paolo cirino pomicino

Mammellone fiscale

Mammellone fiscale

Davide Giacalone – Libero

Chiamare gli italiani con i redditi più alti a contribuire straordinariamente, per abbattere parte del debito pubblico, ma farlo senza che questa sia una patrimoniale, bensì volontariamente. Dato che la volontà va incentivata, aggiunge Paolo Cirino Pomicino, ideatore della proposta, a chi vorrà versare si garantiscano quattro anni senza accertamenti fiscali, sempre che il loro reddito cresca dell’1,5% ogni anno. Mi convince. Non mi piace. Integro.

Il ragionamento è convincente perché (come qui si è cento volte ripetuto, facendo riferimento alla dismissione di patrimonio pubblico) far scendere d’un colpo, significativamente, il debito pubblico ne diminuisce l’enorme costo in interessi. Quindi non solo libera dal debito (in parte), ma libera risorse altrimenti impiegabili. Convincente. Non mi piace, però, il riferimento esclusivo alla sospensione dei controlli fiscali, per la semplice ragione che, automaticamente, escluderebbe me, e molti altri, da quanti potrebbero contribuire. Mi rifiuto, infatti, di sborsare un solo centesimo per prendermi pure il certificato di evasore fiscale. Avendo pagato sempre tutto, quindi già troppo.

Propongo un doppio binario: su uno viaggia il convoglio Pomicino; sull’altro si offra un patto al contribuente che se lo può permettere: tu anticipi, per due anni, una parte del gettito fiscale e lo Stato, in cambio, ti fa uno sconto più che proporzionale sull’aliquota che dovrai pagare, nei due anni successivi. È un patto virtuoso, perché da entrambe le parti si scommette sulla crescita: lo Stato risparmiando sugli oneri del debito, il contribuente contando che la ripresa porti con sé un aumento del reddito, quindi un buon affare fiscale. Ci si guadagna tutti.

La domanda cruciale, però, è: cosa si fa con i soldi risparmiati abbattendo il debito? Questa è la vera questione politica. Credo si debbano fare due cose: a. diminuire la pressione fiscale; b. innescare investimenti pubblici infrastrutturali. Paolo Cirino Pomicino dice che gli son cadute le braccia quando ha letto, nella legge di stabilità, che ci si accontenta di previsioni minimali circa la crescita del prodotto interno lordo. Non so cosa possa cadergli, a consuntivo. A me erano cadute prima, con gli 80 euro. Poi replicati. Mi son cadute perché l’idea che gli italiani siano poppanti e che il problema sia la quantità di latte erogabile, tramite il mammellone statale, non è solo sbagliata: è letale. Questa roba è un incrocio, bastardo, fra il keynesismo senza Keynes e il liberismo senza mercato. Fra la convinzione che il mercato possa riprendere velocità solo grazie alla spesa pubblica e il diffidare degli investimenti pubblici, supponendo migliori i consumi decisi dai privati. In questo modo, temo, si fa crescere il debito senza spingere la ricchezza. In altre parole, è un gesto che arricchisce elettoralmente e impoverisce economicamente.

Tale mutazione genetica, tale illegittima filiazione del fanfanismo e del reaganismo, entrambe presunti, è confermata dal fatto che a occuparsi dei grandi investimenti pubblici hanno messo un magistrato. Li guardano con sospetto, se non con un certo schifo. Non che i sospetti non siano fondati, ma se continuo a mettere gli spiccioli in tasca alle persone, senza corrispettivo di produttività, quelli li utilizzeranno in tre modi: a. pagare gli aumenti delle bollette; b. risparmiare il possibile, non fidandosi; c. comprare merce a basso costo, magari prodotta, importata e venduta illegalmente. Nulla che spinga la ricchezza. Gli investimenti pubblici, quindi, sono il giusto contrappeso degli sgravi fiscali e dei tagli alla spesa improduttiva. Resi possibili dall’abbattimento del debito. Altrimenti il solo “ismo” che prende corpo è il laurismo. A quel punto entrambe i binari, quello di Cirino Pomicino e il mio, sono da considerarsi morti. Nel senso che i soldi, chi li ha e può, li porta velocemente via.

Leggere una legge

Leggere una legge

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

Secondo le migliori tradizioni del giornalismo economico, quando ci si trova dinanzi a una manovra finanziaria di fine d’anno e per giunta di questa portata, prudenza impone di leggere prima le norme e poi dare un giudizio completo. Come si sa, infatti, il diavolo si nasconde nei dettagli. Detto questo, una prima valutazione può essere fatta sulla base delle dichiarazioni del presidente del Consiglio e sulle tabelle consegnate in sala stampa. Diciamo subito che questa legge di stabilità presenta alcune luci, diverse ombre e due bugie.

Partiamo dalle luci. La riduzione dell’Irap escludendo dal suo calcolo il monte salari è una scelta che va nella giusta direzione perché alleggerisce il carico fiscale sulle imprese oppresse da diversi anni da una pressione tributaria e contributiva anomala e da una grave crisi della domanda interna e internazionale. È vero che questa norma premia maggiormente le medie e le grandi aziende, ma d’altro canto sono quelle che hanno il maggior numero di occupati. Altra scelta positiva è la vecchia fiscalizzazione degli oneri sociali (cosi si chiamava all’epoca) per i nuovi assunti con un contratto a tempo indeterminato e per soli tre anni, Questa norma abbassa, insieme alla riduzione dell’Irap, il costo del lavoro in maniera significativa e orienta le imprese ad assumere con questo tipo di contratto rispetto alle altre tipologie vigenti. Ma qui finiscono le luci, salvo scoprire nell’intero provvedimento qualche altra cosa di buono.

Le ombre, invece, sono diverse e nella sostanza riguardano i tagli per 15 miliardi di spesa. Innanzitutto è da verificare nel concreto se questi tagli esistono per davvero, e se esistono come noi crediamo perché parte di essi sono tagli lineari ai trasferimenti alle regioni, province e comuni, bisogna capire a cosa danno origine. La cosa più probabile è che parte di essi si trasformeranno in più alte imposte locali mentre un’altra parte si trasformerà in una riduzione della spesa in conto capitale delle regioni e degli enti locali. Entrambi gli effetti andranno a vanificare in parte quelle misure che abbiamo definito come le luci del provvedimento approvato. D’altro canto, affrontando un equilibrio dei conti pubblici e un rilancio della crescita con gli ordinari strumenti a disposizione, difficilmente si può sfuggire a questi effetti uguali e contrari. Come è noto, noi eravamo e siamo tra quanti ritengono che solo un abbattimento di una parte significativa del debito può dare delle risorse fresche perché riduce quella spesa per interessi che da circa 80 miliardi alla finanza nazionale e internazionale, senza dover ricorrere a tagli che amplificano gli input recessivi. Non è un caso che l’Italia quest’anno sarà l’unico paese dell’Eurozona a rimanere con un pil negativo.

E qui passiamo alle bugie. Le prime sono le previsioni in gran parte sbagliate. Quest’anno la nostra crescita negativa, se avviene un miracolo nelll’ultimo trimestre, si può fermare a meno 05-0,6 per cento, cioè circa il doppio di quanto previsto nel documento finanziario con un trascinamento negativo anche sulla prima parte dell’anno prossimo che prevede, peraltro, una striminzita crescita positiva dello 0,6 per il 2015 e che sarà a rischio. Perché in questa manovra manca l’altro tassello fondamentale per fare uscire l’ltalia dal tunnel, e cioè gli investimenti pubblici. Viviamo una crisi della domanda, che non si accresce mettendo un po’ di soldi in più nelle tasche di chi ha già un reddito (80 euro o il tfr nella busta paga), perché in costanza di crisi questi soldi si trasformano in risparmi per un futuro che resta ancora incerto. La domanda si accresce se si allarga la base occupazionale e il “la” lo danno gli investimenti pubblici che languono e ora rischiano di diminuire ulteriormente sul versante degli enti locali. Alla stessa maniera manca qualunque incentivo per gli investimenti privati, come un più rapido ammortamento degli investimenti fatti nei prossimi 18 mesi, una norma premiante a termine, capace di sollecitare le aziende a cogliere questa opportunità e ad anticipare i propri investimenti.

Abbiamo lasciato per ultima la bugia più grande perché ci intenerisce come una vecchia gag di Totò. Il presidente del Consiglio ha detto che con questa manovra si tolgono 18 miliardi di tasse. Non è vero. Renzi calcola come riduzione di tasse il mantenimento dei famosi 80 euro del maggio scorso. Se non li avesse confermati noi avremmo avuto un aumento delle tasse; avendoli confermati, l’aumento non c’è stato, ma nemmeno la riduzione rispetto all’anno che sta per finire. Per dirla meglio, se la detrazione che produce il beneficio degli 80 euro viene fatta con norme che si rinnovano anno dopo anno, secondo Renzi dopo 5 anni avremo ridotto la pressione fiscale di 50 miliardi o saremo rimasti sempre al palo di quelle detrazioni che danno i famosi 80 euro? Si dia una risposta! Se non volessimo bene a Renzi, ai suoi lupetti e ai tanti dc presenti nel governo e nel Pd, diremmo che questa comunicazione è un imbroglio. In verità è il frutto di una velenosa tentazione mediatica e di una giovinezza goliardica. Certo è che la riduzione della pressione fiscale è solo quella dell’Irap e quella contributiva è nei limiti di due miliardi per l’esenzione contributiva dei nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato. Non pochi ma molto lontani da ciò che serve all’Italia per uscire dalle secche.

Il deficit di Renzi

Il deficit di Renzi

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

La decisione improvvisa e unilaterale del governo francese di avere per due anni in più uno sforamento del 3 per cento nel rapporto deficit/pil, attestandolo sopra il 4 per cento, dimostra non solo la crisi in cui si dibatte l’Unione europea e in particolare l’Eurozona ma anche una sorta di fallimento del semestre italiano ormai agli sgoccioli. Tutti sapevano delle crescenti tensioni sulle politiche economiche e di bilancio di Bruxelles e Renzi, in qualità di presidente di turno, avrebbe dovuto convocare una riunione dei capi di stato e di governo per affrontare per tempo la delicata questione in termini concreti incardinandola come priorità nell’agenda di lavoro. In realtà il governo italiano, focalizzato sui rapporti tra l’Italia e Bruxelles, ha perso di vista la dimensione comunitaria delle tensioni che si stavano accumulando. Dopo la svolta francese tutto sarà più complicato per l’Europa e per l’Italia. Anzi, forse, sarebbe utile rallentare anche alcune partite già in dirittura d’arrivo come l’Unione bancaria che presenta non pochi aspetti problematici. Ma ciò che accade in Europa accade anche in Italia, e cioè una incertezza crescente sulle politiche sinora perseguite e su quelle annunciate.

Forse per qualcuno è stata una sorpresa la Nota di aggiornamento del documento finanziario approvato dal governo per i tragici numeri emersi sulla crescita sulla occupazione e sui conti pubblici, ma per noi è stata solo una conferma di ciò che diciamo da mesi. Anzi il governo non ha detto tutta la verità! Non è vero che alla fine dell’anno la crescita del prodotto interno lordo sarà ne- gativa solo per lo 0,3. Se dovesse intervenire un miracolo forse ci fermeremo a 0,5/0,6 ma deve cambiare il vento nell’ultimo trimestre e le previsioni non sono in quella direzione. La stessa cosa vale per la striminzita crescita prevista dal governo per il 2015 (+0,6) che inizierà con l’effetto di trascinamento negativo del 2014. Il pareggio di bilancio si allontana nel tempo sino a scomparire all’orizzonte e il debito continuerà a salire (il governo pre- vede di far scendere il rapporto debito/pil di uno 0,1 cioè niente) mentre il rapporto deficit/pil si dovrebbe mantenere al 3 per cento grazie alla ricchezza prodotta dalla prostituzione e dalla economia illecita e criminale. Da venti anni l’economia italiana non cresce e da ventidue anni èe affidata esclusivamente a tecnici di indubbio valore ma che con la politica economica hanno scarsa dimestichezza. Anche per l’economia vale quel vecchio aforisma di Georges Clemenceau secondo il quale la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari.

Ciò che vogliamo dire è che da venti anni manca una visione di politica economica e di politica industriale, pur essendo l’Italia il secondo paese manifatturiero dell’Europa dietro la Germania. Abbiamo la netta impressione che anche il governo Renzi si sia avviato su questa strada, al di là dei fuochi di artificio sull’articolo 18 e sulle tante riforme ordinamentali messe in pista. Renzi ha una forza politica che altri governi non avevano, per contingenze oggettive e per le modalità con le quali ha conquistato prima il Pd e poi il governo, ma rischia di sciuparla per non avere l’umiltà di capire e di operare dopo aver capito. Una cosa è il consenso e la popolarità, altra cosa è l’arte del governare che richiede visione non onirica, strumenti di conoscenza della macchina dello stato e dei processi economici e una squadra all’altezza. Così non è stato e Renzi ha sbagliato l’agenda di lavoro anticipando le riforme istituzionali a quelle economiche.

Per spiegarci meglio, è come se si volesse curare in pronto soccorso un uomo ferito da uno sparo affrontando prima la sua epatite cronica e poi aggredendo la ferita sanguinante. Il tutto avendo, peraltro, un partito alle spalle che ha due anime profondamente diverse. Bisogna dare atto a Renzi di non nascondere questa diversità genetica, tanto da dire nel dibattito in direzione che lui è un cattolico liberale. Musica per le nostre orecchie, ma cosa ci fa un cattolico liberale alla guida di un partito iscritto al Partito sociali- sta europeo? Certo, vi sono sempre stati socialisti cattolici (vedi Jacques Delors) ma in quegli uomini il termine cattolico non era una cifra politica ma solo la testimonianza di una fede religiosa. Ed è anche vero che il cattolicesimo politico ha nel suo Dna un’idea riformatrice e progressista ma profondamente diversa dal socialismo democratico. Di qui, dunque, la debolezza strutturale nell’azione di governo. Davvero Renzi ritiene di fare uscire l’Italia dal tunnel della recessione o della crescita bassissima nella quale è stata relegata da 20 anni con 10-15 mld di euro da spendere e mettendo in busta paga una parte del tfr, come si appresta a fare con la prossima legge di stabilità? Non scherziamo col fuoco. L’Italia è in grande affanno e l’idea che si possa uscire dalle difficoltà gettando la furia popolare contro gli stipendi alti a cominciare da quelli delle Camere che sono un “unicum” nelle società nazionali è un altro errore, perché accanto all’applauso vociante emerge la triste direzione di marcia: siamo tutti più eguali nella povertà.

Per dirla in maniera semplice: o si aggredisce il debito con una manovra finanziaria straordinaria recuperando decine di miliardi dalla spesa per interessi che oggi vanno alla finanza nazionale e internazionale, per darli all’economia reale, o lentamente il paese morirà e i suoi asset migliori saranno acquistati da quanti si sono riuniti qualche giorno fa riservatamente in un albergo di Milano per discutere sugli acquisti migliori da fare nel nostro paese a prezzi stracciati. Per fare operazioni di questo genere, però, non servono tecnici ma politici che abbiano visione e coraggio per chiamare la grande ricchezza nazionale a uno sforzo congiunto e salvare il paese e con esso la ricchezza che gli italiani hanno prodotto nel corso di tanti decenni, battendo nemici come il terrorismo e l’inflazione a due cifre e mantenendo intatto quel profilo democratico senza il quale non si va molto lontano.

Matteo come Cirino Pomicino

Matteo come Cirino Pomicino

Keyser Söze – Panorama

È diventato il grande imbuto del governo Renzi. Quello che il premier indica come l’appuntamento in cui si risolveranno tutti i problemi e tutti i mali. Si tratta della legge di stabilità. A sentire l’inquilino di Palazzo Chigi la questione dei precari della scuola troverà una soluzione lì. Sempre lì si troveranno anche i soldi per rilanciare le grandi opere e, magari, anche il modo per allargare la platea degli 80 euro, totem per eccellenza del verbo renziano. Il rischio è che la prima legge di stabilità renziana sia scritta secondo i codici democristiani di un tempo, secondo la furbizia del gioco delle tre carte che fu la filosofia del ministro andreottiano per eccellenza, Paolo Cirino Pomicino. Anche lui grande estimatore dell’arte del rinvio. «Renzi discepolo di Pomicino» inorridisce l’azzurro Daniele Capezzone «è un’immagine che si attaglia al momento». Un epilogo che molti danno per scontato. Basta dare un’occhiata allo stato della nostra economia. Delle due l’una: o la legge di stabilità diventa il presupposto di quel lungo elenco di riforme che Renzi finora ha solo enunciato, il che significa un provvedimento severo e impopolare; o si trasforma in un grande minestrone, in cui il prestigiatore di Palazzo Chigi mescola le promesse, i sogni, gli impegni presi in una confusa melassa insapore, che serve solo a confondere ancora gli italiani. Inutile dire che l’ipotesi più probabile sia la seconda.

Tutti i protagonisti della politica, estimatori o meno del premier, su un dato si trovano d’accordo: Renzi non persegue una strategia chiara. «O meglio» si infervora Pier Luigi Bersani «non l’ha proprio». «Le sue proposte» ammette Silvio Berlusconi «sono ben al di sotto della tragica crisi che stiamo vivendo». «Invece di elencare una riforma al giorno» dice Sergio Marchionne «basterebbe che si concentrasse solo su tre: lavoro, certezza del diritto, burocrazia». Ma Renzi è nelle condizioni di farlo? Probabilmente no: l’autunno caldo sottoporrà il Pd al richiamo della foresta del sindacato, della piazza. E l’assenza di una strategia economica e di una formula politica definita renderà difficile anche l’aiuto del Cav: se Berlusconi non accetterà di rappresentare una vera alternativa a Renzi, qualcun altro ci proverà visto che l’establishment italiano è affollato di disoccupati di lusso. Corrado Passera docet. E il premier, come reagirà? Rilancerà sul piano dell’immagine, ma nella sostanza rinvierà ancora. In fondo la scuola democristiana è nel suo Dna.

Più che il lavoro, a costarci troppo cari sono il denaro e la finanza sregolata

Più che il lavoro, a costarci troppo cari sono il denaro e la finanza sregolata

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

Al direttore – La riunione dei banchieri centrali tenutasi alcuni giorni fa nel Wyoming ha avuto come tema centrale del dibattito il mercato del lavoro, un tema che affligge da anni le democrazie occidentali che presentano un tasso di crescita modesto o, come nel caso italiano, negativo, dopo oltre cinque anni di recessione. E sinora la ricetta messa in campo dagli Usa, dal Giappone e dalla stessa Gran Bretagna e sempre la stessa, una politica monetaria e di bilancio espansiva, con debiti pubblici crescenti. E’ davvero questa l’unica ricetta? Noi crediamo di no anche se per invertire un ciclo economico negativo c’e bisogno in prima battuta di politiche monetarie accomodanti e di politiche di bilancio espansive che mettano al centro dell’attenzione una diversa qualità della spesa pubblica orientata, prima ancora che alla sua riduzione, alla crescita per concorrere a una politica anti ciclica. Bene ha fatto Mario Draghi nel ribadire che la politica monetaria non può sostituire una politica economica fatta di politiche di bilancio, di politiche sociali, di formazione, di ricerca e di innovazione, Avremmo gradito, in verità, anche un riferimento più preciso dall’insieme dei governatori delle Banche centrali sulla crisi che ha investito in particolare l’occidente. Una crisi che, a nostro giudizio, e di domanda e non di offerta tant’è che il nuovo spettro e la deflazione mentre se fosse una crisi dell“offerta avremmo visto crescere i prezzi. Sottolineiamo questo aspetto perché un’analisi non precisa o non completa rischia di portare a soluzioni parziali o addirittura incoerenti, Non e un caso, infatti, che i suggerimenti emersi dalla riunione dei banchieri centrali siano in una unica direzione, ridurre il costo del lavoro e contrarre gli stessi salari per recuperare competitività all’impresa, unico soggetto, pubblico o privato che sia, capace di produrre ricchezza, E questo sarebbe un errore. Non perché non sia necessario ridurre il costo del lavoro ma perché la competitività di una impresa ha anche altre componenti altrettanto importanti come, ad esempio, la finanza intesa nel suo doppio versante, patrimoniale e del fabbisogno di credito. Una questione, questa, del tutto assente non solo nel dibattito ultimo tenuto a Jackson Hole nel Wyoming, ma anche e principalmente nei comportamenti delle Banche centrali e, per quanto riguarda l’Europa, nella messa a punto di Basilea 3 che aumenta in maniera notevole per le banche l”onere dei propri impieghi e quindi, a cascata, gli oneri finanziari per le imprese. Sembra quasi che l*unica preoccupazione debba essere la salvaguardia del denaro delle banche e non dell’altra componente dell’impresa che e il lavoro dell’imprenditore e delle s ue maestranze. Tanto per f’are un esempio di casa nostra, la Banca d’Italia da per il trimestre luglio-settembre 2014, per affidamenti creditizi superiori a 5 mila euro, una forchetta di tassi applicabili tra il 10,20 e il 16,75. Un siffatto onere e o non è un elemento che pesa sulla competitività delle imprese almeno quanto il costo del lavoro? E per non indurre in errore chi ci legge, anche in paesi diversi dal nostro che hanno, cioè, tassi più bassi, il costo del denaro è un elemento non secondario sulla competitività delle aziende. Questo aspetto non può che rientrare nella competenza delle banche centrali ma anche in quella delle imprese bancarie che devono poter ridurre il costo della propria struttura per alleggerire il peso di quel pilastro degli oneri finanziari che opprime la competitività delle imprese alla stessa maniera di come il carico tributario pesa sulle banche e sui loro equilibri di bilancio, essendo anche esse imprese. Come si vede e una filiera il cui anello terminale resta l’impresa e la sua competitività.Ma c’e di più. Da vent’anni a questa parte la finanza ha via via dismesso il suo ruolo di infrastruttura al servizio dell”economia reale per diventare una industria a se stante in cui la materia prima son quattrini e il prodotto son più quattrini, La dimostrazione di questa mutazione genetica sta nella vita delle stesse imprese, in particolare in quelle medio-grandi, il cui fatturato e per almeno un quinto legato ad attività finanziarie e non ad attività di produzione o di servizi. Un solo dato: nel triennio 2009-2011 gli impieghi di natura finanziaria (acquisizioni, dividendi e liquidità )delle multinazionali americane, europee e giapponesi sono stati 1,5 volte quelli industriali. Questa e una grave distorsione del capitalismo occidentale perché investe in pieno la crescita del benessere fondato sulla diffusione di prodotti e di servizi che elevano il tono di vita complessivo delle società moderne. Una modernità che non prevede una utopica uguaglianza nel tono di vita ma che non può a lungo sostenere una crescita esponenziale di disuguaglianze, come quelle che abbiamo visto in questi venti anni durante i quali larghe masse di quello che una volta si chiamava ceto medio produttivo e professionale si sono impoverite mentre una sempre più stretta élite finanziaria ha accresciuto in maniera notevole le proprie ricchezze. Questa mutazione genetica del capitalismo occidentale arriva da lontano, dalla deregolamentazione dei mercati finanziari che con i suoi prodotti innovativi hanno attratto sempre più risorse sottraendole alla economia reale e, per essa, alla competitività delle imprese per quanto abbiamo sinora detto, creando, inoltre, una economia di carta sovrastrutturale che, se non fermata a tempo, farà scoppiare una bolla monetaria dagli effetti devastanti. Quando invochiamo una diversa regolamentazione dei mercati finanziari non pensiamo a vecchie tentazioni dirigiste ma a una diversa convenienza tra investimenti finanziari e quelli nell’economia reale, privilegiando questi ultimi. Il capitalismo finanziario, infatti, rischia di ammazzare quella economia di mercato che per crescere e consolidarsi ha bisogno di una armonia di tutte le proprie componenti (della incidenza della componente energetica sulla competitività parleremo in altra occasione), e senza la quale diventa difficile difendere anche quel sistema democratico che l’occidente si è dato nel secolo scorso. Come si vede in politica come in economia tutto si tiene ed è forse giunto il tempo che la politica torni a discutere di economia, rompendo quella esclusività di un dibattito solo tra economisti e banchieri centrali. 

Come aggredire il debito pubblico senza i soliti provvedimenti demagogici

Come aggredire il debito pubblico senza i soliti provvedimenti demagogici

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

Mentre Roma discute Sagunto brucia, scriveva Tito Livio diversi secoli or sono. E mai come ora Sagunto è l’Italia che polarizza energie, tensioni, scontri su temi decisamente importanti come la riforma del Senato e più ancora del titolo V (le competenze delle Regioni, tanto per intenderci) ma certamente meno urgenti della messa a punto di una politica economica che metta al centro la ripresa di una crescita economica assente da quasi 20 anni. Ed invece su quest’ultimo terreno emerge da un lato una sorta di non consapevolezza dello stato drammatico dell’economia del paese e dall’altro per l’ennesima volta si affaccia il tema di una manovra correttiva per avere un deficit di bilancio al di sotto del 3 per cento. Sono venti anni che tutti si interessano del numeratore nel rapporto deficit Pil e mai nessuno del denominatore la cui crescita è il vero strumento per risanare stabilmente la finanza pubblica. Allora è bene chiarire subito come stanno le cose per non aggiungere errori ad errori.

Dopo 5 anni di recessione e uno di stagnazione economica la prima cosa da non fare è tagliare la spesa pubblica perché qualunque taglio manda all’economia reale un nuovo imput recessivo. Altra cosa è, naturalmente, la diversa allocazione delle poste di bilancio per recuperare una diversa efficacia della spesa pubblica il cui taglio può, al contrario, avvenire solo quando la crescita si sia consolidata a livelli almeno del 2 per cento l’anno. Se a nostro giudizio non va fatta, dunque, una manovra correttiva per tagliare la spesa pubblica va rapidamente messa a punto una manovra di finanza straordinaria per aggredire il debito e liberare risorse dall’unico bacino disponibile, quello della spesa per interessi forte di oltre 85 miliardi di euro l’anno. Ciò che sfugge al governo e alla maggioranza, ma in verità anche alle opposizioni, è che se anche riuscissimo a restare al di sotto del 3 per cento cosa cambierebbe per l’economia italiana? Nulla. Alla stessa maniera sarebbe un disastro immaginare per un periodo di poter rilanciare l’economia del debito che può essere una soluzione transitoria ma in un paese che non abbia un debito alto come quello italiano (è il caso di molti paesi europei, a cominciare dalla Francia). Basterebbe guardare gli ultimi 20 anni in cui l’Italia si è avviata in un circuito perverso fatto di bassa crescita e di un debito che aumentava in maniera esponenziale senza che nella società vi fossero tensioni sociali come quella vissuta nella stagione del terrorismo e men che meno livelli inflazionistici allarmanti. È tempo, dunque, di cambiare linea e di immaginare una attenzione esclusiva verso l’aumento della crescita, che ha bisogno di risorse nuove capaci di consentire di ridurre la pressione fiscale e contributiva su famiglie e imprese e di accentuare investimenti pubblici concentrati su obiettivi specifici capaci di trascinare con sé investimenti privati a fronte della ripresa di una domanda interna figlia a sua volta di un aumento dell’occupazione.

Il dibattito demagogico di questa settimana parla di tagliare le pensioni al di sopra di 3mila o di 5mila euro mensili, quasi che questo taglio consentisse l’aumento dei trattamenti pensionistici bassi. L’unica cosa che produrrebbe una misura demagogica di questo tipo è che gli italiani sarebbero tutti più eguali nella povertà. L’alternativa coraggiosa, invece, è l’aggressione al debito pubblico accompagnata da misure minori e da nuovi strumenti capaci di accelerare la spesa di investimenti pubblici e di quelli privati per far ripartire la crescita. Proposte in questa direzione sono state avanzate da più parti ma è il governo a dover prendere una iniziativa adeguata. Il superamento del bicameralismo paritario è una linea ormai condivisa ma lungo quella direzione vanno garantiti il rapporto eletto-elettore e un equilibrio tra poteri ma quel tema, lo ripetiamo, importante nel medio periodo per un ammodernamento delle istituzioni democratiche, è certamente meno urgente e può tranquillamente coesistere con una nuova politica economica per evitare che l’Italia, come Segunto, bruci nell’angoscia di una povertà crescente mentre discute di un periodo lontano nel quale il paese rischia di arrivarci con implosioni sociali devastanti.