occupazione

Costoso, efficace e severo: ecco il modello che piace all’Italia

Costoso, efficace e severo: ecco il modello che piace all’Italia

Tonia Mastrobuoni – La Stampa

Come un fiume carsico, di tanto in tanto nell’inconcludente dibattito sulle riforme del mercato del lavoro è emerso in questi anni il termine “flexicurity”, associato al cosiddetto modello danese. In realtà, è stato coniato da un sociologo olandese, Hans Adriaansens, e sperimentato in Danimarca e nei Paesi Bassi negli anni Novanta, quelli dell’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio Wto, dell’euforia per la globalizzazione e della spinta delle imprese a liberalizzare l’occupazione. Addirittura, l’Unione europea lo adottò come modello di riferimento per eventuali intenti di riforma negli accordi di Lisbona del 2000, ma fu allegramente ignorato da molti Paesi, Italia in testa. L’idea della “flexicurity”, crasi dei termini inglesi “flessibilità” e “sicurezza”, era che per venire incontro alle esigenze delle imprese di licenziamenti più facili, bisognasse trovare il modo di conciliarli con un adeguato paracadute per i lavoratori.

E qui si pone il primo, serio problema di un confronto italiano con l’esempio scandinavo: è un sistema costosissimo. In Danimarca il sussidio di disoccupazione è universale: bisogna sottoscrivere un fondo, la A-Kasse, gestito dai sindacati e finanziato in parte dai lavoratori stessi (il contributo ammonta a circa 500 euro) ma garantito nella gran parte dallo Stato. Il risultato è che copre 1’80% dei lavoratori; e in ogni caso, anche chi non ha sottoscritto l’assicurazione, ha diritto ad un’indennità sociale comunale. Anni fa gli economisti de Lavoce.info fecero una stima sul costo di un’indennità di disoccupazione universale in Italia: circa 12-13 miliardi all’anno. E chissà ora, con i tassi di disoccupazione alle stelle, soprattutto tra i giovani. La flessibilità significava invece garantire al datore di lavoro la possibilità di licenziare senza particolari ostacoli, con il solo obbligo di un minimo di preavviso che varia da uno a sei mesi, a seconda dell’anzianità di impiego. Il lavoratore può addirittura lasciare il suo lavoro con soli otto giorni di preavviso. E in virtù della conciliazione riuscita tra una maggiore flessibilità in uscita e un paracadute generoso, in Danimarca il 30% degli occupati cambia posto di lavoro e in media non restano per più di otto anni nella stessa azienda.

L’altro aspetto problematico, nel confronto con i Paesi Bassi o con gli altri Paesi che hanno adottato la “flexicurity”, è il reimpiego. Presuppone un sistema di politiche attive efficientissimo, cioè il contrario dell’esempio italiano. La Danimarca spende circa un punto e mezzo di Pil per fare in modo che i disoccupati trovino un nuovo lavoro nel minor tempo possibile. Il collocamento è affidato ai job center comunali, ma a favorire l’incontro tra domanda e offerta concorrono anche accordi tra questi modernissimi centri di reimpiego e sindacati, imprese, istituti di ricerca, scuole o onlus. Gli uffici di collocamento aiutano anzitutto i disoccupati a formulare un curriculum decente, entro tre settimane dal licenziamento, e cercano di capirne le potenzialità, ma sono previsti anche programmi di reimpiego o aggiornamenti. I job center, tuttavia, attuano anche un monitoraggio strettissimo degli sforzi dei senza lavoro e prevedono addirittura corsi che insegnano a cercare un’occupazione. E se nei nordici uffici di collocamento si rendono conto che il disoccupato compie sforzi troppo deboli per trovare un nuovo impiego, le conseguenze sono pesanti: la perdita dell’assegno di disoccupazione.

Occupazione, tante fratture da risanare

Occupazione, tante fratture da risanare

Walter Passerini – La Stampa

Beato il paese che non ha bisogno di eroi, di totem o di scalpi, si può dire parafrasando Bertolt Brecht, perché altrimenti saremmo sempre in guerra, che ammette solo vincitori e vinti. Lo scontro al capezzale dell’articolo 18 sta incendiando la politica e le relazioni sindacali, in un momento in cui la priorità è il lavoro. E così il falò delle vanità lascerà solo cenere e macerie e non creerà neanche un posto di lavoro. Con la stessa passione ed energia dovremmo invece discutere di futuro e di come creare occupazione e sviluppo con un orizzonte da qui al 2020. Ai 3,2 milioni di disoccupati ufficiali, ai 3,3 milioni di inattivi rassegnati (non cercano più il lavoro perché pensano di non trovarlo), ai tanti giovani, alle donne, agli over 50 licenziati, ai cassintegrati, dovremmo dire che cosa si sta facendo per farli entrare o rientrare nel mondo del lavoro.

C’è una frattura che va ricomposta. Dalla riforma Treu, passando dalla Biagi, alla Fornero, in questi vent’anni non abbiamo visto il baratro che si stava aprendo tra lavoratori adulti e giovani, tra piccole e grandi aziende, tra industria e servizi, tra occupazione strutturale e al margine. E così abbiamo perso la battaglia della produttività. Avremmo dovuto completare il disegno con uno Statuto dei Lavori universale, uguale per tutti, per tutelare l’esercito dei precari. Ora la deflazione ci ha regalato il record di peggior Paese dell’Ocse e ha messo a nudo le nostre debolezze e le nostre vergogne. Speriamo di non dover assistere nei prossimi giorni a una tragedia, a una piece da tre soldi, a una commedia all’italiana, ma a una dimostrazione di orgoglio e di condivisione delle priorità. Per molti l’introduzione di un contratto, non unico, ma prevalente, a tutele crescenti è una mediazione intelligente, soprattutto se estesa a tutte le nuove assunzioni, e non solo ai contratti di primo inserimento. Non è un contratto in più, perché in contemporanea andrebbero rivisitate e ridotte le troppe formule di assunzione, che lasciano spazio a furbizie ed abusi. Avere trentasei mesi di conoscenza reciproca tra datore di lavoro e lavoratore permette di fare investimenti sulle risorse umane e di consolidare un fidanzamento in un matrimonio. E se a quel punto scattasse una crisi di rigetto, ci sarebbero le condizioni per un onorevole divorzio.

La modifica dell’applicazione dell’articolo 18 ha già avuto una mediazione nel 2012, quando, fatti salvi i licenziamenti discriminatori e le ritorsioni, ha tolto l’automatismo e ha rimesso nelle mani del giudice la decisione tra reintegro e risarcimento per un licenziamento individuale avvenuto senza giusta causa. Del resto, anche con la complicità della crisi, sono state pochissime le cause di questo tipo negli ultimi due anni, segno che le imprese hanno ben altri problemi a cui pensare. Ora, di fronte al testo giunto in Commissione al Senato, intestarsi una vittoria o gridare alla sconfitta riporta al clima di sangue e di vendetta di cui non si sentiva la mancanza, tanto più che lascia spazio alla gestione e all’interpretazione. Non vorremmo però che la sinteticità della norma producesse solo lavoro per gli avvocati. Salvo la minaccia di un decreto annunciata da Renzi, l’iter normativo durerebbe comunque un anno.

Nel frattempo dovremmo riportare la barra verso le priorità. Come creare lavoro e dare ossigeno a una nuova crescita, che tutele offrire a chi rischia di giocare solo in serie B, quali politiche attive produrre (la Garanzia giovani insegna), quali servizi al lavoro pubblici e privati avviare e irrobustire, che sostegno dare alle imprese che vogliono assumere. Alcuni imprenditori temono un «matrimonio indissolubile». Chi perde il lavoro teme di finire nel girone infernale dei disoccupati di lunga durata (più di 12 mesi), che oggi sono 2 milioni. Se un senza lavoro non trova chi lo aiuta e lo orienta, non c’è ammortizzare sociale che tenga, altro che modello danese. È questo il patto del lavoro che bisogna stilare: perdere il posto può capitare, non è il capriccio di un aguzzino né una vendetta sociale, ma può essere una tappa per ripartire e rientrare, grazie a servizi professionali e tutele universali esigibili indipendentemente dal contratto di cui si è titolari.

Semplificare le regole per muovere il mercato

Semplificare le regole per muovere il mercato

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

I primi dati (ancora parziali) raccolti da Isfol e ministero del Lavoro sugli effetti delle nuove regole sui licenziamenti introdotte dalla riforma del 2012 dimostrano che l’allentamento delle tutele ha mosso un po’ il mercato. Le imprese fortemente motivate a ridurre il personale lo hanno fatto contando sulla possibilità maggiore di evitare la reintegra. Certo, la recessione ha pesato moltissimo. Ma è un fatto che nei mesi successivi al varo della riforma Fornero (ottobre-dicembre 2012) i licenziamenti collettivi e individuali sono aumentati in termini tendenziali del 48,3% e del 18,2 per cento. Un flusso rimasto in crescita per i licenziamenti collettivi fino al termine del 2013 e in lieve calo per quelli individuali fino al primo trimestre di quest’anno. Nello stesso intervallo temporale sono esplose le richieste di conciliazione sui licenziamenti per giustificato motivo oggettivo: dalle 1.885 comunicazioni del primo semestre del 2012 s’è passati a oltre 11mila nel primo semestre del 2013, per poi stabilizzarsi attorno a quota 9mila nei due semestri successivi. Conciliazioni che si sono concluse con un esito positivo in meno della metà dei casi: 3.621 nel 2° semestre del 2012 e 4.310 nel 1° semestre di quest’anno, a fronte di 8.537 comunicazioni.
Che conclusioni si possono trarre da queste parziali indicazioni? La prima è che semplificare serve: procedure più semplici produrrebbero maggiori esiti positivi nelle conciliazioni. La seconda è che l’impatto delle nuove regole sui licenziamenti individuali resta parziale finché non garantisce una piena certezza del diritto. Gli avvocati del lavoro che hanno visto sul campo come sono andate le cose negli ultimi due anni dicono che si è passati dalla quasi certezza della reintegra in casi di licenziamento illegittimo alla possibilità (rischio) di reintegra dopo la riforma Fornero. Il passo ulteriore potrebbe essere la certezza del solo indennizzo in caso di impugnazione. Con le dovute politiche passive e attive per i lavoratori, che devono poter passare da un impiego vecchio a uno nuovo con la stessa semplicità con cui lo fanno oggi i loro colleghi tedeschi o danesi.

I NUMERI

8.537
Le conciliazioni
Le richieste di conciliazione su licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo nel primo semestre dell’anno. Nel primo semestre del 2012 (prima della legge 92) si fermarono a 1.885. Solo 4.310 di quelle richieste del 2014 hanno avuto un esito positivo.

36,3%
I licenziamenti individuali
Dopo la legge 92, nel IV trimestre del 2012 i licenziamenti individuali sono passati al 36,3% del totale delle cessazioni di rapporti di lavoro; erano al 33% nel I trimestre dello stesso anno.

Occupazione, il governo non aspetti

Occupazione, il governo non aspetti

Luca Ricolfi – La Stampa

Dopo tutto anche Renzi è un politico. Per questo non mi ha sorpreso che il suo discorso di ieri in Parlamento fosse alquanto retorico, e piuttosto avaro di impegni precisi. Due passaggi, tuttavia, mi sono sembrati informativi, sia pure in senso negativo. In entrambi, infatti, pur non dicendo che cosa farà, il premier ha detto chiaramente che cosa non farà. È già qualcosa.

Il primo passaggio è quello in cui Renzi respinge la critica di aver sbagliato i tempi, dando la precedenza alle riforme delle regole (legge elettorale e Costituzione) con conseguente ritardo delle riforme economico-sociali. A questa critica Renzi in sostanza risponde che le riforme vanno fatte tutte insieme (come se la politica non decidesse ogni giorno che cosa rinviare e che cosa no), e che l’importante è aver compiuto i primi passi, disegnando la cornice del suo «vasto programma», per dirla con De Gaulle. E’ la conferma, purtroppo, che tuttora il governo non pensa che la creazione di nuovi posti di lavoro sia un problema di gran lunga prioritario rispetto a tutti gli altri. Ce ne eravamo accorti a maggio (altrimenti i 10 miliardi del bonus Irpef non sarebbero finiti a chi un lavoro già ce l’ha, e il Jobs Act non sarebbe stato incanalato su un binario parlamentare lento), ma è comunque una notizia che il premier continui a pensarla come la pensava 7 mesi fa, quando aveva rinunciato a varare subito il Jobs Act. Speriamo che abbia ragione lui, e che l’Italia, nonostante sia tornata in recessione, possa ancora permettersi di aspettare tutto il tempo che i politici vorranno prendersi prima di rendere operative nuove regole del mercato del lavoro.

C’è però anche un secondo passaggio del discorso di Renzi che ci fa capire qualcosa, ed è quello in cui Renzi sbeffeggia chi propone come modello la Spagna: «Mi scappa da ridere quando sento dire che il nostro modello debba essere la Spagna, ho grande stima della Spagna, ma quando sento dire che il nostro modello dovrebbe essere un Paese che ha il doppio della disoccupazione dell’Italia mi preoccupo». Neanch’io penso che un Paese come l’Italia possa uscire dai suoi guai semplicemente imitandone un altro. E tuttavia fa una certa impressione il semplicismo con cui Renzi liquida il modello spagnolo, e gli contrappone il comportamento dell’Italia in questi anni, una difesa che a me ricorda molto quella di Tremonti e Berlusconi nel 2008-2011, quando dicevano che, a differenza di altri Paesi, l’Italia tutto sommato aveva tenuto, restava un Paese solido, eccetera eccetera.

E allora guardiamolo un po’ più da vicino questo orribile modello spagnolo. Fra il 2007 e il 2013 il Pil italiano ha perso l’8,5%, quello spagnolo il 5,9%. Nel 2014 il Pil italiano calerà ancora (dello 0,4% secondo l’Oecd), mentre quello spagnolo crescerà, come quello di quasi tutti i Paesi europei. Ma lì la disoccupazione è il doppio che da noi, obietta Renzi. Ed è qui, quando fa questo confronto, che capisco perché il nostro governo non riesce a capire il dramma dell’Italia.

Eppure Renzi dovrebbe sapere (o Padoan dovrebbe spiegargli), che il tasso di disoccupazione è un pessimo indicatore della situazione occupazionale di un Paese, e diventa del tutto fuorviante se si confrontano due Paesi con regole del mercato del lavoro profondamente diverse come l’Italia e la Spagna. Il confronto vero va fatto sul numero di occupati, non sui tassi di disoccupazione. Ebbene, nel 2013 il tasso di occupazione spagnolo, a dispetto di anni di austerity, era più alto di quello italiano, e questo nonostante in quello italiano siano inclusi tutti i lavoratori in cassa integrazione. Se poi si tiene conto del numero medio di ore lavorate e del numero di soggetti che hanno due lavori, il vantaggio occupazionale della Spagna sull’Italia si allarga ancora di più. La realtà è che, a dispetto dei rispettivi tassi di disoccupazione, c’è più lavoro in Spagna che in Italia, non solo, ma in Spagna l’occupazione sta riprendendo a salire, mentre in Italia continua a scendere, in barba alle belle parole della nostra Costituzione, secondo le quali «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro».

Questo vuol dire che dovremmo conformarci al modello spagnolo? Certo che no, ma almeno potremmo smetterla di raccontarci fiabe autoconsolatorie, basate su confronti statistici improbabili, e cominciare a chiederci se i Paesi che hanno usato questi anni per correggere alcuni dei loro squilibri non hanno nulla da insegnarci. Temo che, se avessimo l’umiltà di guardarci allo specchio, l’insegnamento principale sarebbe questo: la differenza fra noi e gli altri quattro Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) è che loro hanno attraversato una crisi profonda, cui hanno reagito e da cui stanno uscendo, mentre noi non abbiamo nemmeno provato a interrompere il nostro declino, un declino di cui l’inesorabile calo delle ore lavorate per abitante è la spia più drammatica e chiara.

È questo, forse, il nesso logico segreto fra i due punti che abbiamo voluto sottolineare del discorso di Renzi in Parlamento. La ragione per cui pensa che non esistano riforme prioritarie è la medesima per cui gli «scappa da ridere» quando qualcuno evoca il modello spagnolo. Quella ragione è, semplicemente, che anche lui, come molti suoi predecessori, pensa che la politica abbia molto tempo davanti a sé, e possa scegliere liberamente di che cosa occuparsi oggi, di che cosa domani, che cosa rinviare, che cosa far passare con un decreto, che cosa con una legge delega, che cosa ignorare. Non ha tutti i torti, perché una società in declino, specie se ancora ricca, ha margini di tolleranza per gli errori dei suoi governanti molto maggiori di una società in crisi. Per questo penso che lo sbaglio di non aver stabilito delle priorità, dando alla creazione di lavoro la precedenza assoluta che meritava, è un errore di cui la società italiana si accorgerà solo un po’ più in là. Diciamo fra 1000 giorni, forse.

Articolo 18, banco di prova di una nuova fase

Articolo 18, banco di prova di una nuova fase

Fabrizio Forquet – Il Sole 24 Ore

È stato un Matteo Renzi più misurato del solito. Non il guascone che alcuni annunciavano. Ma un presidente del Consiglio consapevole del momento, che ha rinunciato – forse ben consigliato – ai toni spavaldi verso l’Europa e ha illustrato con inedito ordine il suo piano di riforme per trasformare – come è necessario – l’Italia. Sarà stata la presa d’atto del drammatico stallo dell’economia, con una crescita che il Centro studi Confindustria ieri ha confermato ben sotto lo zero; sarà stato il pressing dell’Europa, che considera scaduto il tempo delle promesse: fatto sta che Renzi ha dimostrato nel suo discorso alle Camere di avere una nuova cognizione del cambio di fase necessario e dell’obbligo di affrontare con maggior sistematicità i nodi cruciali di un rilancio economico che continua drammaticamente a slittare.

Ci si poteva aspettare di più sui tempi delle singole riforme e sul merito dei nodi politici che vanno sciolti per trasformare il riformismo d’impeto in riformismo dei fatti. Troppe poche parole, poi, sono state dedicate alla legge di stabilità. Ma la vera novità della giornata si chiama articolo 18, ovvero superamento della reintegra obbligatoria del lavoratore. Renzi ieri ha rotto gli indugi sull’ultimo dei tabù della sinistra e del mondo del lavoro. Il premier sa che su questo, su una maggiore flessibilità in uscita per i contratti a tempo indeterminato, si gioca una partita decisiva per la credibilità in Europa del suo governo e, sul fronte interno, per archiviare definitivamente ogni conservatorismo nel suo Pd.

Una partita difficile. Tutta ancora da giocare. Ma con i tempi stretti che l’emergenza lavoro, oltre che le attese dell’Europa, impone. Perciò ieri Renzi ha scelto di portare il suo affondo proprio sul Jobs Act, evocando anche la possibilità di un decreto. Sulla questione cruciale dell’articolo 18, però, in Parlamento si è tenuto ancora al di qua delle colonne d’Ercole. Ha incalzato sulla necessità di superare il dualismo nel mondo del lavoro, ma non ha parlato, ancora, di superamento della reintegra obbligatoria. Il dado però era lanciato. Così in serata alla direzione del partito il superamento dell’articolo 18 è stato evocato direttamente. Renzi illustrerà il suo piano a una direzione appositamente convocata per fine mese. Ma ieri sera raccontava così il progetto: «Lo Statuto del lavoro va riscritto e il dualismo tra “garantiti e non” va superato anche con una maggiore flessibilità nei contratti a tempo indeterminato, cioè con il superamento della reintegra obbligatoria prevista dall’articolo 18». Ovviamente questo deve avvenire, nel piano di Renzi, con un contestuale rafforzamento delle tutele economiche per chi perde il posto di lavoro. E qui il premier inserisce l’altra parte del discorso: «Con la legge di stabilità metteremo le risorse necessarie a rafforzare gli ammortizzatori, in questo modo anche i più scettici potranno convincersi sull’abolizione della reintegra obbligatoria».

È evidente che a questo punto un passaggio decisivo sarà proprio quello delle coperture da trovare nella legge di stabilità. Una “finanziaria” che diventa sempre più complessa, per la quantità di risorse che dovrà mobilitare. Eppure Renzi ieri alle Camere ha sorprendentemente eluso il tema della manovra di bilancio e dei tagli da 20 miliardi che serviranno in gran parte (16 miliardi) a coprire misure esistenti. Tra queste il sempre più contestato bonus da 80 euro, che da solo vale 10 miliardi. Il premier ha ribadito che non tornerà indietro. Comprensibile. Per il governo, come ha ammesso lo stesso ministro Padoan, è «una priorità politica» prima che una scelta economica. Ma con questa zavorra si riuscirà a liberare le risorse necessarie a ridurre le imposte sulle imprese e sul lavoro, vera priorità riconosciuta anche dall’Eurogruppo a Milano la settimana scorsa? E ora anche a trovare i fondi per la riforma degli ammortizzatori sociali?

Nessuno può credere seriamente che si potranno risparmiare 20 miliardi senza incidere sui grandi capitoli del bilancio pubblico, che sono le pensioni (254 miliardi, il 35% della spesa al netto degli interessi), la sanità (110 miliardi, il 14%), il pubblico impiego (164 miliardi, il 22,9%). Ma di tutto questo nel discorso di Renzi non c’è traccia. È vero che il tema dell’intervento alle Camere era il cosiddetto “piano dei mille giorni”. Ma è possibile parlare di un piano dei mille giorni senza entrare nella carne viva delle risorse necessarie a sostenere quelle riforme? È credibile un progetto di rilancio dell’economia senza delineare l’infrastruttura finanziaria necessaria a sostenerlo? Tanto più che si avvicinano le scadenze che contano. Quella della legge di stabilità, appunto, prevista tra il 10 e il 15 ottobre, ma anche quella del Consiglio europeo di fine ottobre. Per quella data l’Italia, se vorrà davvero accedere a una maggiore flessibilità sui conti pubblici, dovrà aver dimostrato di aver fatto passi avanti molto concreti sulle riforme. E su una in particolare, proprio quella del lavoro.

Perciò è davvero venuto il momento per Renzi di rompere l’ultimo dei tabù. Un’ennesima riforma del mercato del lavoro annacquata dalle tante resistenze conservatrici non serve a nessuno. Non serve certamente per dare il segnale di credibilità necessario in Europa, ma soprattutto non serve a dare all’Italia un mercato del lavoro più efficiente e più giusto. La svolta del riformismo dei fatti deve passare anche da qui.

Tre strade per cambiare

Tre strade per cambiare

Tito Boeri – La Repubblica

Ieri alla Camera Renzi ha detto che il suo governo intende varare la riforma del lavoro prima della fine dell’anno se necessario ricorrendo ad un decreto. Bene in effetti decidere in fretta prima che ci tolgano quel poco di sovranità limitata che ci è restata. Fondamentale dare segnali forti, che possano essere percepiti dai giovani che stanno decidendo se e dove emigrare e da chi guarda al nostro Paese da molto lontano e ha soldi da investire.

Questa settimana dovrebbe concludersi l’esame in Commissione al Senato della legge delega sulla riforma del lavoro. Una legge delega dovrebbe fissare principi generali e affidare al governo il compito di tradurli in norme specifiche. Invece l’impressione è che sin qui si sia discusso di tanti dettagli (mansioni, controlli a distanza, scambi di ferie, etc.) perdendo la visione d’insieme e con questa il senso delle sfide che stanno di fronte alle politiche del lavoro in Italia.

Il problema centrale è quello della bassa produttività. Come ricordava ieri Federico Fubini su queste colonne, il divario nel prodotto per addetto fra il nostro Paese e la Germania continua ad aumentare. Non va molto meglio se ci compariamo al Regno Unito e alla stessa Spagna. Questi andamenti sono tutt’altro che accidentali, per certi aspetti sono ricercati. Da ormai vent’anni abbiamo deciso di puntare tutto sui lavori e i lavoratori temporanei, a bassa produttività e bassi salari. Nelle parole di Maurizio Sacconi, che più a lungo di tutti ha gestito le politiche del lavoro in Italia, il futuro è nei “lavori umili” e i giovani devono “rivalutare il lavoro manuale”. E’ stato accontentato: nella disoccupazione giovanile al 43 per cento spicca il fatto che i laureati tra i 25 e i 29 anni faticano più dei diplomati a trovare lavoro. Non ci sono posti per loro. Eppure accettano di tutto, non sono “choosy”, schizzinosi, come lamentava Elsa Fornero: un terzo dei giovani che lavorano, lo fanno per meno di 5 euro all’ora, in più del 50 per cento dei casi si tratta di lavori non solo temporanei, ma anche con orari più corti di quelli che si vorrebbe (l’80% dei giovani che lavorano part-time vorrebbe un impiego a tempo pieno). I lavoratori potenzialmente più produttivi, sono in genere coloro che hanno livelli di istruzione più elevati, se ne vanno all’estero dove i tassi di disoccupazione giovanile arrivano a malapena alle due cifre. Se ne vanno perché la segregazione cui ha accennato ieri Renzi alla Camera diventa sempre più forte, purtroppo grazie anche alle politiche varate sin qui dal suo governo. Da quando è entrato in vigore il decreto Poletti, è infatti ulteriormente aumentata la quota di assunzioni e licenziamenti su contratti temporanei (è diminuita quella su contratti a tempo indeterminato), mentre sono diminuite le trasformazioni dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Il turnover avviene ormai tutto in questo segmento nettamente separato dal resto del mercato del lavoro. Non dà un futuro, non dà speranze.

Se la riforma del lavoro vuole davvero lasciare il segno, dovrebbe investire nella creazione di posti di lavoro che non siano nati con una data di scadenza e che offrano vere opportunità di miglioramento di salari e produttività nel corso della carriera. Sono posti in cui conta la qualità dell’incontro fra domanda e offerta e l’investimento in formazione sul posto di lavoro. Il contratto a tutele crescenti permette di sperimentare se un rapporto di lavoro a tempo indeterminato funziona o no dando modo al datore di lavoro, nel caso in cui la risposta fosse negativa, di interromperlo almeno in una fase iniziale con costi certi e relativamente contenuti. Imporre a chi dà lavoro di pagare per il licenziamento di un neoassunto quanto paga per il licenziamento di un lavoratore con vent’anni o più di anzianità aziendale è una negazione della sperimentazione. Impedisce di creare posti a tempo indeterminato su mansioni in cui la qualità dell’offerente non può essere valutata con un semplice colloquio di lavoro, ma richiede mesi di compresenze in azienda. Offrire un compenso monetario al lavoratore in caso di licenziamento, che sia crescente con la durata dell’impiego, incentiva il lavoratore a investire nella durata del rapporto di lavoro, dunque nella formazione. Permettere i licenziamenti individuali e non solo quelli collettivi, lasciando al datore di lavoro facoltà di scegliere chi licenziare e chi no, stimola fortemente gli investimenti in produttività, di entrambe le parti, lavoratori e imprese.

Il problema della produttività è particolarmente acuto da noi perché il regime di contrattazione non permette di legare salari e produttività. Per le imprese che devono creare lavoro quel che conta è il rapporto fra quanto il lavoro produce e quanto costa, fra produttività del lavoro e salari. Stranamente in Commissione a Palazzo Madama si è parlato di tutto tranne che di salari, come se non avessero nulla a che vedere con il mercato del lavoro. Può ovviare a questa grave dimenticanza un accordo tra le parti che sancisca che, come in Spagna e in Germania, nelle aziende dove si svolge la contrattazione aziendale, le decisioni prese in questi accordi devono poter prevalere su quanto stabilito dai contratti nazionali, fatte salve ovviamente le leggi dello Stato. Sarebbe un modo per stimolare la contrattazione decentrata, azienda per azienda, prendendo atto del fatto che gli incentivi fiscali introdotti in questi anni, con la detassazione dei premi di produttività, non sono serviti a nulla: da quando ci sono, è diminuita la quota di aziende in cui si fa la cosiddetta contrattazione di secondo livello. Potremmo cancellare gli incentivi fiscali, risparmiando quasi un miliardo, da destinare ad allargare la platea dei beneficiari del bonus di 80 euro.

Per investire nei nuovi lavori bisogna affinare il passaggio dalla scuola al lavoro. Qui possiamo trasformare un fallimento in una grande opportunità, una cocente delusione in una riforma pilota anche per l’Europa. Il fallimento è quello, peraltro annunciato, della cosiddetta Garanzia giovani. A fronte dei quasi 200.000 giovani che si sono iscritti, i centri dell’impiego hanno identificato 103 opportunità d’impiego. Nove giovani su dieci iscritti su www.garanziagiovani.gov.it non hanno neanche ricevuto il primo colloquio di orientamento. E’ l’ennesima delusione, dopo il rapimento dei 200.000 posti di lavoro promessi dal pacchetto sul lavoro del Governo Letta. Chi li ha visti? Mentre chiediamo maggiori investimenti all’Europa non possiamo permetterci di far affondare l’unico investimento che ha fatto in questi anni nel nostro mercato del lavoro. Perché allora non permettere ai giovani di spendere la dote loro concessa dall’Europa in corsi avanzati di formazione-lavoro organizzati da università sul territorio in contatto con le aziende? Perché lasciare che questi soldi vengano buttati via presso qualche centro dell’impiego o finiscano per arricchire unicamente gli intermediari privati, anziché favorire i giovani? L’apparato normativo c’è già. Le università possono già oggi istituire corsi brevi di formazione a contatto con le aziende, in cui i frequentanti passano metà del tempo nelle aule universitarie e l’altra metà in azienda. La partecipazione e il lavoro dei giovani potrebbe essere in gran parte remunerata con la dote. Questi corsi non offrono garanzie di trovare lavoro, ma trasferiscono capitale umano, competenze che sono davvero utili alle aziende, che ci mettono del proprio nel formare il potenziale dipendente e che hanno tutto l’interesse ad assicurarsi che l’università faccia bene il suo mestiere.

Una riforma del lavoro che riesca a incidere su questi tre aspetti, regimi contrattuali, contrattazione salariale e formazione tecnica avanzata, darebbe un segnale forte ai giovani, all’Europa e a chi guarda anche da lontano al nostro Paese. Saremmo i primi a introdurre un contratto di lavoro che serve a unificare il mercato del lavoro, riducendo la segregazione dei lavoratori temporanei. Saremmo i primi a utilizzare i miliardi della garanzia giovani per introdurre un sistema di formazione duale come in Germania, Austria e Svizzera, i Paesi dove la disoccupazione giovanile è più bassa. E non spingeremmo più chi ha soldi da spendere e vuole creare posti da lavoro ad andare altrove perché ritiene che da noi comunque non conterebbe nulla. Bisogna offrire a questi investitori la possibilità di negoziare su tutto, orari, organizzazione del lavoro e salari. Lo farà con le organizzazioni dei lavoratori nell’azienda in cui vuole investire senza vederselo imposto dall’alto.

Disoccupati nascosti e produttività a terra, così il Paese perde colpi

Disoccupati nascosti e produttività a terra, così il Paese perde colpi

Federico Fubini – La Repubblica

Uno dei più bassi livelli di occupazione al mondo, dentro uno dei sistemi che protegge di più il posto di chi un impiego permanente lo ha. Una disoccupazione giovanile senza paragoni con qualunque altro Paese, in proporzione alla quota generale dei disoccupati. Un aumento di stipendi e salari più rapido che in Germania, unito a un crollo dei consumi che invece in Germania continuano ad aumentare.

Più che un mercato del lavoro, lo si potrebbe definire un suk di contraddizioni. Gli obiettivi e gli esiti delle norme che governano l’impiego sembrano procedere in direzioni opposte: all’impegno all’equità e al benessere iscritto nelle leggi corrisponde una fabbrica di esclusione, inattività e impoverimento chiamata oggi Repubblica italiana. Certo non è solo colpa delle regole, ma a sei mesi da quando il governo varò la legge delega sul lavoro uno dei suoi obiettivi è chiaro: arrivare a una situazione diversa da questa. I dati dell’Ocse sull’occupazione e quelli di Eurostat sull’andamento sulle remunerazioni fanno sospettare che dev’esserci qualcosa di profondamente sbagliato in Italia. Difficile altrimenti capire perché il quadro sia peggiore anche rispetto ad altri Paesi colpiti dalla crisi. O perché risultino false alcune delle credenze che, in questo Paese, molti considerano semplicemente ovvie.

Una di queste è che l’Italia ha una disoccupazione elevata, ma molto meno della Spagna e semmai come la Francia. Questa opinione deriva dal fatto che in Spagna la disoccupazione ufficiale è al 24,5%, in Italia al 12,6% e in Francia al 10,3%. Benché non venga mai detto, però, questi dati non sono paragonabili perché non lo sono le istituzioni alla loro base: in Spagna tutti i disoccupati godono di un sussidio e dunque hanno interesse a dichiararsi tali, mentre in Italia spetta quasi solo ai cassaintegrati, i quali però per le statistiche sono «occupati». Gli altri, il grosso dei senza lavoro, spesso non si iscrivono agli uffici per l’impiego perché lo considerano inutile.

Un quadro più realistico viene dai dati dell’Ocse sulla popolazione attiva in proporzione al totale dei residenti: Italia e Spagna sono entrambe appena al 36%, cioè lavora uno su tre e fra solo la Grecia è di poco sotto; la Francia è molto sopra, al 45%. Se poi si guarda alla popolazione attiva fra quella in età da lavoro (fra i 15 e i 64), la Spagna è al 74%, la Grecia al 67,3% e l’Italia è staccata al 63,5%. In altri termini, questi numeri dicono che i dati dell’Istat presentano un quadro della disoccupazione più roseo rispetto alla realtà. La popolazione attiva in Italia è pari o persino minore rispetto a Paesi con tassi di disoccupazione doppia o più. Il sistema produce più esclusi di quanto non raccontino i numeri ufficiali.

Disattenzione c’è spesso su un altro aspetto nel quale l’Italia spicca per il risultato peggiore al mondo: la sproporzione, a sfavore dei giovani, fra la quota totale dei senza lavoro e quelli delle nuove generazioni. In nessun altro Paese la percentuale dei disoccupati giovani (fino a 25 anni) è così alta rispetto al totale: nessun altro Paese penalizza tanto, in proporzione, le ultime generazioni. In Italia il tasso di disoccupazione giovanile è 3,4 volte più alto di quello generale, più del triplo; in qualunque altro Paese Ocse, Spagna, Grecia, Portogallo inclusi, tende invece ad essere il doppio o poco più.

Altrettanto falsa (e diffusa) del resto è la credenza che spiega il recente successo della Spagna nel creare molti più posti dell’Italia con il fatto che quelli iberici sono soprattutto precari. È vero il contrario: la Spagna ha sì un’incidenza più alta di contratti a tempo, il 23% contro il 13% dell’Italia, ma dall’anno duemila non fanno che diminuire sul totale dei contratti mentre è proprio in Italia che da allora sono sempre in aumento, anno dopo anno.

C’è poi un’ultima «verità» italiana, che i dati di Eurostat non confermano: maggiori aumenti di salari e stipendi sostengono i consumi, dunque giovano all’economia. Il confronto con la Germania sembra indicare che non è così. Nei sedici anni da quando nel 1997 furono fissate le parità di cambio in vista dell’euro, i salari nell’industria manifatturiera in Italia sono saliti del 54,5% e in Germania del 39,8%; gli statali italiani hanno avuto aumenti del 48,6% e i tedeschi del 30%. Nel frattempo però la produttività in Germania è cresciuta del 50%, mentre in Italia solo del 10%. Il risultato è che le imprese italiane hanno reagito a questa pressione sui costi chiudendo o espellendo dipendenti, al punto che in questo Paese ormai lavora appena una persona su tre. In Germania invece lavora più di una persona su due, perché le imprese hanno assunto, e lì dal 2008 i consumi sono saliti del 6% mentre qui sono crollati del 13%. Se vuole davvero riformare il lavoro, questo governo avrà molto da fare.

Al lavoro non servono sedute spiritiche

Al lavoro non servono sedute spiritiche

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

La riforma del lavoro è a un tornante delicato e decisivo al Senato. Non c’è tempo per meline o per guerre di religione agitate dalla triste cabala del numero 18. Sulla delega che va sotto il nome, un po’ troppo esterofilo, di Jobs act si è già perso troppo tempo. Su questo l’Italia gioca la partita della credibilità in Europa e quella della fiducia per gli investimenti. Lo scontro paralizzante sul punto nevralgico del cosiddetto contratto a tutele crescenti non fa presagire nulla di buono.

L’obiettivo deve restare la creazione di un contratto a tempo indeterminato flessibile e semplice nella gestione. Le correzioni fatte alle regole per contratti a termine e apprendistato hanno già dimostrato, dati alla mano, che se si facilitano le procedure il mercato risponde e 36mila giovani hanno aumentato gli occupati in un solo mese (luglio) e altrettanti sono usciti dalla palude dell’apatia e dell’inattività per tentare, finalmente la ricerca di un’opportunità lavorativa. Non è ancora il lavoro ma è, almeno, la volontà di cercarlo e la fiducia che qualcosa stia cambiando o possa cambiare.

È anche per questo che da domani Il Sole 24 Ore proporrà ai suoi lettori un intero quotidiano online dedicato al tema del lavoro. Un nuovo strumento specializzato – destinato a tutti gli operatori, imprese e professionisti – per conoscere, per approfondire, per orientarsi tra gli annunci e la realtà del lavoro che cambia. Nel Paese ormai preda della deflazione – dato psicologico (di paura) prima ancora che economico – della disoccupazione quasi doppia rispetto a quella media europea, della produzione in ritirata, dei consumi svaniti è assurdo bloccare la discussione tra articolo 18 sì e articolo 18 no.

La delega di cui si dibatte in Senato ha l’ambizione di creare un nuovo sistema di ammortizzatori sociali; di puntare, forse per la prima volta, federalismo permettendo, sulle politiche attive per la ricerca di un’occupazione piuttosto che su quelle passive per la gestione assistenziale di chi i posti li perde. La delega ha l’ambizione di razionalizzare le forme di ingresso e di uscita dal mondo del lavoro con un occhio all’Europa e ai nuovi orizzonti globali; di traguardare, con un cuore gettato molto oltre l’ostacolo, anche il salario minimo per legge. Più che un problema di diritti – la cannoniera del massimalismo è già in azione – è semmai un problema di risorse, come accade per molte altre riforme che difficilmente sono a costo zero. Il tema dunque è il seguente: quanto risulta velleitario questo Jobs act?

La spinta riformista che tutto il mondo ci chiede non è il «lavoro sporco» come lo ha chiamato Maurizio Landini segretario Fiom e (strano) interlocutore privilegiato del premier, tramite cinguettii virtuali e non solo; ma è l’indicazione di una direzione di marcia moderna sul tema più delicato in assoluto, il lavoro appunto. Il vero problema del contratto a tutele crescenti non è tanto l’abbandono di diritti o procedure di garanzia come è il reintegro affidato magari più a capricci giurisprudenziali che al buonsenso, sostituibile con una congrua monetizzazione nei casi diversi dalla discriminazione di rango costituzionale. Il punto è la creazione di forme di incentivazione per rendere più appetibili e convenienti i contratti a tempo indeterminato, ristabilendo una corretta gerarchia tra impiego stabile e occupazione flessibile (più costosa).

Il Governo sta studiando forme di abbattimento dell’Irap o dei contributi caricati sul lavoro a tempo indeterminato, ma si scontra con le compatibilità di bilancio in una fase in cui l’economia continua la tragica stagione dell’arretramento. Ma proprio la riforma del lavoro sarebbe il lasciapassare europeo anche per la cosiddetta “flessibilità” nelle gestione dei parametri da applicare ai conti pubblici, vale a dire per avere più risorse spendibili. È un obiettivo che ci sollecitano Bce, Fondo monetario e proprio gli stessi partner europei. Ma è un tratto che sfugge alla discussione sul tema e questo è grave. È più facile infiammare assemblee o piazze al grido di “giù le mani dallo Statuto dei lavoratori” che ragionare sui costi di sistema e sul peso di un finanziamento del modello di welfare che è quanto mai squilibrato e a danno delle nuove generazioni (peraltro ormai nemmeno tanto nuove perchè lo squilibrio dura da anni). Eppure lo Statuto dei lavoratori andava stretto, già negli anni 90, anche al suo “genitore storico”, Gino Giugni più volte lucidamente schierato sulla necessità di rivedere alcune parte di una normativa ormai anacronistica rispetto al mutare delle condizioni di produzione, di competizione, di innovazione.

Se l’argomento fosse stato de-ideologizzato e ricondotto a più prosaiche categorie economiche probabilmente avremmo un numero assai più elevato di occupati. La discussione tutta “politica” sullo scippo dei diritti ha fatto velo per troppo tempo al tema decisivo dell’aumento della produttività, e per quella via anche dei salari, di cui nessuno si è curato per decenni. Se partiti, ministri e parti sociali si fossero concentrati su questo punto il Paese probabilmente sarebbe cresciuto di più, avrebbe trovato il sistema per valorizzare il capitale umano, avrebbe spinto in avanti la frontiera produttiva dell’innovazione. Invece sono anni che si assiste a un surreale dibattito della paura: quello dell’impresa che non vuole “fare matrimoni” con i propri dipendenti e quello dei dipendenti persuasi che il primo pensiero dell’imprenditore sia quello di licenziare i propri collaboratori. Sono queste due posizioni agitate sui fantasmi che hanno obnubilato le menti e azzerato ogni discussione costruttiva. Renzi batta un colpo: se può faccia finire questa seduta spiritica. Nel suo partito e fuori.

Occupazione, il mercato italiano 136esimo per efficienza

Occupazione, il mercato italiano 136esimo per efficienza

Il Mattino

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 136esimo su 144censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si situa infatti a un livello leggermente superiore a quelli di Zimbabwe e Yemen ed inferiore a quelli di Sri Lanka e Uruguay. Lo rivela un’elaborazione del «Centro studi ImpresaLavoro» sulla base dei dati pubblicati dal World Economic Forum. Rispetto al 2011 retrocediamo di 13 posizioni a livello mondiale in termine di efficienza generale del nostro mercato del lavoro e soprattutto perdiamo 19 posizioni con riferimento alla collaborazione tra impresa e lavoratore così come altre 15 per la complessità delle regole che ostacolano licenziamenti e assunzioni. L’unico settore in cui non si registra un arretramento dell’Italia è quello relativo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro: conserviamo infatti la comunque assai deludente 93ma posizione che avevamo raggiunto nel 2011. Tra i Paesi delI’Europa a 27 siamo ultimi per la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Austria e Olanda). E siamo terz’ultimi per flessibilità nella determinazione del salario.

Ora servono misure di soccorso efficaci

Ora servono misure di soccorso efficaci

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

«L’insània negli individui è qualcosa di raro – ma nei gruppi, nelle nazioni e nelle epoche, è la regola». Questa massima di Friedrich Nietzsche è sempre di attualità, come si vede nella tragedia di Gaza, e – in modo meno sanguinolento – nelle politiche di austerità in Europa. Basta guardare alle cifre. In queste pagine abbiamo documentato, per molte variabili del nostro benessere (o malessere) economico, la distanza (tanta, troppa) fra la situazione attuale e quella del passato. Il “come eravamo” si declina in un salto del gambero, non in un nostalgico “Amarcord”. Stiamo tornando indietro e, quel che è più grave, questo regresso non è la fase discendente dello yo-yo, ma una discesa che rende più difficile la risalita.

In termini economici, una disoccupazione a questi livelli porta a un deterioramento del capitale umano: si manifesta come disoccupati scoraggiati che escono dalla forza lavoro e/o come un arrugginirsi delle abilità. Le misure attive di sostegno al lavoro (formazione e altro) in Italia sono meno diffuse e meno efficienti rispetto ad altri Paesi. E quel che abbiamo appena definito come “arrugginirsi delle abilità” non riguarda solo i singoli, ma interi settori in cui il know how si va sfilacciando fino a scomparire. Ma ancora più importante, in questo regresso dell’economia, è l’aspetto psicologico. L’intera vicenda del dopoguerra, con la miracolosa impennata dell’attività economica, aveva avuto come causa ed effetto la “rivoluzione delle aspettative crescenti”: ogni generazione, ogni figlio e ogni figlia, avevano la speranza e l’attesa di migliorare il tenore di vita rispetto a quello dei genitori. Questa convinzione diventava molla e motore del progresso: lo sforzo aveva una ricompensa. Ma se la rivoluzione delle aspettative crescenti inverte la marcia, perché sforzarsi? Ottimismo e attivismo cedono il passo a rassegnazione e apatia. Viene gettata la maschera di uno sviluppo senza fine e i ruggiti si trasformano in guaiti e lamenti.

L’Italia aveva i suoi problemi anche prima della Grande recessione. Ma quando questa allargò le sue ali uncinate sull’economia, quando all’urto del tifone recessivo succedette la coda velenosa della crisi da debiti sovrani, l’unica risposta che l’Europa seppe dare – e il problema non era e non è solo italiano – fu quella di un’austerità a senso unico. Ancora oggi viene chiesto all’Italia di versare altro sale sulle ferite dell’economia: proprio quando l’economia continua nella sua marcia del gambero, proprio quando – si veda il dato ultimo sulla produzione industriale – la nostre fabbriche sfornano un quarto e passa in meno rispetto ai massimi precedenti, si chiede all’Italia di stringere di più la politica di bilancio. Torna alla mente l’insània dei mandarini del Tesoro americano nei primi anni Trenta quando, di fronte all’evidenza di fallimenti e disoccupazione, sostenevano che lo Stato doveva dare il buon esempio e far quadrare i suoi conti, aumentando le imposte e diminuendo le spese.

È vero, l’ossessione di oggi, presso i sostenitori dell’austerità, è un po’ più sofisticata di quella di allora. Il ragionamento è questo: se non insistiamo sull’austerità, i Paesi in deficit non fanno le riforme che li aiuterebbero a crescere. Allora, pur se la nostra insistenza sembra crudele (“tough love”, direbbero gli anglosassoni), siamo in fondo dei burberi benefici. Il difetto di questo ragionamento è nel manico, sta in un serio problema di miopia. Le riforme, quand’anche si facessero oggi, prendono tempo a esplicare i propri effetti, mentre l’economia ha bisogno di un soccorso hic et nunc. Se questo soccorso non viene – anzi, se le viti del bilancio vengono strette ancora – l’emorragia continua e diventa più difficile introdurre riforme. La gente vede le regole europee come una camicia di forza e non come un obiettivo virtuoso. Così il cerchio si chiude, in uno stallo disperante di azioni e reazioni.

Come uscire da questo circolo vizioso? Una via è quella di annunciare unilateralmente un rinvio degli obiettivi di pareggio, come ha fatto la Francia. Ma la via maestra è un’altra: non quella delle punzecchiature, ma quella della politica alta. Eliminare la discrasia dei tempi – riforme a tempi lunghi, soccorso a tempi brevi – con un atto di fiducia. Accettare, da parte di una Commissione bruxellese eterodiretta dalla governante teutonica, un allentamento delle regole e dare fiducia ai Paesi nell’adozione delle riforme. Riforme che in ogni caso, come ha detto più volte Matteo Renzi, dobbiamo fare per il nostro bene, non perché ce lo impone l’Europa. Ma la fiducia è una merce scarsa nella politica europea. Purtroppo, Nietzsche aveva ragione.