrazione.

Occhio: non succede a caso. Questo effetto-sonno è voluto. Se stessimo parlando di cose serie, infatti, parleremmo delle 500 società partecipate dalla Regione, assieme a un nugolo di enti locali. Matteo Renzi disse che le 8000 municipalizzate sarebbero dovute diventare 1000. Sarebbero ancora troppe, ma, comunque, perché il Pd, in Emilia Romagna, non propone di ridurle a 62 (500 diviso 8)? Perché quelle sono rimaste l’unica ragione per votare Pd. Il tessuto del consenso s’è stracciato, come dimostra il deserto elettorale, rimane solo quello della cointeressenza. Finché regge, vincono. Un esempio? Davanti alla stazione di Fidenza si sarebbero dovute realizzare due torri, per appartamenti. Una l’hanno abbandonata, l’altra è finita, ma semi deserta. Operazione a cura del sistema cooperative, in questo caso Unieco. Operazione fallimentare e fallita. Qual è l’unico appiglio di salvataggio? Il fatto che nella torre prendano uffici il Comune, le altre cooperative, il sindacato. Soldi buttati per salvare compagni falliti. Ci hanno fatto anche un parcheggio per le biciclette, costato un milione di euro (cosa denunciata da Francesca Gamharini). Una rivisitazione neorealista, affinché i ladri non si concentrino sulle biciclette. Questo mostro da socialismo insaccato produce appalti, posti, prebende, cointeressenze. Fa da collante a ciò che s’è sfasciato. Ma impoverisce tutti. Prendete le Terme di Salsomaggiore: già solo il palazzo merita il viaggio ed è attrazione turistica, ma, gestite dagli enti locali, falliscono anche quelle. Hanno fatto vasche per ospitare meno di dieci persone. Lo hanno scambiato per il bagno di casa loro.

Dice Matteo Richetti, esponente del Pd e sfidante affondato prima delle primarie: la gente non sa perché andare a votare. Correggo: lo sanno solo quelli che ci andranno, i meno, i cointeressati. A destra ci si interessa del possibile sorpasso di Forza Italia, a opera della Lega. Ma, scusate, è già avvenuto. Guarderemo dentro le urne, ma se in una Regione così combinata chi dovrebbe rappresentare l’alternativa non ha da proporre un modello diverso, se non martella notte e dì per lo smantellamento di quelle 500 pepite di clientelismo e inciucismo, ha già perso. Anzi: s’è perso. La Lega agita problemi veri usando parole non sempre risolutive. Farà la strada che merita. Sono gli altri ad essere andati fuori strada. Il che, però, lascia orfano l’elettorato ragionevolmente convinto che il presente si debba cambiarlo senza perdere il senso del tempo e dei tempi. Restano orfani i risparmiatori che hanno messo da parte quel che serve a vivere con sicurezza e non intendono esporlo alle avventure monetarie dei propagandisti. Di vecchio e nuovo conio.

Andranno a votare in pochi perché gli altri non sono desiderati, prima ancora che interessati. Perché se andassero avotare in tanti si dovrebbero per forza fare i conti con la realtà. Mentre i militi del voto assicurano a forze spompate e idee approssimate di potere vivere ancora un poco nella realtà surreale di una politica che discuterà di percentuali, quando l’unico numero che conterà sarà quello assoluto. Dei votanti e dei voti. E perderanno tutti.

A passettini sparsi

A passettini sparsi

Dario Di Vico – Corriere della Sera

La gradualità ha dunque preso il sopravvento sulla velocità fine a se stessa. Con la parola d’ordine del «passo dopo passo» il premier Renzi sembra aver preso atto, almeno a livello di comunicazione, che nell’azione di governo c’è bisogno di meno foga e più raziocinio. Da sprinter di valore intermedio il presidente si candida ora a diventare un buon mezzofondista. Confidiamo, di conseguenza, che da oggi in poi i provvedimenti siano ben scritti, che i decreti attuativi seguano per tempo e che l’implementazione delle norme non resti impigliata nelle trappole tese, più o meno ad arte, dalla burocrazia.

Peccato però che questa svolta all’insegna del buon senso si sia confusa ieri con un piccolo show di cui avremmo fatto volentieri a meno. Il presidente del Consiglio che gusta polemicamente un gelato nel cortile di Palazzo Chigi per replicare a una pessima copertina dell’Economist non è certo un’immagine destinata ad aiutare la nostra credibilità internazionale, si presenta invece come una scelta assai discutibile di marketing politico. Onestamente non ci viene in mente un altro grande leader europeo in carica che avrebbe dato vita alla stessa performance. Quantomeno qualcuno a lui vicino avrebbe avuto il fegato per fermarlo in tempo.

Guardando alla sostanza delle scelte del Consiglio dei ministri di ieri si può dire che dalla riunione è uscito un film ricco di abbondante trama e di altrettanti annunci. Insieme al tema della giustizia il nocciolo è rappresentato dal provvedimento sblocca Italia che, pur sceso dai 43 miliardi sbandierati fino a qualche giorno fa a numeri più realistici, si compone di almeno tre parti. La prima è un elenco di opere pubbliche che a detta di Renzi e del ministro competente Maurizio Lupi saranno rese cantierabili entro il 2015, la seconda è uno scambio (che farà discutere a Roma come a Bruxelles) tra il governo e le società autostradali che si impegnano a investire e incassano la proroga delle concessioni, la terza – infine – è la tranche autenticamente liberale che promette di semplificare le ristrutturazioni degli appartamenti e abbassa il tetto per le defiscalizzazioni delle piccole opere.

Rinviata in extremis, invece, l’idea di incentivare fiscalmente l’affitto delle abitazioni. Le tre parti, a un primo esame e in base alle cose che sappiamo finora, non appaiono però in equilibrio tra loro, i passettini prevalgono sui passi. Ed è la lunga lista delle infrastrutture da realizzare ad avere nettamente la meglio con qualche scelta che ha del sorprendente, come l’alta velocità/alta capacità sulla tratta ferroviaria Palermo-Messina-Catania. Una priorità che darà adito ai maliziosi di formulare un cattivo pensiero: quello di un premier che coltiva segretamente l’ipotesi di andare nel 2015 a elezioni anticipate. Senza però volersi lanciare nelle previsioni sull’esito della legislatura e solo attenendosi agli annunci, lo step successivo consisterà nel verificare opera per opera le ipotesi di copertura e i meccanismi di finanziamento di lavori che, giova ricordarlo, interessano alla fine almeno una dozzina di Regioni. Già in passato altri governi avevano giocato con gli annunci del varo di grandi opere spostando e mescolando impegni già presi con pure intenzioni, vecchie risorse con nuovi piccoli stanziamenti. È uno di quei famosi casi in cui il diavolo ha da sempre la capacità di nascondersi nei dettagli.

Dove Matteo Renzi sembra essersi arreso, almeno in questa fase, è il disboscamento della giungla delle municipalizzate. Dopo tante parole spese nelle settimane e nei giorni precedenti, il decisionismo del presidente del Consiglio si è fermato davanti alle remore dei sindaci e così il socialismo municipale italiano è riuscito ancora una volta a evitare la rottamazione. Per una misura che alla fine è mancata all’appello ne va segnalata un’altra che invece è sicuramente positiva e riguarda la ratifica del piano straordinario per accrescere il numero delle aziende italiane che esportano con continuità, predisposto da tempo dal viceministro Carlo Calenda. In materia di competitività delle imprese, Renzi ha riproposto anche ieri nella conferenza stampa l’idea che ha maturato sull’evoluzione del costo del lavoro nella manifattura. Per difendere la scelta – peraltro giusta – di mettere 80 euro in più in busta paga, il premier, fresco dell’incontro con il leader della Fiom Maurizio Landini, ha sostenuto che l’Italia deve puntare sull’industria di qualità e sugli alti salari. In linea di principio niente da obiettare solo che se si vuole difendere l’occupazione sarà forse meglio adottare come Paese una strategia più articolata. Perché ci sono settori e aziende sicuramente in grado di creare una quota significativa di valore aggiunto e di ridistribuirlo ai propri dipendenti – come ha fatto di recente la Ferrero – ma ci sono anche settori labour intensive come elettrodomestici e auto nei quali la competizione internazionale si gioca anche sui costi della manodopera. Ignorarlo vuol dire rassegnarsi presto o tardi a veder emigrare questo tipo di lavorazioni oppure a sussidiarle con vagonate di cassa integrazione e provvedimenti ad hoc di decontribuzione. È bene saperlo.

Municipalizzate, il bene pubblico lo fa il privato

Municipalizzate, il bene pubblico lo fa il privato

Gaetano Pedullà – La Notizia

Il disastro delle Municipalizzate si conosceva. I numeri venuti fuori dallo studio del commissario alla spending review Cottarelli sono però peggiori del peggior incubo. Il sogno delle nostre Regioni, delle nostre Province, dei nostri Comuni di farsi le loro piccole Iri presenta un conto che non possiamo più permetterci. Questa è allora la volta buona per sciogliere l’equivoco su chi deve garantire i servizi essenziali: l’alibi perfetto con cui il pubblico si è messo a fare l’imprenditore pur non avendone le competenze. Il motivo è chiaro: controllando le aziende dei trasporti, dei rifiuti, degli acquedotti e dell’energia la politica ha costruito clientele con cui ha campato per decenni. Gestione clientelare ed efficienza sono però inconciliabili. E il risultato è questa immensa dispersione di risorse. Adesso le solite anime belle obietteranno che certi servizi devono restare pubblici. Abbiamo visto come è andata con il referendum sull’acqua. Se però continuiamo a seguire queste sirene qui tra un po’ non resterà più nulla né di queste aziende pubbliche, né degli enti locali che le controllano e neppure di uno Stato sommerso dai debiti. La migliore garanzia per assicurarci questi servizi, facendoli diventare persino più efficienti, è dunque l’affidamento ai privati. In un mercato regolato da norme e che imponga a chi espleterà i servizi di garantire uno standard adeguato sia dove è più facile guadagnare sia dove lo è di meno. Il successo del privato può essere il successo del pubblico. Chi insiste con una certa demagogia fa il gioco di chi ci sta strozzando di debiti. Anche suoi.