occupazione

Nel 2015 il 60% dei contratti fissi con gli incentivi pubblici

Nel 2015 il 60% dei contratti fissi con gli incentivi pubblici

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

Su dieci contratti a tempo indeterminato stipulati nel 2015, in 6 casi il datore di lavoro ha beneficiato degli sgravi contributivi previsti dallo Stato. In termini assoluti su 2 milioni e 363 mila assunzioni a tempo indeterminato o trasformazioni di contratto a termine, 1 milione e 442 mila hanno potuto usufruire degli incentivi straordinari previsti dal governo. È il risultato di un’analisi fatta dal Centro studi «ImpresaLavoro» elaborando dati Inps. Per capire quanto siano stati importanti i contributi pubblici sul numero totale delle nuove attivazioni a tempo indeterminato, è utile analizzare il loro andamento mensile: a dicembre, ultimo mese disponibile per accedere al beneficio, sono stati attivati 181.900 contratti a tempo indeterminato contro gli 81.558 medi mensili del resto dell’anno, fa notare l’associazione che facendo trapelare un po’ di preoccupazione si chiede: «Cosa succederà quest’anno?».

Complessivamente nell’ultimo anno sono stati attivati 5 milioni e 408 mila nuovi rapporti di lavoro, (+11,1% rispetto al 2014). Di questi contratti, sottolinea ImpresaLavoro, il 62% è rappresentato da assunzioni a termine (3 milioni e 353 mila), il 3,4% da contratti di apprendistato (184 mila) e il restante 34,6% (1 milione e 87 mila) da assunzioni a tempo indeterminato. I contributi statali hanno riguardato tra queste nuove attivazioni il 57,7% dei casi. Grazie anche a questi incentivi i nuovi contratti a tempo indeterminato sono cresciuti su base annua del 46,9%. È calato invece drasticamente il ricorso all’apprendistato (-20,3%) e rimangono stabili i contratti a termine (-0,4%). Un altro aspetto importante del mercato del lavoro tocca le trasformazioni: lo scorso anno se ne sono registrate 578 mila a tempo indeterminato (+44,8% rispetto al 2014). L’85% di queste trasformazioni sono riferite a contratti a termine con una crescita del 49,4%. Il restante 15% è costituito da contratti di apprendistato trasformati in rapporti a tempo indeterminato: in questo segmento la crescita su base annua è stata del 23,2%. Gli sgravi contributivi previsti dal governo hanno così influito su queste trasformazioni al punto che il 73,8% di questi contratti ne ha potuto beneficiare.

«L’analisi dell’andamento degli occupati in Italia – commenta Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – segnala come non vi sia stato un incremento sensibile dei nuovi posti di lavoro e come la decontribuzione abbia favorito l’attivazione di nuovi contratti a tempo indeterminato perché molto vantaggiosi e la trasformazione di rapporti di lavoro a termine o atipici. Un obiettivo perseguito dal governo con l’impiego di risorse consistenti».

Leggi l’articolo sul sito del Corriere della Sera

Lavoro: il 61% dei nuovi contratti a tempo indeterminato  sono assistiti dalla decontribuzione

Lavoro: il 61% dei nuovi contratti a tempo indeterminato sono assistiti dalla decontribuzione

Il 61% del totale dei contratti di lavoro a tempo indeterminato attivati nel 2015 è assistito dall’esonero contributivo: su 2milioni363mila assunzioni a tempo indeterminato o trasformazioni di contratto a termine, 1milione442mila hanno potuto beneficiare degli incentivi straordinari previsti dal governo. Lo rileva un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” effettuata su dati Inps.

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Nuove attivazioni e trasformazioni. Complessivamente nell’ultimo anno sono stati attivati 5milioni408mila nuovi rapporti di lavoro, un dato dell’11,1% superiore rispetto a quello dell’anno precedente. Di questi contratti il 62% è rappresentato da assunzioni a termine (3milioni353mila), il 3,4% da contratti di apprendistato (184mila) e il restante 34,6% (1milione870mila) da assunzioni a tempo indeterminato. Di queste nuove attivazioni non a termine il 57,7% è assistito dalla decontribuzione pubblica. In forza anche di questi incentivi i nuovi contratti a tempo indeterminato sono cresciuti su base annua del 46,9%, mentre è calato drasticamente il ricorso all’apprendistato (-20,3%) e rimangono stabili i contratti a termine (-0,4%).

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Per capire l’impatto del beneficio contributivo sul numero delle nuove attivazioni a tempo indeterminato è utile analizzare il loro andamento mensile. A dicembre, ultimo mese disponibile per accedere al beneficio, sono stati attivati 181mila900 contratti a tempo indeterminato contro gli 81mila558 medi mensili del resto dell’anno.

Sul fronte delle variazioni contrattuali di rapporti di lavoro esistenti (le cosiddette trasformazioni) si registrano per il 2015 578mila trasformazioni in contratti a tempo indeterminato (+44,8% rispetto al 2014). L’85% di queste trasformazioni sono riferite a contratti a termine con una crescita su base annua del 49,4%. Il restante 15% è costituito da contratti di apprendistato trasformati in rapporti a tempo indeterminato; in questo specifico segmento la crescita su base annua è stata del 23,2%.

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Il 73.8% di queste trasformazioni ha potuto beneficiare degli sgravi contributivi previsti dal governo che hanno ovviamente influito moltissimo sul ricorso a questa forma di stabilizzazione. Basti pensare che a dicembre (ultimo mese utile per accedere all’incentivo) sono stati trasformati il 25% del totale dei contratti stabilizzati. L’ultimo mese dell’anno ha fatto registrare, infatti, 90mila575 trasformazioni: un dato triplo rispetto ai mesi di settembre, ottobre, novembre e addirittura di sei volte superiore rispetto a gennaio e febbraio.

 

Blasoni: “Ma senza vera ripresa non riparte l’occupazione”

Blasoni: “Ma senza vera ripresa non riparte l’occupazione”

di Massimo Blasoni*

Alla luce dello studio di ImpresaLavoro appena pubblicato, l’analisi dell’andamento degli occupati in Italia segnala come non vi sia stato un incremento sensibile dei nuovi posti di lavoro e come la decontribuzione abbia favorito l’attivazione di nuovi contratti a tempo indeterminato perché molto vantaggiosi e la trasformazione di rapporti di lavoro a termine o atipici. Un obbiettivo perseguito dal governo con l’impiego di risorse consistenti.

I numeri dell’occupazione, però,  confermano come sia complesso slegare l’andamento del mercato del lavoro da quello dell’economia più in generale: con una crescita economica così debole, anche in presenza di incentivi molto vantaggiosi, si avranno riflessi occupazionali limitati.

*Presidente del centro studi ImpresaLavoro

Sacconi: “Ora interventi strutturali su regole e oneri indiretti”

Sacconi: “Ora interventi strutturali su regole e oneri indiretti”

di Maurizio Sacconi*

Il centro studi ImpresaLavoro ha prodotto questa interessante elaborazione sui nessi tra l’azzeramento dei contributi previdenziali e i rapporti di lavoro a tempo indeterminato che si sono generati nel 2015. Come è noto questo incentivo è stato ridotto nell’anno in corso fino a dissolversi nel prossimo. Mentre è aperta la riflessione sul grado di efficacia di così tanta convenienza a convertire i rapporti di lavoro a termine o ad accendere nuovi lavori permanenti, ritorna il ricordo di una espressione ricorrente di Marco Biagi: “Non esistono incentivi finanziari sufficienti a compensare i disincentivi regolatori”.

È ben vero che il jobs act ha coniugato con l’azzeramento dei contributi una disciplina più flessibile dei licenziamenti ed una rigida separazione tra autonomia e subordinazione nei rapporti di lavoro disincentivando in particolare il ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative e quasi cancellando, con poche eccezioni, quelle a progetto. Ma la riforma non è stata completa perché ha mantenuto in vita, seppure per fattispecie più circoscritte, la sanzione della reintegrazione con la conseguente incertezza sugli esiti del contenzioso che si produce nel caso di licenziamento ove ne venga contestata la illegittimità.

Solo una clausola di opting out in favore della soluzione risarcitoria avrebbe offerto al datore di lavoro la certezza di poter risolvere il rapporto di lavoro nel caso di rottura del fondamentale nesso fiduciariario che lo sostiene. Permane quindi una unicità tutta e solo italiana in Europa a questo proposito con la conseguenza che non si è fino in fondo prodotto quell’essenziale incentivo regolatorio che avrebbe potuto incoraggiare la propensione ad assumere con contratti permanenti. È quindi legittimo supporre che il vantaggio relativo agli oneri previdenziali abbia utilmente ridotto i costi per le imprese che occupano – anche se con una significativa spesa pubblica di parte corrente – ma non abbia determinato, se non in misura contenuta, la scelta del contratto permanente, cui il datore di lavoro avrebbe comunque fatto ricorso perché coerente con le esigenze dell’impresa.

Dobbiamo quindi ora riprendere un percorso di interventi strutturali sia dal lato delle regole che da quello degli oneri indiretti sul lavoro se vogliamo sostenere una crescita con occupazione. Le buone politiche del lavoro non sono infatti solo distributive ma esse stesse concorrono a generare sviluppo perché incoraggiano gli investimenti e la produttività. Non si tratta di riaprire il cantiere delle riforme già troppo a lungo sovrappostesi con incertezze per gli operatori, ma di dotare le parti collettive e individuali degli accordi di lavoro della capacità di adattare le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, tanto dipendenti quanto indipendenti, agli straordinari cambiamenti che in ciascuna impresa, asimmetricamente, sta producendo la quarta rivoluzione industriale.

Le nuove tecnologie digitali modificano ogni giorno l’organizzazione della produzione e del lavoro con velocità e imprevedibilità che non hanno precedenti. In particolare, si avvera la profezia di Biagi che proponeva uno Statuto dei Lavori, di tutti i lavori, perché individuava una crescente confusione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo (altro che rigido formalismo giuridico!) derivante dalla smaterializzazione della postazione fissa, dal superamento dell’orario rigido, dalla fine della totale predeterminazione del salario.

Ogni tentativo di fissare il cambiamento deducendone nuove regole rigide sarebbe immediatamente superato dalla realtà. Non più riforme delle tipologie contrattuali quindi ma una evoluzione dell’art.8 del DL 138/11 in modo da consentire ai contratti collettivi aziendali o territoriali e ai contratti individuali certificati di regolare in modo originale, al di la’ di ciò che dispongono leggi e contratti nazionali, gli inquadramenti e le mansioni, i modi di apprendimento permanente con relativa certificazione periodica delle abilità, l’orario e i luoghi di lavoro, le conseguenti modalità specifiche di tutela sostanziale della sicurezza, la definizione a risultato della retribuzione strutturalmente detassata.

In questo modo le parti possono dare pieno valore alle nuove tecnologie e ai vantaggi che inducono tanto sull’impresa quanto sui lavoratori. Altrimenti si generano solo gli effetti negativi della sostituzione dei lavori routinari che nel caso italiano, caratterizzato da una grande dimensione di produzioni manifatturiere seriali, possono essere rilevanti. E a questo riguardo appare necessario anche un Piano nazionale di alfabetizzazione digitale in modo da garantire a tutti i lavoratori il diritto di accedere a fondamentali conoscenze e competenze.

Contemporaneamente, sarà necessario ridurre il costo indiretto del lavoro in modo non più congiunturale ma certo e irreversibile, agendo su quelle contribuzioni che sono sovradimensionate rispetto alle prestazioni come quelle relative agli infortuni, alla malattia, agli ammortizzatori sociali. Si potrebbe perfino ipotizzare una riduzione dei contributi previdenziali obbligatori per cui si incrementerebbe la busta paga del lavoratore, che avrebbe la possibilità di destinare la maggiore entrata alla pensione complementare e di negoziare versamenti aggiuntivi da parte del datore di lavoro.

In questo modo, definito uno zoccolo obbligatorio per tutti i lavoratori, da un lato si determinerebbe un incentivo ad assumere senza oneri per lo Stato e, dall’altro, sarebbero le buone condizioni d’impresa a consentire un accantonamento previdenziale anche più elevato rispetto al regime vigente. Nel caso dei professionisti non ordinistici che effettuano versamenti alla cosiddetta gestione speciale dell’Inps, si tratta di consentire loro la costituzione di una Cassa previdenziale autonoma alimentata dalla stessa contribuzione obbligatoria ma ragionevolmente in grado di offrire prestazioni pensionistiche ben più consistenti e forme di welfare integrativo.

Sono questi i contenuti dei due disegni di legge all’esame del Senato e dei quali sono relatore. Auguriamoci che anche i grandi attori della rappresentanza di interessi, così immobili nel presente e nel recente passato, avvertano il dovere di concorrere a governare questo tornante della storia abbandonando opportunismi, pigrizie, ideologie datate. E, soprattutto, auguriamoci che nelle aziende e nei territori, là ove lavoratori e imprenditori si guardano negli occhi e gli echi romani sono lontani, si esprima la voglia di costruire pragmaticamente il futuro. Alle istituzioni il compito fondamentale di garantire loro un contesto favorevole.

*Presidente Commissione Lavoro del Senato

Massimo Blasoni a Radio1 News Economy Magazine

Massimo Blasoni a Radio1 News Economy Magazine

L’intervento del presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, nell’edizione del 27 febbraio di Radio1 News Economy Magazine. Argomento dell’intervista: il nostro studio “Gli extracomunitari nel nostro Paese trovano lavoro più facilmente degli italiani“.

Massimo Blasoni interviene a Radio News Economy (Radio1 Rai)

L'intervento del presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, nell'edizione del 27 febbraio di Radio1 News Economy Magazine: perché gli extracomunitari nel nostro Paese trovano lavoro più facilmente degli italiani?

Posted by ImpresaLavoro on Wednesday, March 2, 2016

Più occupati tra gli extra Ue

Più occupati tra gli extra Ue

Massimo Blasoni – Metro

I Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali si contano sulle punte delle dita di una mano. L’Italia è uno tra questi. Analizzando gli ultimi dati Eurostat disponibili, quelli del 2014, si scopre infatti che il tasso di occupazione dei cittadini italiani nel nostro Paese è del 55,4%, quasi dieci punti percentuali in meno della media Ue (65,2%). In Europa, solo Grecia e Croazia hanno un mercato del lavoro meno efficiente del nostro.

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In Italia se sei straniero trovi lavoro prima

In Italia se sei straniero trovi lavoro prima

Laura Della Pasqua – Il Tempo

I Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali si contano sulle punte delle dita di una mano. E l’Italia è uno tra questi. Secondo una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro analizzando gli ultimi dati Eurostat disponibili, quelli del 2014, il tasso di occupazione dei cittadini italiani nel nostro Paese è del 55,4%, quasi dieci punti percentuali in meno della media Ue (65,2%). Mentre siamo sopra la media europea per occupati tra lavoratori extra-Ue.

Secondo il Centro Studi infatti se si prende in considerazione la percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, la posizione in classifica del nostro Paese vola verso l’alto. Il nostro 56,7%, infatti, è sopra sia alla media Ue (53,2%) sia alla media dell’area euro (52,1%). E il 28° posto su 30, conquistato a stento dai lavoratori di cittadinanza italiana, diventa un 13° posto su 29 (per la Slovacchia non sono disponibili dati aggiornati) quando si tiene conto soltanto dei lavoratori extra-comunitari.

Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Solo altri quattro Paesi europei oltre all’Italia, infatti, hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta di Repubblica Ceca (-6,5%), Lituania (-7,3%), Ungheria (-8,2%) e Cipro (-14,5%).

In tutto il resto d’Europa, la differenza è a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame. Il fabbisogno di manodopera a basso costo e la necessità di reperire personale per mansioni di cura garantiscono una maggiore appetibilità della forza lavoro immigrata e, in caso di perdita del lavoro, una maggiore rapidità per rientrare nel mercato. Accettando lavori pagati meno e meno qualificati, insomma, gli immigrati lavorano più degli italiani.

Una delle caratteristiche del mercato del lavoro immigrato in Italia resta però la forte esclusione della componente femminile, che va a riempire quasi totalmente il bacino degli inattivi. Il tasso di disoccupazione delle donne egiziane (45,6%), pakistane (38,5%), tunisine (35,4%), marocchine (34,6%), albanesi (31,7%) è elevatissimo, ma ben più grave è il fenomeno dell’inattività.

Gli stranieri in età da lavoro nel 2014 in Italia sono 4 milioni, di cui 2.294.120 occupati, 465.695 in cerca di lavoro e 1.240.312 inattivi.

 

Gli extracomunitari nel nostro Paese trovano lavoro più facilmente degli italiani

Gli extracomunitari nel nostro Paese trovano lavoro più facilmente degli italiani

I Paesi europei in cui i cittadini stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali si contano sulle punte delle dita di una mano. E l’Italia è uno tra questi. Secondo una ricerca realizzata dal Centro Studi ImpresaLavoro analizzando gli ultimi dati Eurostat disponibili (quelli del 2014), il tasso di occupazione dei cittadini italiani nel nostro Paese è del 55,4%, quasi dieci punti percentuali in meno della media Ue (65,2%). In Europa, solo Grecia (49,3%) e Croazia (54,6%) hanno un mercato del lavoro meno efficiente del nostro. Mentre sono più avanti di noi Spagna (56,6%), Francia (64,6%), Regno Unito (72,2%) e Germania (75,1%).

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Se si prende in considerazione la percentuale di occupati tra i lavoratori extra-Ue residenti in Italia, però, la posizione in classifica del nostro Paese vola verso l’alto. Il nostro 56,7%, infatti, è sopra sia alla media Ue (53,2%) sia alla media dell’area euro (52,1%). E il 28° posto su 30, conquistato a stento dai lavoratori di cittadinanza italiana, diventa un 13° posto su 29 (per la Slovacchia non sono disponibili dati aggiornati) quando si tiene conto soltanto dei lavoratori extra-comunitari.

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Si tratta di un dato in netta controtendenza rispetto a quanto avviene abitualmente negli altri Paesi e soprattutto nelle altre economie avanzate del continente. Solo altri quattro Paesi europei oltre all’Italia, infatti, hanno tassi di occupazione più bassi tra i propri connazionali rispetto a quelli fatti registrare tra i lavoratori extracomunitari: si tratta di Repubblica Ceca (-6,5%), Lituania (-7,3%), Ungheria (-8,2%) e Cipro (-14,5%). In tutto il resto d’Europa, la differenza è a favore dei cittadini dei Paesi presi in esame. In Spagna il tasso di occupazione degli spagnoli è superiore a quello dei cittadini extra-Ue dell’8,5%; nel Regno Unito la differenza è del 12,3%; in Francia e Germania si arriva, rispettivamente, al 19,6% e al 20,4%. In Italia, invece, il tasso d’occupazione dei lavoratori di cittadinanza italiana è inferiore dell’1,3% rispetto a quello dei lavoratori extracomunitari. Una differenza che sale addirittura al 7,2% quando si prendono in esame i lavoratori stranieri provenienti da un altro Paese europeo.

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«La cosa che veramente stupisce è il basso tasso d’occupazione dei nostri lavoratori» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro. «Non è immaginabile una grande potenza industriale con numeri di questo livello. Ma in quadro economico così fragile e con una ripresa tanto debole, è anche sorprendente riscontrare che il tasso d’occupazione dei residenti extracomunitari sia addirittura superiore a quello dei nostri connazionali. Un’anomalia che, almeno in parte, dipende dalla disponibilità di questi lavoratori ad accettare occupazioni che ormai gli italiani si rifiutano di prendere in considerazione. Ma questo non spiega tutto. Il nostro mercato del lavoro sconta un disallineamento strutturale tra offerta formativa e fabbisogni occupazionali delle aziende. E i nostri giovani sono costretti a percorsi di studio che li portano ad entrare tardi e male nel mercato del lavoro, rimanendo inoccupati per lunghi periodi di tempo».

Dicembre 2015: aumentano gli occupati, ma a un ritmo più lento di quello del 2014

Dicembre 2015: aumentano gli occupati, ma a un ritmo più lento di quello del 2014

Numero degli occupati in aumento, ma a un ritmo meno sostenuto di quello di un anno fa. È questo il risultato più rilevante dell’analisi compiuta dal Centro Studi “ImpresaLavoro” su dati Istat, che ha preso in esame il numero degli occupati registrato dall’Istituto nazionale di statistica per il mese di dicembre dal 2006 al 2015, confrontato con lo stesso dato dell’anno precedente.

A dicembre 2015 è stata rilevata una variazione di +109mila occupati rispetto allo stesso periodo del 2014: un dato che non può non risentire del combinato disposto di Jobs Act e decontribuzione. Si tratta però di un aumento sensibilmente inferiore a quello che si registra confrontando il dato di dicembre 2014 con quello di dicembre 2013: l’anno scorso, infatti, anche in assenza delle costose misure sulla decontribuzione, gli occupati erano cresciuti di 168mila unità.

Si tratta, comunque, di variazioni positive meno marcate a quelle registrate negli anni pre-crisi. Nel 2006 e nel 2007, infatti, l’aumento degli occupati era stato rispettivamente di 249mila e 268mila unità. Poi, dopo l’andamento negativo dal 2008 al 2013 (con la sola, parziale, eccezione del 2010), l’occupazione è tornata a crescere nel 2014. Ma lo scorso anno, appunto, il ritmo di questa crescita è tornato a calare sensibilmente.

Moles: “Meno tasse per rilanciare l’edilizia italiana”

Moles: “Meno tasse per rilanciare l’edilizia italiana”

di Giuseppe Moles*

Storicamente l’edilizia ha sempre fatto da motore all’intera economia permettendo lo sviluppo, diretto e indiretto, di tanti altri settori; si tratta di un settore cruciale per l’intera economia nazionale perché ad alta intensità di lavoro, con un indotto enorme e a basso contenuto di importazione.

Dal rapporto di ImpresaLavoro emerge invece un quadro a tinte fosche, costellato da segni negativi per quanto riguarda le imprese e l’occupazione: una crisi che sembra non finire mai, con il settore dell’edilizia che continua a registrare un calo preoccupante di lavoro, investimenti e occupazione. Tutto ciò non deve meravigliare: in Italia negli ultimi anni si è privilegiata l’imposizione elevatissima sugli immobili, cioè un esproprio surrettizio essenzialmente motivato dalla crescente necessità, per lo Stato, di disporre di sempre più denaro.

Ridurre le tasse sugli immobili, invece, significa lasciare più soldi a investitori, lavoratori e consumatori, con tutto quello che ne discende, e quindi favorire un rilancio dell’edilizia ed il suo infinito indotto. Solo riducendo drasticamente i balzelli che gravano sugli immobili l’edilizia potrebbe poco per volta riprendersi, creando occupazione e reddito e facendo così aumentare gli incassi del fisco, perché tassare gli immobili non solo non frutta ma, al contrario, riduce le entrate tributarie: le imposte sulla casa non solo soltanto inique, sono anche controproducenti perché riducono le entrate delle amministrazioni pubbliche.

Queste ovvietà sono del tutto ignorate dai nostri governanti, a testimonianza dell’analfabetismo economico della classe politica: ne deduco che nessuno dei nostri governanti degli ultimi anni si sia dato la briga di seguire un corso d’introduzione all’economia. Mi consola il fatto che, finché non la tasseranno, la speranza è un lusso che possiamo permetterci.

* membro dell’ufficio di presidenza di Forza Italia, fondatore di “Rivolta l’Italia