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Di fronte al fanatismo, l’Occidente riscopra le sue radici – Editoriale di Carlo Lottieri

Di fronte al fanatismo, l’Occidente riscopra le sue radici – Editoriale di Carlo Lottieri

Carlo Lottieri

Succede ormai con periodicità. Era già accaduto al tempo dello scandalo sollevato dal romanzo di Salman Rushdie (Versetti satanici, 1989) e poi per il film Submission di Theo van Gogh (2004) e di seguito in altre circostanze. Di tanto in tanto il mondo musulmano sembra esplodere d’ira dinanzi a forme espressive – letterarie, satiriche, cinematografiche – dell’Occidente e reagisce, come nel caso delle vignette di Charlie Hébdo di qualche mese fa, scatenando una violenza inaudita.
Quando in Occidente si manifestano tesi critiche verso l’Islam e si avversano taluni aspetti di quella cultura, gli stessi rapporti tra mondo musulmano e società occidentale vanno in crisi. In tale contesto, la nostra società sembra incapace di trovare un equilibrio, talora mostrandosi perfino disponibile a non difendere la propria identità e le garanzie che, da noi, tutelano la libertà dei singoli.
Come allora si dovrebbe reagire a questo attacco tanto duro? Sicuramente non esistono risposte semplici. Qualunque analisi seria e responsabile, però, chiede che si distingua in maniera assai netta ciò che è legittimo sotto il profilo del diritto (l’ordine giuridico) e ciò che invece è opportuno in una prospettiva etica (l’ordine morale). Dal punto di vista del diritto, gli occidentali devono continuare a proteggere la libertà d’espressione di tutti: una libertà che non si estrinseca solo e in primo luogo nella facoltà d’affermare ciò che piace a tutti e che è largamente condiviso. Entro una società aperta e liberale hanno piena cittadinanza anche quelle tesi che taluni, e magari anche molti, giudicheranno assurde e insostenibili. Ogni religione deve vedere riconosciuto la piena facoltà di esprimersi e definire la frontiera che distingue il giusto e l’ingiusto, la santità e il peccato; e la stessa libertà va attribuita ai romanzieri, ai giornalisti, ai registi e così via. L’Europa farebbe un terribile errore se, per non suscitare tensioni con certe frange dell’Islam, abbandonasse la propria tradizione e amputasse la libertà di espressione. Quello che disegnavano e scrivevano gli autori di Charlie Hébdo barbaramente uccisi era legittimo al di là dei contenuti stessi.
Bisogna però distinguere tra una vera tolleranza e un’ideologia di Stato che pretende d’imporre a tutti una sorta di “religione laica” che di liberale ha ben poco e che sotto certi punti di vista finisce proprio per alimentare una reazione fanatica anti-europea. Specialmente in Paesi come la Francia, ma in parte anche da noi, ha preso piede un repubblicanesimo che avversa le culture religiose in quanto tali e che vorrebbe imporre un modello unico di società e di esistenza. Trionfa insomma un “politicamente corretto” che non sembra lasciare spazio al pluralismo anche se si presenta in abiti democratici. Tutto questo ha poco a che fare con la tradizione liberale, e se va difesa la libertà dei giornali satirici, allo stesso modo va salvaguardata la libertà delle famiglie cristiane, musulmane o di altro credo. Proibire a uno studente, come si fa in Francia, di portare a scuola una piccola croce appesa al collo o un qualsiasi altro simbolo religioso non è una scelta di libertà, ma semmai di segno opposto.
Una società libera è tale se ognuno rispetta chi è diverso da sé. Più di tutti devono però essere disposti a esercitare questo rispetto quanti dispongono del potere, che non hanno alcun titolo per considerare i loro valori come necessariamente giusti e universali, e quindi da imporsi agli altri. Il subdolo dispotismo del laicismo statale “alla francese” è, in qualche modo, il più prezioso alleato degli integralisti e dei fanatici islamisti.
Dobbiamo ammettere che da questo punto di vista l’Europa è assai deficitaria e che gli orientamenti prevalenti sembrano proprio rafforzare l’imposizione di una metafisica pubblica, di fatto in lotta con le religioni. La sacralità dei nostri Stati (che si autorappresentano come perpetui, indivisibili e sovrani) deve essere contestata, se si vuole costruire una società davvero plurale. Ed è importante comprendere come il laicismo imposto dal moderno welfare State sia cosa assai diversa dalla libertà individuale, la quale deve permettere a chiunque di fare le proprie scelte in ambito educativo, sanitario, previdenziale e via dicendo. Chiamando in causa taluni dibattiti della filosofia politica degli ultimi anni, bisogna allora prendere sul serio il pluralismo di un autore come Chandran Kukathas (autore de L’arcipelago liberale), che connette libero mercato e comunità volontarie.
C’è invece troppo “kemalismo” e troppa statualità nelle società europee, in cui gli apparati pubblici poggiano su una religione civile à la Rousseau che riduce gli spazi di libertà ed entra in tensione con le fedi. Ma è difficile costruire una convivenza serena se lo Stato non lascia che ogni cultura (cristiana, musulmana, ebraica, laica ecc.) non è libera di operare nei vari ambiti: fermo l’obbligo per tutti di non ledere i diritti altrui, dalla libera iniziativa imprenditoriale alla piena espressione delle proprie idee.
Nessuno è tenuto ad apprezzare fino in fondo un periodico tanto irriverente come Charlie Hébdo ed era facile prevedere che quelle vignette avrebbero buttato benzina sul fuoco. Ma il linguaggio del periodico francese non può essere considerato un crimine entro una società libera. Comprimere ancor più le nostre libertà, per giunta, non produrrebbe grandi risultati e in questo senso le piazze arabe in rivolta devono farci riflettere. Non per indurci a rattrappire ulteriormente i nostri spazi di libertà, ma semmai per dare basi più solide a quel pluralismo culturale e a quella tolleranza religiosa che – in tante occasioni – le logiche di Stato e il moralismo del “politicamente corretto” imposto per legge finiscono di fatto per minare nelle loro fondamenta.
L’impresa di resistere in un paese stanco

L’impresa di resistere in un paese stanco

Claudio Magris – Corriere della Sera

Nel Tramonto dell’Occidente – libro che negli anni Venti ebbe un enorme successo per il suo pathos epocale e il suo miscuglio di intuizioni geniali ed enfasi apocalittica zeppa di strafalcioni logici – Spengler annunciava che la civiltà occidentale – per lui sostanzialmente germanica – esaurito il suo slancio faustiano di espansione e di conquista sarebbe presto morta. Il suo ultimo stadio sarebbe stata una sua pallida ed esangue copia collocata vagamente in Oriente, fra la Vistola e l’Amur, presto destinata a spegnersi. Non è il caso di lasciarsi affascinare dai bagliori della decadenza – già la musica e il suono della parola «Occidente» hanno una seduzione di declino – né dai profeti quasi sempre soddisfatti di proclamare sventure e impermaliti, come Giona, quando tali sventure non si avverano. Se la nostra civiltà occidentale ha certo le sue gravi difficoltà, nelle altre parti del mondo e nelle altre culture non si sta molto bene.

È innegabile tuttavia che la descrizione di quella civiltà spenta e opaca, priva di passioni, che Spengler situa in un’Europa orientale semiasiatica, assomiglia all’atmosfera che, da non molto tempo ma sempre più diffusamente, si è creata nel nostro Paese. La crisi economica sembra provocare non tanto una lotta per la sopravvivenza, quanto una fiacca rassegnazione. Certamente vi sono molti individui che lottano, con le unghie e con i denti, per la loro esistenza e per la dignità della loro esistenza. Sono essi i protagonisti, i combattenti di questa difficile battaglia. Quello che resiste è il più autentico capitalismo legato ancora all’iniziativa individuale, al rapporto diretto tra il lavoro e il profitto, alla piccola attività ed impresa, mentre il grande capitalismo dei tronfi ed inetti signori del mondo, sempre più anonimi e scissi dalla dura realtà del lavoro, è spesso largamente, talvolta criminosamente colpevole della crisi.

Ma la nostra società sembra aver perso, in generale, mordente, slancio, capacità di progetto e di protesta, passione. Ciò che manca, da qualche tempo, è soprattutto la passione politica, che ha contrassegnato – con le sue lotte, i suoi furori, le sue faziosità, i suoi ideali – la vita del Paese dal Dopoguerra (l’antifascismo e i diversi antifascismi, lo scontro tra comunismo e democrazia liberale, la tumultuosa crescita economica che portava con sé tensioni, entusiasmi e progressi sociali) agli anni dei governi Berlusconi, che scatenavano ancora amori e odi. L’ultima fiammata di irruente accensione degli animi è stato il Movimento 5 Stelle, che tuttavia non solo sembra affievolirsi, ma che non pare essere stato, a differenza di altre formazioni pur tendenti all’estremismo, una componente organica del Paese.

L’Italia sembra vivere stanca, depressa ma senza drammi, indifferente alla politica ovvero al proprio destino, giacché la politica è la vita della Polis, della comunità. Un Paese senza. Fra i negozi vuoti spiccano le trattorie e i ristoranti, decisamente più frequentati; la gola è l’ultimo appetito a morire, resiste alla depressione e alla mancanza di senso più del sesso. Speriamo di non essere alle soglie di un abisso, come negli anni Venti; in ogni caso, manca quella frenesia trasgressiva e disperata di vita che c’era in quegli anni sciagurati ma vivi e che risuona nelle canzoni di Brecht o nelle musiche di Cabaret. La nostra esistenza assomiglia piuttosto a quella di un personaggio di Gozzano, Totò Merùmeni: «E vive. Un giorno è nato, un giorno morirà».