paul krugman

Un’altra tempesta perfetta rischia di travolgere l’Europa

Un’altra tempesta perfetta rischia di travolgere l’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

Se anche Paul Krugman fatica a capire come andrà a finire la «faccenda» dell’euro, o meglio, come farà a finire in modo non catastrofico, e si spinge fino a ipotizzare/auspicare l’uscita di paesi fondatori, come la Francia, dall’Unione europea e dalla moneta unica, vuol dire che la situazione è non poco compromessa. Che ormai le abbiamo provate tutte senza risultato, tanto in termini di politica economica quanto in termini di politica monetaria.

In politica economica si è sbagliata la linea: si pensi alla dottrina calvinista dei «compiti a casa» e alle ricette «sangue, sudore e lacrime» imposte ai paesi sotto attacco speculativo dall’Europa a trazione tedesca. Le misure di politica monetaria, invece, si stanno rivelando inefficaci, o meno efficaci del previsto. Siamo nel momento di maggiore debolezza non solo dell’Europa politica, ma anche della Bce, sempre più bloccata dai veti della Bundesbank, di cui gli operatori sono perfettamente a conoscenza e su cui cominciano a speculare. Dopo 2 anni e mezzo di attesa, i mercati dicono «vedo» al «faremo di tutto» di Mario Draghi del luglio 2012. Se la risposta non sarà immediata e forte l’Eurozona avrà finito le munizioni. E, questa volta sì, l’euro potrebbe implodere davvero.

La Germania dovrebbe ridurre il suo surplus della bilancia commerciale, aumentare gli investimenti e la domanda interna, magari facendo un po’ di deficit, ma non lo fa. La Francia dovrebbe dimostrarsi un po’ meno sfrontata nei confronti delle regole europee, indebolite dal suo atteggiamento sprezzante, ma non lo fa. E l’Italia sta perdendo la sua grande occasione di mediazione e sintesi: dimostrare a Germania e Francia che la verità sta nel mezzo, che le regole di bilancio si possono rispettare, utilizzando al meglio i margini di flessibilità già previsti dai Trattati. Basta essere credibili facendo le riforme che generano crescita e garantiscono un percorso di rientro da eventuali lievi discostamenti dai parametri di Maastricht.

Il vuoto di leadership lasciato dall’Italia è stato, quindi, ancora una volta, colmato dalla Germania. Giovedì, parlando davanti al suo Parlamento, Angela Merkel lo ha detto in maniera esplicita: la tempesta sui mercati, innescata mercoledì 15 dalla Grecia, è il risultato del mancato rispetto, da parte di alcuni paesi dell’area euro, delle regole del Patto di stabilità e crescita. La calma in Europa c’è stata solo quando le regole non sono state violate. La Germania è riuscita a coordinare disciplina di bilancio e crescita, e anche gli altri paesi devono fare lo stesso. La Cancelliera si è poi riservata di chiedere un rafforzamento della disciplina di bilancio già al prossimo Consiglio europeo del 23-24 ottobre a Bruxelles. Che significa ricadere nel circolo vizioso.

Ma questa è solo l’interpretazione tedesca della bufera finanziaria. C’è, infatti, chi la vede in maniera opposta: il crollo delle borse e il balzo in alto degli spread della scorsa settimana è dipeso dagli ennesimi dati negativi sull’andamento dell’economia nell’area euro, Germania inclusa. Recessione e deflazione sono il risultato delle politiche economiche sbagliate adottate negli anni della crisi e le istituzioni europee, pur avendo compreso l’errore, non accennano a cambiare rotta, anzi perseverano nel «sangue, sudore e lacrime». In un contesto come questo, in cui le politiche economiche dei paesi dell’Unione sono tutt’altro che coordinate tra loro e in cui, nel vuoto decisionale lasciato dalle istituzioni europee, l’unico paese che prende in mano la situazione è sempre e soltanto la Germania, portando l’Europa sulla strada sbagliata, neanche la Bce è più in grado di assicurare la calma sui mercati. Quello che emerge dalle decisioni di politica monetaria degli ultimi mesi, infatti, è che anche all’interno della Banca centrale europea sta prevalendo la linea tedesca.

L’ultima «zampata» di Mario Draghi risale ormai a quasi sei mesi fa, poi non è più riuscito a incantare i mercati. Proprio perché alla conferenza stampa mirabolante di giugno scorso, in cui annunciava un grande piano di 400 miliardi di finanziamenti agevolati alle banche, da destinare esclusivamente alla concessione di credito a famiglie e imprese, e un grande piano di acquisto di Abs (titoli obbligazionari che «impacchettano» prestiti a privati e imprese), per alleggerire i bilanci delle banche, non è seguito, al contrario di quanto prevedevano tutti, un programma di acquisto di titoli di Stato sul modello del quantitative easing americano, ma una clamorosa marcia indietro.

Se negli ultimi anni gli errori di politica economica sono stati compensati dalle misure di politica monetaria della Bce e l’Europa ha potuto beneficiare di un periodo di calma apparente sui mercati, si pensi al whatever it takes di luglio 2012, oggi la ritrovata incertezza e la debolezza della Bce scoprono la realtà vera: la moneta unica è una costruzione imperfetta e al suo interno i singoli Stati nazionali non sono in grado di camminare con le proprie gambe.

Il momento in cui tutto questo avviene non è dei migliori: il prossimo 26 ottobre saranno resi noti i risultati degli stress test di 124 banche europee (di cui 15 italiane) e i rumors non lasciano prevedere nulla di buono. Pare che già alcune delle vendite di Borsa della scorsa settimana siano state causate dal fatto che si dia quasi per certo il fallimento dei test di molte banche, non solo italiane. Inoltre, il 17 settembre la Fed ha ridotto ulteriormente la sua iniezione mensile di liquidità sui mercati, annunciando che gli acquisti di ottobre, pari 15 miliardi di dollari, potrebbero essere gli ultimi. Con meno soldi in circolazione le scelte di portafoglio dei gestori diventeranno più selettive e i primi titoli che saranno smobilizzati saranno quelli dei paesi europei considerati più deboli (come, per esempio, l’Italia, se continua a non fare le riforme). Al primo segnale di incertezza, di debolezza o di comportamenti opportunistici, inoltre, ricomincerà la corsa al Bund tedesco, considerato «bene rifugio», con il relativo aumento degli spread. Anche di questo la scorsa settimana abbiamo avuto già un assaggio.

La prossima riunione del comitato operativo della Fed è in agenda per il 29 ottobre. Solo allora sapremo se la linea della presidente Janet Yellen verrà confermata, o se prevarranno le istanze del presidente della Federal Reserve di Saint Louis, James Bullard, che, invece, preme per il prolungamento del quantitative easing . Il consiglio direttivo della Bce si riunirà il 5 novembre. Deciderà quello che i mercati si aspettano, vale a dire l’allentamento monetario, o prevarrà l’attendismo degli ultimi mesi, che, come abbiamo visto, ha neutralizzato l’accelerazione di giugno, e le borse precipiteranno ancora più giù? Un tale evento nefasto troverebbe l’Italia in mezzo al guado.

L’Italia manca di credibilità sul piano internazionale e dei mercati. L’esecutivo si regge su una maggioranza di partito e non su una maggioranza parlamentare. Nel paese protestano tutti, incluse le Regioni, governate da rappresentanti dello stesso Pd che è a palazzo Chigi. La finanza pubblica è fuori controllo e le previsioni macroeconomiche del governo appaiono fin troppo ottimistiche agli occhi di tutti. La legge di Stabilità presentata mercoledì va nella direzione opposta rispetto a quella auspicata dalla Commissione europea e dagli organismi internazionali. In controtendenza rispetto all’attuale mood dei mercati, come l’abbiamo descritto. Più che domare la tempesta, e cogliere l’occasione per assumere un ruolo di leadership in Europa, Matteo Renzi sembra fare di tutto per esserne travolto. Davvero vuol passare alla storia come colui che ha affossato l’Italia e, con l’Italia, l’euro?

Le due trappole che l’Europa non vede

Le due trappole che l’Europa non vede

Paul Krugman  – Il Sole 24 Ore

Chiunque studi l’economia monetaria internazionale conosce bene la Legge di Dornbusch: «La crisi ci mette molto più tempo ad arrivare di quanto pensavate, e poi si svolge molto più in fretta di quanto avreste pensato» (lo disse in un’intervista, nel 1997, il compianto economista tedesco Rudi Dornbusch). E con l’ultima crisi dell’euro è successo esattamente questo.

Fino a poco tempo fa gli austeriani che dettano la politica macroeconomica della zona euro andavano in giro tronfi a cantar vittoria per una modesta risalita della crescita. Poi l’inflazione è precipitata e l’economia dell’Eurozona ha cominciato a incepparsi, e tutti sono andati a riguardarsi i fondamentali e si sono resi conto che la situazione rimaneva molto seria. Anche nell’estate del 2012 la situazione sembrava grave, e Mario Draghi, il presidente della Bce, riuscì a evitare che il vecchio continente precipitasse nel baratro. E forse riuscirà a farlo di nuovo, ma adesso il compito appare molto più difficile.

Nel 2012 il problema erano gli interessi sui titoli di Stato dei Paesi della periferia dell’euro, che in realtà, come adesso sappiamo, crescevano più per questioni di liquidità che per problemi di solvibilità. Una volta sgombrato il campo dalla prospettiva di una carenza di liquidità, il panico rientrò. Ma quello che sta succedendo adesso è ben diverso. È una crisi al rallentatore e coinvolge tutta la zona euro, che sta scivolando verso una trappola deflativa. Draghi può cercare di imprimere una spinta attraverso politiche di allentamento quantitativo, ma non è affatto scontato che possano servire allo scopo. E la politica limita i suoi margini di azione.

Un’altra cosa che mi colpisce è la quantità di confusione intellettuale che ancora c’è in giro. La Germania continua a voler vedere tutta la crisi come l’effetto di una gestione irresponsabile dei conti pubblici, e questo non solo esclude la possibilità di stimoli di bilancio efficaci, ma azzoppa l’allentamento quantitativo. E un’altra cosa incredibile è il fatto che la logica della trappola della liquidità, dopo sei anni- sei anni! -di tassi di interesse quasi a zero, continui a non essere compresa Ho letto recentemente, e non è neanche l’esempio peggiore, un editoriale su FT di Reza Moghadam, vicepresidente della Morgan Stanley, che scrive che «i salari e il costo del lavoro in generale sono semplicemente troppo alti, anche per gli standard dei Paesi ricchi e tanto più rispetto al concorrenti dei mercati emergenti». Santo cielo! Se è la concorrenza esterna che vi preoccupa allora bisognerebbe svalutare l’euro, non tagliare i salari. E tagliare i salari in un’economia incastrata in una trappola della liquidità quasi sicuramente aggraverebbe la recessione. Com’è possibile che ci sia ancora qualcuno che non lo capisce?

L’Europa ha sorpreso molte persone, me compreso, con la sua capacità di resistenza. E penso che la Bce di Draghi sia diventata un importante elemento di forza. Ma faccio sempre più fatica (come altri) a capire come andrà a finire tutta la faccenda (o meglio a capire come farà a finire in modo non catastrofico). Se trovate implausibile una storia in cui Marine Le Pen porterà la Francia fuori dall’euro e dall’Unione Europea, ditemi qual è il vostro scenario alternativo.

Gli economisti pentiti (o quasi) adesso fanno autocoscienza

Gli economisti pentiti (o quasi) adesso fanno autocoscienza

Federico Rampini – La Repubblica

«La professione dell’economista non si è coperta di gloria in questi ultimi sei anni, è il minimo che si possa dire». Comincia così “l’autocoscienza dell’economista” a firma di Paul Krugman. Il premio Nobel dell’economia include se stesso nel bilancio negativo: «Quasi nessun economista aveva previsto la crisi del 2008, e quelli che lo fecero avevano anche previsto troppe crisi che non erano mai accadute». L’allusione in parte è a se stesso (Krugman era già pessimista molti anni prima del 2008) in parte ad altre Cassandre celebri come Nouriel Roubini e Robert Shiller. Anche i migliori, dunque, sbagliarono. O perché attribuirono una crisi imminente a cause errate: i macrosquilibri delle bilance dei pagamenti fra Usa, Cina e Germania, per esempio. Oppure perché avevano profetizzato il disastro con troppo anticipo (1999 nel caso di Shiller). La categoria dei pessimisti avverava la battuta secondo cui «gli economisti hanno previsto dieci delle ultime quattro recessioni». Molto peggio gli altri, comunque. E cioè la maggioranza: i cantori del libero mercato come meccanismo perfetto, capace di correggere i propri squilibri, di generare prosperità sempre ed ovunque. Quelli, tra l’altro, avevano il più delle volte le leve del potere in mano: vedi Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve “addormentato al volante” mentre Wall Street gonfiava la bolla speculativa dei mutui sub-prime. Ideologia e conflitto d’interesse si sorreggevano a vicenda: la “mano invisibile” consentiva a Wall Street di respingere limiti e restrizioni. Ma la storia continua, ora l’epicentro del disastro intellettuale è l’eurozona…

In America l’autoflagellazione degli economisti è diventato un nuovo genere letterario. Quella frase autocritica di Krugman, è l’incipit di una sua recensione uscita sul supplemento libri del New York Times. Il libro è Seven Bad Ideas (sette cattive idee) di Jeff Madrick. L’ultimo di una lunga serie. Tra i migliori in questo filone ci sono Zombie Economics dell’australiano John Quiggin (sottotitolo: “Le idee fantasma da cui liberarsi” edito dall’Università Bocconi); il monumentale saggio di Philip Mirowski Never Let a Serious Crisis Go toWaste( non lasciare che vada sprecata una grave crisi); un altro australiano, Steve Keen, con Debunking Economics. L’elenco è molto più lungo, a conferma di due aspet- ti importanti. Primo: almeno una parte della categoria degli economisti sente di avere tradito la propria missione, la propria funzione sociale, il proprio dovere verso il pubblico. Secondo: c’è un’altra parte più numerosa, però, che non sente alcun bisogno di associarsi all’autocoscienza e di fare autocritica. Purtroppo nella seconda categoria ci sono molti esperti vicini al potere, tecnocrati che hanno un’influenza enorme sulle decisioni dei governi. Questo è un dato che Krugman sottolinea nella sua recensione al libro di Madrick, e che accomuna tutte le altre opere che ho appena citato: la formidabile capacità di sopravvivenza delle idee sbagliate. Nelle sette idee che Madrick prende di mira, almeno tre sono strettamente legate fra loro: il dogma della “mano invisibile” (il mercato capace di auto-regolarsi); l’avversione all’intervento statale nell’economia; e la certezza che la globalizzazione sia sempre benefica.

C’è però un aspetto che Krugman non tratta nella sua recensione, e riguarda il clima intellettuale in Europa. I tre dogmi mercatisti di cui sopra hanno avuto meno influenza nel Vecchio Continente. Gli Stati Uniti vivono sotto l’egemonia neoliberista dai tempi di Ronald Reagan in poi; ma in Europa la versione pura e dura del mercatismo ha sfondato solo in Gran Bretagna. La Germania, sia che fosse governata dai socialdemocratici o dai democristiani, ha sempre preferito una versione ben temperata del liberismo, la cosiddetta economia sociale di mercato o “modello renano”. Lo Stato, anche nella vocazione di Welfare, ha sempre avuto in Europa continentale un ruolo maggiore che in America, almeno da Reagan in poi. E tuttavia il pensiero economico americano ha dovuto accettare di recente qualche salutare shock pragmatico. Krugman ricorda per esempio che la Chicago Business School (cresciuta all’ombra dell’autorità di Milton Friedman, il padre dei neoliberisti, Nobel anche lui) in un sondaggio fra economisti ha trovato che il 92% riconoscono l’efficacia dell’Amministrazione Obama nel contrastare la recessione con investimenti pubblici. La prova dei fatti, almeno in questo caso, ha potuto scalfire i dogmi. Non tutti, per carità. Le pagine dei commenti del Wall Street Journal rimangono in appalto alla fazione più radicale dei neoliberisti; i quali da cinque anni gridano “al lupo al lupo”, denunciando i disastri imminenti provocati dal deficit pubblico Usa (che invece si sta riducendo) e il ritorno dell’iperinflazione dietro l’angolo (di cui non c’è traccia). Milioni di risparmiatori americani hanno pagato di tasca propria per gli errori di questi esperti: il caso del fondo Pimco è esemplare, il più grosso gestore di bond ha creduto al mito dell’inflazione fabbricata dalla politica monetaria della Federal Reserve, e ha fatto scommesse disastrose sull’andamento dei mercati.

Da nessun’altra parte però il disastro della scienza economica sta producendo danni sociali così gravi come in Europa. Un altro grande economista americano, Benjamin Friedman (autore de Il valore etico della crescita, Università Bocconi), sulla New York Review of Books si occupa della “patologia del debito europeo”. Evidenzia la lettura “religiosa” del debito come vizio o peccato da espiare, che ispira Angela Merkel. Ricorda ai tedeschi afflitti da amnesia che loro furono i beneficiari del più colossale perdono di debiti della storia, dopo la seconda guerra mondiale. Traccia dei parallelismi inquietanti fra l’attuale depressione europea e quella degli anni Trenta, ivi comprese le conseguenze politiche come l’ascesa della xenofobia. La Merkel ormai appare dogmatica perfino agli esperti del Fondo monetario internazionale, che da tempo la esortano a rilanciare la domanda interna nel suo paese usando la leva degli investimenti in infrastrutture. Ma l’autocoscienza dell’economista, che in America è iniziata almeno nelle frange più illuminate, non ha ancora scalfito le certezze granitiche che governano l’Europa: dove gli accademici “krugmaniani” (i Piketty e i Fitoussi) sono amati dall’opinione pubblica ma contano poco, e di certo non influenzano i tecnocrati di Berlino, Francoforte e Bruxelles.

Economisti: troppi errori, poche soluzioni (ma molte idee)

Economisti: troppi errori, poche soluzioni (ma molte idee)

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Davvero bisogna proclamare la “disfatta degli economisti”, come suggerisce il Nobel Paul Krugman nell’articolo ripreso ieri da Repubblica? Parlare male della categoria è facile: non hanno previsto la grande crisi, hanno sbagliato le ricette e sono prigionieri di ideologie liberiste fallimentari. Krugman descrive la categoria cui appartiene come prigioniera di una “repressione neoclassica” che impedisce a idee eterodosse di germogliare in teste formattate dal dogma del libero mercato. Ma è una caricatura, le cose sono più complesse.

Primo: nessuno aveva capito tutto, ma molti avevano capito tanto. La crisi dei mutui subprime era stata pronosticata in tutti i dettagli da Raghuram Raian nel 2005, in una presentazione a Jackson Hole davanti a banchieri centrali e finanzieri. Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, poi derisi per aver sbagliato i conti sull’impatto delle misure di austerìtà, avevano spiegato che le crisi finanziarie, in particolare quelle che riguardano il debito sovrano, lasciano tracce più profonde di altri tipi di recessione come quelle dovute a choc energetici. Lo speculatore-filantropo George Soros ripete da tempo che il problema dell’Europa è la Germania e che non si può gestire la periferia dell’euro com’è stato fatto. Le idee, insomma, a cercarle, c’erano. Il problema semmai è che la politica ha scelto di applicare quelle sbagliate.

Il vero disastro lo hanno fatto gli economisti quantitativi, i previsori, quelli che cercano di tradurre in cifre il futuro. Il Fondo monetario e l’Ocse hanno sbagliato moltissimo e si so- no scusati, ma tutte – proprio tutte – le previsioni sulla crescita e la ripresa si sono rivelate sballate. Due giorni fa l’Ocse ha detto che l’Italia nel 2014 sarà in recessione con un Pil a -0,4 per cento, soltanto a giugno stimavano +0,5. È cambiato il mondo o avevano sbagliato i calcoli perché sono sbagliati i modelli di previsione? In sette anni di crisi gli economisti “previsori” hanno perso ogni credibilità. O sono gran pasticcioni, oppure i loro modelli si reggono su ipotesi sbagliate. Per esempio che debba arrivare una ripresa o che la crescita seguirà dinamiche diverse da quelle passate. Larry Summers ha aperto il dibattito sulla “stagnazione secolare” (senza nuove bolle speculative che sostituiscano quella del debito sovrano e dei mutui non si riparte), Jeremy Rifkin suggerisce che il Pil continuerà a scendere perché molte attività umane ormai hanno un costo marginale zero e sono scambiate gratuitamente o quasi (da Whatsapp a Wikipedia al car sharing). Le cose non stanno come dice Krugman: gli economisti non sono stati sconfitti, stanno cercando di capire come è cambiato il mondo che devono spiegare. Chissà se ci riusciranno in tempo utile.

La disfatta degli economisti

La disfatta degli economisti

Paul Krugman – La Repubblica

La scorsa settimana ho partecipato a una conferenza organizzata da Rethinking Economics , un gruppo gestito da studenti che invita, indovinate un po’, a ripensare l’economia. E Dio sa se l’economia deve essere ripensata alla luce di una crisi disastrosa, che non è stata predetta né impedita. A mio avviso però è importante rendersi conto che la disfatta intellettuale degli ultimi anni interessa più di un livello. Ovviamente l’economia come disciplina è uscita drammaticamente dal seminato nel corso degli anni – o meglio decenni – portando dritto alla crisi. Ma alle pecche dell’economia si sono aggiunti i peccati degli economisti che troppo spesso per faziosità o per amor proprio hanno messo la professionalità in secondo piano. Non da ultimo i responsabili della politica economica hanno scelto di ascoltare solo ciò che volevano sentirsi dire. Ed è questa sconfitta multilivello – e non solo l’inadeguatezza della disciplina economica – la responsabile del terribile andamento delle economie occidentali dal 2008 in poi.

In che senso l’economia è uscita dal seminato? Quasi nessuno ha pronosticato la crisi del 2008, ma probabilmente è un errore scusabile in un mondo complesso. La responsabilità più schiacciante va alla convinzione ampiamente diffusa allora tra gli economisti che una crisi del genere non potesse verificarsi. Alla base di questa certezza sprovveduta dominava una visione idealizzata del capitalismo in cui gli individui sono sempre razionali e i mercati funzionano sempre alla perfezione.

I modelli teorici sono utili in economia (e adire il vero in qualsiasi disciplina) come strumento per illustrare il proprio pensiero. Ma a partire dagli anni Ottanta è sempre più difficile pubblicare sulle maggiori riviste un contributo che metta in discussione questi modelli. Gli economisti che hanno cercato di prendere coscienza della realtà imperfetta hanno affrontato una “novella repressione neoclassica”, per dirla con Kenneth Rogoff, di Harvard, non certo un radicale (e con il quale ho avuto da discutere). Dovrebbe essere assodato che non ammettere che il mercato possa essere irrazionale o fallire significa escludere la possibilità stessa di una catastrofe come quella che, sei anni fa, ha colto di sorpresa il mondo sviluppato.

Tuttavia molti economisti applicati avevano una visione più realistica del mondo e i testi di macroeconomia pur non prevedendo la crisi, hanno saputo predire abbastanza bene la realtà del dopo crisi. I tassi di interesse bassi a fronte di gravi deficit di bilancio, l’inflazione bassa a fronte di una offerta di moneta in rapida crescita e la forte contrazione economica in paesi che impongono l’austerità fiscale hanno colto di sorpresa gli esperti in tv, ma corrispondevano semplicemente alle previsioni dei modelli fondamentali nelle situazioni predominanti del post crisi. Ma se i modelli economici non sono stati poi così deludenti nel dopo crisi, altrettanto non si può dire di troppi economisti influenti che si sono rifiutati di ammettere i propri errori, lasciando che la mera faziosità avesse la meglio sull’analisi, o entrambe le cose. «Ho sostenuto che una nuova depressione non fosse possibile, ma mi sbagliavo, è che le imprese reagiscono al futuro insuccesso della riforma sanitaria di Obama».

Direte che sbagliare è tipico della natura umana, ed è vero che mentre il dolo intellettuale più sconvolgente è attribuibile agli economisti conservatori, anche alcuni economisti di sinistra sono parsi più interessati a difendere il loro orticello e a prendere di mira i colleghi rivali piuttosto che a correggere il tiro. Ma questo comportamento ha sorpreso e sconvolto soprattutto chi pensava che fossimo impegnati in un reale dibattito. Avrebbe fatto differenza se gli economisti si fossero comportati meglio? Oppure chi è al potere avrebbe agito comunque come ha agito, infischiandosene?

Se immaginate che i responsabili della politica abbiano passato gli ultimi cinque o sei anni alla mercé dell’ortodossia economica siete fuori strada. Al contrario, chi aveva potere decisionale ha recepito moltissimo le idee economiche innovative, non ortodosse, che a volte erano anche sbagliate, ma fornivano loro la scusa per fare quello che comunque volevano fare. La gran maggioranza degli economisti orientati alla politica sono convinti che l’aumento della spesa pubblica in un’economia depressa crei posti di lavoro, mentre i tagli li distruggono, ma i leader europei e i repubblicani statunitensi hanno deciso di credere allo sparuto gruppo di economisti di opinione opposta. Né la teoria né la storia giustificano il panico scatenatosi riguardo agli attuali livelli di debito pubblico, ma i politici hanno deciso di abbandonarsi comunque al panico, citando a giustificazione studi non verificati (e rivelatisi erronei).

Non voglio dire che la teoria economica è a posto né che gli errori degli economisti non contano. Non lo è, gli errori contano e sono del tutto favorevole a ripensare e riformare il settore. Il grande problema della politica economica non sta però nel fatto che la teoria economica tradizionale non ci dice cosa fare. In realtà il mondo starebbe molto meglio se la politica reale avesse rispecchiato gli insegnamenti del corso di economia di base Econ 101. Se abbiamo fatto la frittata – e così è stato -la colpa non è dei libri di testo ma solo nostra.

L’idea sbagliata di classe media e il rischio catastrofico dell’euro

L’idea sbagliata di classe media e il rischio catastrofico dell’euro

Paul Krugman – Il Sole 24 Ore

Un nuovo studio dell’istituto economico tedesco Iw mette a confronto le percezioni della disuguaglianza nelle nazioni avanzate: uno dei dati più significativi è che gli americani tendono, molto più degli europei, a pensare di vivere in una società di classe media, nonostante il reddito da quella parte dell’Atlantico sia distribuito molto meno equamente che in Europa. Mettendo a confronto Stati Uniti e Francia, per esempio, esce fuori che i francesi pensano di vivere in una società gerarchica, piramidale, quando in realtà la maggioranza di loro appartiene alla classe media. Gli americani hanno la convinzione opposta. Come sottolineano gli autori della ricerca, anche altri dati indicano che gli americani sottovalutano enormemente la disuguaglianza presente nella loro società, e quando gli si chiede di scegliere un modello di distribuzione ideale della ricchezza, rispondono che gli piace la Svezia. 

Quali sono le ragioni di questa differenza? Io, come molti altri, sono del parere che l’eccezione americana riguardo alla distribuzione del reddito (la nostra peculiare diffidenza e ostilità verso il welfare e i programmi anti povertà) sia strettamente legata alla nostra storia razziale. Tuttavia questo non spiega direttamente perché abbiamo una percezione cosi distorta della disuguaglianza effettiva: la gente potrebbe essere contraria ad aiutare “quelli là”, ma non per questo essere inconsapevole di quanto siano ricchi i ricchi. E’ possibile, tuttavia, che ci sia un effetto indiretto: la divisione razziale rende più forti le formazioni di destra, di ogni tipo, e queste formazioni a loro volta producono propaganda in gran quantità che ignora e minimizza il problema della disuguaglianza.

I sentimenti anti-keynesiani
In un articolo per il Washington Post, Matt O’Brien recentemente ha sottolineato che l’Europa sta andando peggio che ai tempi della Grande depressione. Nel frattempo, il presidente francese François Hollande (che con la sua mancanza di spina dorsale e la sua disponibilità a bersi le fandonie rigoriste ha condannato al fallimento la sua presidenza e forse anche il progetto europeo) incomincia finalmente a suggerire, molto timidamente, che forse ancora più austerità non è la risposta giusta.

L’economista di Oxford Simon Wren Lewis è del parere che l’abbraccio entusiasta delle politiche rigoriste nel Vecchio continente sia dovuto a una contingenza storica: in sostanza, la crisi greca ha rafforzato le posizioni degli austeriani in un momento critico. Secondo me la spiegazione non è così semplice. La mia idea è che in Europa esistevano forti sentimenti anti-keynesiani anche prima della crisi greca e che la macroeconomia così come la intendono gli economisti anglosassoni non ha mai avuto davvero cittadinanza nei corridoi del potere europei. Qualunque sia la spiegazione, sta di fatto che ci troviamo di fronte, come sottolinea O’Brien, a una delle più grandi catastrofi della storia economica.