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Mignatte

Mignatte

Davide Giacalone – Libero

Aboliamo gli scontrini, puntiamo sulla tracciabilità usando i pagamenti elettronici, e l’Agenzia delle entrate non sarà più vissuta come un avvoltoio. Parole di Matteo Renzi. Già, peccato che è proprio lo Stato a non accettare i pagamenti elettronici. Peccato che anziché spiegarlo ai cittadini il capo del governo dovrebbe spiegarlo alla pubblica amministrazione. E peccato che anche questo rischia di essere un modo per ciucciare via soldi dalle tasche dei privati. Non saprei dire degli avvoltoi, ma la sensazione delle mignatte è forte.

Partiamo dall’osservazione del mercato europeo: i pagamenti in contante sono regolati in modo diverso e il nostro è il solo Paese in cui è considerato illecito pagare in moneta mille euro. In Germania non ci sono limiti all’uso del contante. Il fatto che sia anche l’economia che va meglio non necessariamente suggerisce un rapporto di causa-effetto, ma lascia che sia fondato il sospetto. Me ne sono occupato altre volte e non ci torno, ma giusto per premettere che oltre a perdermi il bello del paradiso fiscale mi scoccia subire il peggio dell’inferno monetario.

Posto ciò, non c’è dubbio: se tutti i pagamenti fossero elettronici e tracciati non ci sarebbero margini per l’evasione fiscale. Che bello. Ma fino a un certo punto, perché ci sono pagamenti di cui legittimamente non intendo lasciare traccia. Ma facciamo finta che sia superabile il problema della privacy. C’è un dettaglio, che forse al presidente del Consiglio sfugge: nel mentre si costringono tutti i privati a dotarsi del pos, ovvero del terminale per incassare pagamenti da carte di credito, di debito e prepagate, lo Stato non li accetta. Ieri sono stato all’ufficio postale, per pagare una cartella Equitalia, e non hanno accettato la mia carta di credito. Che si fa? Direi che si costringono le Poste, che sono una società dello Stato, ad accettare anche quel circuito (legittimo, pubblicizzato, serio e globale). Finché le Poste si permetteranno di non accettare la carta di credito, essendo le Poste dello Stato, il loro proprietario non ha la legittimità morale per imporre ad altri alcunché.

Ma non è finita. Se un negoziante mi chiede di pagare un obolo in più, una volta visto che intendo pagare con la carta di credito, egli commette un illecito passibile di denuncia. Ed è giusto che sia così. Salvo il fatto che è esattamente quanto succede con Equitalia, dato che se vuoi pagare on line con la carta di credito ti chiede un euro in più. Equitalia, per chi si fosse distratto, è dello Stato. Allora: perché un negoziante deve accettare di subire il costo della transazione e lo Stato no? Direi che, anche qui, manca la legittimità morale per far lezioncine su come sarebbe giusto, bello e sano pagare.

Ancora non ho finito. Provate a pagare sigarette, sigari o tabacco con la carte di credito. Nella quasi totalità dei casi vi diranno che non è possibile. Ma non è che i tabaccai siano perfidi o accidiosi, è che il margine a loro riconosciuto è così basso che, a seconda dei diversi circuiti delle carte di credito, sono praticamente equivalenti e in qualche caso inferiori al costo della transazione. Meglio non dimenticare, anche in questo caso, che i tabaccai sono sì dei privati (micro)imprenditori, ma concessionari dello Stato, che vendono (tra le altre cose) prodotti di cui lo Stato ha il monopolio. E’ lo Stato a dettare le condizioni che rendono inutilizzabile la carta di credito.

Conosco già la risposta a questi rilievi: usa il Bancomat. No, scusate: uso quello che mi pare. Se si vogliono promuovere i pagamenti elettronici non si può farlo né a spese dei cittadini né stabilendo per decreto signorile a quale circuito devo portare i miei quattrini. Se la carta di credito è lecita chi opera per conto dello Stato deve avere l’obbligo di accettarla. In caso contrario, almeno, la si smetta di dire cose senza senso e prive della benché minima esperienza di vita vissuta.

Orari dei negozi, l’Antitrust boccia le chiusure estive

Orari dei negozi, l’Antitrust boccia le chiusure estive

Corriere della Sera

L’autorità Antitrust ha bocciato con un’apposita segnalazione la proposta di legge Senaldi, elaborata nella commissione Attività produttive di Montecitorio, per ri-regolamentare l’apertura festiva dei negozi affidando maggiori poteri agli enti locali. Secondo il garante «la proposta viola la concorrenza» perché pone limiti all’esercizio di attività economiche «in evidente contrasto con le esigenze di liberalizzazione di cui è espressione l’articolo 31 del decreto Salva Italia» emanato a suo tempo dal governo Monti. Per di più il parere elaborato dall’Antitrust sottolinea il contrasto della proposta Senaldi con la normativa della Ue in quanto reintroduce significativi limiti concorrenziali «aboliti dal legislatore nazionale» proprio in attuazione del diritto comunitario.

Per gli orari dei negozi la marcia indietro sulla liberalizzazione

Per gli orari dei negozi la marcia indietro sulla liberalizzazione

Corriere della Sera

Negozi chiusi nei giorni di festa. Due anni e mezzo fa il Salva Italia del governo Monti ha cancellato in un sol colpo tutte le chiusure obbligatorie. Oggi si va verso una retromarcia. Più rapida del previsto. Già la settimana prossima il disegno di legge che reintroduce 12 festività con le saracinesche abbassate arriverà alla commissione Attività produttive della Camera. L’obiettivo è portare il testo in aula entro i primi di ottobre

Ad agosto sono stati depositati oltre 150 emendamenti «Ma una base di condivisione della proposta esiste. Certo, con alcune correzioni», assicura il relatore del disegno di legge, Angelo Senaldi, Pd. Sul piano politico l’obiettivo è di quelli ambiziosi: tenere insieme i partiti della maggioranza con il M5S. Non sarà facile. Il movimento di Beppe Grillo è favorevole al ripristino delle chiusure. Mentre nella maggioranza Scelta Civica difende a oltranza la liberalizzazione. Da notare che nel Pd (e anche in Forza Italia) esistono posizioni spesso opposte. «Faremo passi sia interni al Pd sia nella maggioranza e con il govemo per arrivare a una sintesi condivisa», prepara il terreno Senaldi.

Nel Pd la maggioranza renziana si è sempre detta favorevole alle liberalizzazioni. Ma le associazioni del piccolo commercio hanno argomenti convincenti, anche sul piano del consenso. Intanto la distribuzione organizzata promette battaglia. «Con questa controriforma non si tutelano gli imprenditori deboli,come dice qualcuno, ma quelli marginali – attacca Mario Resca, presidente di Confimprese -. I partiti si prestano al gioco delle lobby corporative. Proprio mentre una nuova classe di imprenditori giovani sta cambiando il commercio». Dal canto suo Federdistribuzione fa notare che 13 pronunce della Corte costituzionale hanno ribadito la legittimità delle liberalizzazioni. Secondo l’associazione, con le 12 giornate di chiusura obbligatoria si perderebbero 7-8.000 posti di lavoro. «Ora il problema è politico. Non esiste una giustificazione economica a una marcia indietro sul Salva Italia – analizza Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione -. Assurdo sarebbe che a seguire questa strada fosse un governo che ha fatto della semplificazione la sua bandiera».

Il settembre nero dei negozi, due chiusure ogni apertura

Il settembre nero dei negozi, due chiusure ogni apertura

Paolo Baroni – La Stampa

Arriva settembre, finiscono le ferie, e molte serrande restano abbassate. A chiudere (per sempre) sono bar e ristoranti, negozi di abbigliamento e librerie, imprese che magari hanno una lunga storia imprenditoriale alle spalle ma anche attività nate anche da poco: spesso chiudono in sordina, a volte per pudore non lo comunicano nemmeno alle loro associazioni. «Per molti – spiegano alla Confesercenti – la chiusura del negozio in cui hanno lavorato tutta la vita, magari insieme alla famiglia, è una sconfitta personale. Per questo qualcuno approfitta delle ferie per chiudere».

I primi dati elaborati da Confesercenti ci dicono che tra luglio e agosto, nel settore del commercio, per ogni nuova impresa che ha aperto i battenti ben due li hanno chiusi. E quel che è peggio è che questi dati (2.603 aperture a fronte di 5.463 chiusure) replicano quelli del 2013, che fino a ieri risultava in assoluto l’anno peggiore di sempre. Oggi – denuncia Confesercenti – un’impresa su 4 dura addirittura meno di tre anni: a giugno 2014 oltre il 40% delle attivita aperte nel 2010 – circa 27mila imprese – è già sparito bruciando investimenti per circa 2,7 miliardi.

È crisi nerissima insomma: confermata anche dallo stallo dei consumi, che in sei mesi ha già fatto perdere al terziario altri 2,2 miliardi di euro di fatturato, e da una pessima stagione dei saldi, che quest’anno si sono rivelati un vero flop, con una riduzione delle vendite (stime Codacons) del 5-8% e una spesa media per famiglia che non supera i 65 euro.

In base ai dati dell’Osservatorio Confesercenti relativi ai primi sei mesi solo il commercio ambulante fa segnare un leggero miglioramento, si arresta la corsa delle vendite on line (82 nuove imprese avviate nei primi sei mesi dell’anno contro le 530 del 2013), mentre tutto il resto va male. A cominciare dai ristoranti (saldo negativo per 2.500 unita) che traina all’ingiù tutto il comparto del turismo, che già prima di questa pessima estate presentava un saldo negativo di 6mila imprese tra

hotel, bar, ecc. doppio rispetto al 2013. Poi vanno molto male il commercio in sede fissa (-14mila), i negozi di sigarette elettroniche (4 chiusure ogni nuova apertura), l’abbigliamento (-3300) e le rivendite di giornali (4 chiusure/2 aperture). Tra le regioni più colpite ci sono la Sicilia (15 chiusure al giorno e solo 5 aperture) ed il Lazio (6 aperture ogni 15 chiusure). Tra le grandi citta malissimo Roma, che ha fatto segnare un saldo complessivo negativo di 1.111 imprese nel solo settore del commercio in sede fissa, seguita da Napoli (-812) e Torino (-543).

«L’avvio del 2014 è stato peggiore di quanto ci aspettassimo – commenta il segretario generale di Confesercenti, Mauro Bussoni -. Siamo entrati nel terzo anno di crisi e molte imprese semplicemente non ce la fanno più, schiacciate dalla diminuzione dei consumi e l’aumento della pressione fiscale». Spaventa, inoltre, «la doppia batosta Tari/Tasi», senza contare poi i «danni» delle liberalizzazioni introdotte da Monti: dovevano rilanciare consumi e occupazione e si sono rivelate «un vero flop: i previsti effetti benefici sono tuttora “non pervenuti”, ed il settore ha perso oltre 100mila posti, registrando allo stesso tempo 28,5 miliardi di minori consumi da parte delle famiglie».

Bancomat obbligatorio, flop nei negozi: in regola meno del 50%

Bancomat obbligatorio, flop nei negozi: in regola meno del 50%

Michele Di Branco – Il Messaggero

Avrebbe dovuto essere l’asso nella manica gettato sul tavolo per contribuire a sconfiggere l’evasione fiscale. Ma a poco più di un mese di distanza dalla riforma voluta dal governo Renzi che rende obbligatori i pagamenti elettronici per importi sopra i 30 euro (se richiesto), l’operazione non è affatto decollata. Solo 6-700 mila esercenti, tra quelli chiamati a farlo, si sono dotati del Pos Mobile che consente di accettare le carte di credito e debito operanti sui circuiti internazionali MasterCard, Visa e Maestro. E questo significa che sui 5 milioni di operatori che dovrebbero essere coinvolti nell’operazione appena 2-2,2 milioni sono in regola. Dunque secondo le stime di Confesercenti e Cna siamo ben al di sotto del 50%. E se si scende nella platea dei negozianti al dettaglio la percentuale crolla ancora.

Palazzo Chigi è convinto che la riforma funzionerà. Ma intanto i numeri parlano di un flop. Che è frutto essenzialmente di due problemi: il fatto, non da poco, che non sono previste sanzioni per chi trasgredisce e il fardello dei costi per l’installazione e la gestione dei Pos che affligge in particolare gli esercenti di medio-piccola grandezza. Si può arrivare fino a mille e cinquecento euro di spesa nell’arco di un anno per un’azienda con un volume di transazioni bancomat o carta di credito da 50 mila euro. Vale a dire i 150 euro necessari per l’installazione l’attivazione, più i costi di gestione mensili che possono arrivare fino a 80 euro. E infine il carico finale da circa mille euro delle commissioni sulle transazioni. Di regola, con le banche si negozia un’aliquota dell’1,5-2% in favore di queste ultime sul volume degli incassi. Ma ci sono anche formule, alternative, che prevedono una commissione di 0,25-0,40 euro sulla singola transazione. Proprio i costi sono lo scoglio contro il quale rischia di infrangersi la diffusione della moneta elettronica. Un esempio su tutti: i tabaccai. Per un bollo di 300 euro il guadagno per l’esercente è di un euro, ma se il pagamento avviene con bancomat il costo che il tabaccaio deve sostenere è di 3 euro. L’Abi garantisce che proprio grazie alla diffusione del sistema «i prezzi praticati dagli istituti si ridurranno».
Confesercenti spiega che un’applicazione inflessibile della legge costerebbe 5 miliardi l’anno per le imprese tra oneri di esercizio e commissioni e parla di innovazione «che rischia anche di essere inutile visto che il 70% degli italiani non ha intenzione di cambiare le proprie abitudini di pagamento». Ragionamenti di tenore simile dalle parti della Cna. «È innegabile l’importanza della tracciabilità – afferma Mario Pagani, responsabile del dipartimento delle politiche industriali – ma non si può ignorare l’impatto in termini di costi sulle attività che hanno prodotti di basso valore. Servirebbero incentivi o sgravi fiscali per favorire il passaggio anche culturale alla moneta elettronica e sarebbe anche opportuno alzare la soglia minima almeno a 50 euro per ammortizzare i costi». E dire che la riforma non è piombata affatto in maniera imprevista visto che le novità è prevista da una legge del 2012.