paolo baroni

Gli stipendi degli statali valgono il 10,5% del Pil ma la media Ue è più alta

Gli stipendi degli statali valgono il 10,5% del Pil ma la media Ue è più alta

Paolo Baroni – La Stampa

Senza il blocco dei contratti, il giro di vite sul turnover e norme più severe per premi individuali, come ha certificato poco tempo fa la Corte dei Conti, l’Italia non sarebbe certo riuscita a mettere sotto controllo il monte salari dei dipendenti pubblici. E invece da qualche anno a questa parte il peso sul bilancio dello Stato pian piano sta scendendo al punto che l’Italia è entrata a far parte del club dei Paesi più virtuosi, collocandosi ben sotto la media europea: nel 2016 scenderemo infatti sotto la soglia del 10% del Pil. Oggi siamo ancora al 10,5%, contro il 19% della Danimarca, il 14,4 della Svezia, il 13,4% della Francia e l’11,5 della Gran Bretagna. Tra i grandi Paesi solo la Germania, con l’8%, riesce a fare meglio.

Comunque sia, anche se gli stipendi medi non sono altissimi (34.576 euro di media nel 2012), si tratta pur sempre di un mucchio di soldi: parliamo di ben 164 miliardi di euro di spese complessive nel 2013, 8 in meno rispetto al 2010 (-4,6%) quando il blocco dei salari ha toccato tutti i settori e tutti i comparti della Pa. Stando all’ultima versione del Def 2014 non solo la discesa non sarebbe terminata, ma anzi si prevede un’ulteriore riduzione dello 0,7%. Solo dal 2018, per effetto della ripresa del turnover e del pagamento dell’indennità di vacanza contrattuale 2015-2017, è prevista una inversione di tendenza con un aumento dello 0,3 per cento della spesa.

Ovviamente parliamo di medie, se si scende nel dettaglio, in un mondo dove i dirigenti sono tra i più pagati in assoluto di tutta l’area Ocse e dove la «truppa» è invece agli ultimi posti delle graduatorie, si vede che a patire di più i tagli sono stati i dipendenti degli enti locali che hanno dovuto sopportare «per intero» la diminuzione della spesa, mentre il settore statale si è mantenuto su livelli stabili (+0,2%) ed i dipendenti degli enti previdenziali hanno messo a segno un lieve aumento (+1%).

Ma se è vero che la spesa dello Stato ha beneficiato di queste norme sempre più rigide sul pubblico impiego, è anche vero – lo ammette la stessa Corte dei conti – che si è trattato di «misure severe ed eccezionali, non replicabili all’infinito e non aventi natura di riforma strutturale». Dopo cinque anni e più sostengono i magistrati contabili, il blocco della contrattazione va superato. Perché ha di fatto «impedito» la piena attuazione della riforma del 2009 quando vennero «privatizzati» i contratti del pubblico impiego con l’obiettivo di aumentare la flessibilità e riforma il meccanismo di calcolo degli stipendi.

Se il governo, come ha più volte detto, vuole procedere con la riforma del salario accessorio, spingere l’acceleratore sul recupero dell’efficienza e la valorizzare del merito individuale è obbligato a riprendere l’attività negoziale. È una questione «fisiologica», sottolinea la Corte dei Conti. E certamente, dopo sette anni di blocco, non è immaginabile una contrattazione che riguardi solo le regole e non i salari. Il problema è che riaprire il «file» contratti ha un costo non indifferente. È lo stesso governo, nei documenti di bilancio, ad indicare in base agli aumenti medi concessi nelle tornate precedenti un costo che a regime arriverà a quota 6,5 miliardi di euro. Ecco spiegato l’impasse di questi giorni. Al quale difficilmente si potrà sopperire con ulteriori tagli del numero dei dipendenti, già scesi di 200 mila unità nel giro di 4 anni. Perché andrebbe utilizzata di nuovo la leva del turnover e questo farebbe ulteriormente aumentare l’età media dei nostri travet, che in larga parte (50%) già oggi hanno più di 50 anni contro una media europea del 30% e dove la quota di laureati (34%) sfigura se rapportata ad esempio a quella inglese (54%). Con tutto ciò che ne conseguenze in termini di competenza, efficienza e produttività.

Il settembre nero dei negozi, due chiusure ogni apertura

Il settembre nero dei negozi, due chiusure ogni apertura

Paolo Baroni – La Stampa

Arriva settembre, finiscono le ferie, e molte serrande restano abbassate. A chiudere (per sempre) sono bar e ristoranti, negozi di abbigliamento e librerie, imprese che magari hanno una lunga storia imprenditoriale alle spalle ma anche attività nate anche da poco: spesso chiudono in sordina, a volte per pudore non lo comunicano nemmeno alle loro associazioni. «Per molti – spiegano alla Confesercenti – la chiusura del negozio in cui hanno lavorato tutta la vita, magari insieme alla famiglia, è una sconfitta personale. Per questo qualcuno approfitta delle ferie per chiudere».

I primi dati elaborati da Confesercenti ci dicono che tra luglio e agosto, nel settore del commercio, per ogni nuova impresa che ha aperto i battenti ben due li hanno chiusi. E quel che è peggio è che questi dati (2.603 aperture a fronte di 5.463 chiusure) replicano quelli del 2013, che fino a ieri risultava in assoluto l’anno peggiore di sempre. Oggi – denuncia Confesercenti – un’impresa su 4 dura addirittura meno di tre anni: a giugno 2014 oltre il 40% delle attivita aperte nel 2010 – circa 27mila imprese – è già sparito bruciando investimenti per circa 2,7 miliardi.

È crisi nerissima insomma: confermata anche dallo stallo dei consumi, che in sei mesi ha già fatto perdere al terziario altri 2,2 miliardi di euro di fatturato, e da una pessima stagione dei saldi, che quest’anno si sono rivelati un vero flop, con una riduzione delle vendite (stime Codacons) del 5-8% e una spesa media per famiglia che non supera i 65 euro.

In base ai dati dell’Osservatorio Confesercenti relativi ai primi sei mesi solo il commercio ambulante fa segnare un leggero miglioramento, si arresta la corsa delle vendite on line (82 nuove imprese avviate nei primi sei mesi dell’anno contro le 530 del 2013), mentre tutto il resto va male. A cominciare dai ristoranti (saldo negativo per 2.500 unita) che traina all’ingiù tutto il comparto del turismo, che già prima di questa pessima estate presentava un saldo negativo di 6mila imprese tra

hotel, bar, ecc. doppio rispetto al 2013. Poi vanno molto male il commercio in sede fissa (-14mila), i negozi di sigarette elettroniche (4 chiusure ogni nuova apertura), l’abbigliamento (-3300) e le rivendite di giornali (4 chiusure/2 aperture). Tra le regioni più colpite ci sono la Sicilia (15 chiusure al giorno e solo 5 aperture) ed il Lazio (6 aperture ogni 15 chiusure). Tra le grandi citta malissimo Roma, che ha fatto segnare un saldo complessivo negativo di 1.111 imprese nel solo settore del commercio in sede fissa, seguita da Napoli (-812) e Torino (-543).

«L’avvio del 2014 è stato peggiore di quanto ci aspettassimo – commenta il segretario generale di Confesercenti, Mauro Bussoni -. Siamo entrati nel terzo anno di crisi e molte imprese semplicemente non ce la fanno più, schiacciate dalla diminuzione dei consumi e l’aumento della pressione fiscale». Spaventa, inoltre, «la doppia batosta Tari/Tasi», senza contare poi i «danni» delle liberalizzazioni introdotte da Monti: dovevano rilanciare consumi e occupazione e si sono rivelate «un vero flop: i previsti effetti benefici sono tuttora “non pervenuti”, ed il settore ha perso oltre 100mila posti, registrando allo stesso tempo 28,5 miliardi di minori consumi da parte delle famiglie».

La giungla delle società pubbliche produce soltanto dei buchi nei conti

La giungla delle società pubbliche produce soltanto dei buchi nei conti

Paolo Baroni – La Stampa

A prenderla larga le società controllate o partecipate dalle pubbliche amministrazioni sono più di 39mila, secondo la Corte dei Conti invece non si arriva a 7.500. C’è di tutto: si va dalle ex municipalizzate elettriche alle aziende rifiuti, dalle farmacie alle terme, dalla lavorazione delle uova alla produzione di prosciutti. E spesso hanno più consiglieri di amministrazione che dipendenti. Quel che è certo è che pesano sui bilanci dello Stato ma soprattutto di Comuni e Regioni per qualcosa come 26 miliardi di euro l’anno. Un punto e mezzo di Pil, in pratica 3 volte il valore del bonus da 80 euro. Inevitabile puntare i riflettori su questa vera e propria giungla: lo fa da anni Confindustria, che chiedeva alla politica di disboscare questo mondo ben prima che la spending review diventasse di moda («discariche per politici trombati» le aveva definite Luca Montezemolo), e lo fa ora il governo. Che punta a tagliare sprechi e a far cassa. Quella che sta per iniziare è una battaglia che vede ancora Roma contro tutti perché, come ha accertato la magistratura contabile, delle 7.472 società censite (ma solo 6.386 sono attive) appena 50 fanno capo allo Stato (e a loro volta controllano altre 526 società di secondo livello). Poi però ce ne sono ben 5.258 partecipate dagli enti locali. In totale ci sono 1.963 società per azioni, 1.235 srl, 758 società consortili, 202 cooperative, 1.019 consorzi, 561 fondazioni, 182 istituzioni, 274 aziende speciali e 178 «altre forme». E se il loro numero è «variabile» è perché queste società «sono soggette a frequenti modifiche dell’assetto», gli assetti sono spesso «mutevoli» e soggetti a vicende che i magistrati contabili definiscono «complessi». Per il loro peso finanziario e per la dimensione economica, gli enti partecipati – denunciava a inizio giugno il procuratore generale della Corte Salvatore Nottola – «hanno un forte impatto sui conti pubblici, sui quali si ripercuotono i risultati della gestione quando i costi non gravano sulla collettività, attraverso i meccanismi tariffari». Solo l’anno scorso questo sistema è costato 25,9 miliardi di trasferimenti.

Insomma non c’è solo Renzi che vuol passare «da 8.000 a 1.000 società partecipate», c’è anche la Corte dei Conti che preme. E sollecita a sua volta «un disegno di ristrutturazione organico e complessivo che preveda regole chiare e cogenti, forme organizzative omogenee, criteri razionali di partecipazione, imprescindibili ed effettivi controlli da parte degli enti conferenti».

Il maggior numero di partecipazioni appartiene alla Lombardia (7.496 controllate), seguono Piemonte (7.061), Veneto (4.123) e Toscana (3.606). La Pa nel Lazio (che includono anche le amministrazioni centrali) sostengono un onere di quasi 9,5 miliardi. In Lombardia poco più di 5,5 miliardi. Per la Corte dei Conti circa l’80% di queste società non si occupa di servizi indispensabili alla collettività. Una indagine di Confindustria di fine 2013 si ferma a circa due terzi ed arriva a ipotizzare ben 12,8 miliardi di risparmi per effetto della cessione o della loro liquidazione. Anche per il commissario alla spending review Carlo Cottarelli, che in base a un campione analizzato dal ministero dell’Economia stima che solo le municipalizzate nel 2012 abbiano perso almeno 1,2 miliardi di euro, è arrivato il momento di «chiudere il rubinetto». Solo per le multi-utility (1.100 in tutto tra acqua, luce e gas con 40 miliardi di fatturato ed oltre 600 milioni di euro di utili nel 2013) è prevista una via di fuga. Ma dovranno comunque aggregarsi. E la Cassa depositi e prestiti ha già detto di essere pronta a finanziare le fusioni.