Pd

Un’ombra sul futuro del governo

Un’ombra sul futuro del governo

Federico Geremicca – La Stampa

Alla fine il dado è tratto, il Partito democratico decide di seppellire quasi per intero e quasi per tutti l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e la prima conseguenza è che da ieri quella sorta di pace armata che regnava da mesi all’interno del Pd si è definitivamente tramutata in guerra aperta. Il durissimo intervento svolto davanti alla Direzione da Massimo D’Alema, la gelida distanza dal segretario assunta da Gianni Cuperlo e Pier Luigi Bersani (tutti e tre hanno votato contro la relazione del segretario) ne sono la spia più evidente. «Non è un voto contro il governo», è stato assicurato dagli oppositori di Renzi (la vecchia guardia, come usa dire il premier) ma pochi son disposti a crederlo: a cominciare proprio dal presidente del Consiglio.

Per Renzi si tratta di una vittoria strategicamente rilevantissima, e il risultato così insistentemente cercato è stato alla fine ottenuto: ma i prezzi che rischia di pagare in sede di governo sono, al momento, difficilmente prevedibili. I gruppi dell’opposizione interna si sono divisi all’atto del voto (contrari i «civatiani», spaccati tra no e astensione i bersaniani e i dalemiani) ma è credibile che possano tornare ad unirsi quando la parola passerà ai gruppi parlamentari di Camera e Senato. A Palazzo Madama, come è noto, i numeri sono quelli che sono e assicurano a Renzi una maggioranza assai risicata: a conti fatti – e come temuto e ipotizzato già da giorni – la vita del governo rischia di esser appesa alle decisioni che assumerà Silvio Berlusconi. Sosterrà la riforma del lavoro su cui tanto investe Matteo Renzi? E se decidesse di sì, in cambio di cosa permetterà la sopravvivenza dell’esecutivo?

Non è un bell’affare per il governo del giovane ex sindaco di Firenze, ma tutto lascia pensare che si tratti di un rischio attentamente e a lungo calcolato. Chi può volere, infatti, una crisi di governo e magari elezioni anticipate in tempi brevi? Non Berlusconi, a quel che è dato intuire. E ancor meno le minoranze interne, che rischierebbero di pagare la «sfida» al segretario con una vera e propria decimazione dei propri parlamentari. È per questo che Matteo Renzi non temeva – anche se non la cercava – la prova di forza sull’articolo 18. Ma nei bizantini rituali della politica italiana, non esistono solo rotture clamorose e voti anticipati: esiste anche – praticatissimo – il lento logoramento, rischio per il premier ancor maggiore…

Dunque, la sordina messa ai toni eccessivamente polemici non ha permesso al segretario-presidente di aggirare le obiezioni e le vere e proprie contrarietà delle opposizioni interne. Arrivare in Direzione con aperture capaci di allentare le tensioni, era stato il consiglio fornito a Renzi dal Capo dello Stato durante un colloquio svoltosi in mattinata al Quirinale. Il Presidente della Repubblica, che appena una settimana fa era sceso in campo chiedendo alle forze politiche «coraggio» in materia di riforma del lavoro, aveva infatti chiesto al premier di compiere un ultimo tentativo per recuperare l’unità del partito: Renzi ha obbedito (più nei toni che nella sostanza, in verità) ma lo sforzo – come il voto ha poi dimostrato – non ha prodotto il risultato sperato.

Era del resto impossibile immaginare che la separazione del Pd da uno dei punti cardine della propria azione politica (la tradizionale e secondo alcuni superata «difesa dei diritti» in materia di lavoro) potesse avvenire senza traumi, a maggior ragione in un clima avvelenato da avvertimenti, minacce reciproche e bracci di ferro annunciati e praticati. Per il premier, però, l’abolizione quasi definitiva dell’articolo 18 era ormai diventata qualcosa di più di una semplice riforma, assumendo l’altissimo valore simbolico – in qualche modo come la fine del bicameralismo paritario – della sua capacità di cambiare dalle fondamenta non solo lo Stato ma il suo stesso partito. Il risultato è raggiunto. A quale prezzo lo si capirà nelle prossime settimane…

Il premier va avanti tra scetticismo e “fuoco amico”

Il premier va avanti tra scetticismo e “fuoco amico”

Massimo Franco – Corriere della Sera

Colpisce che due personaggi distanti tra loro come l’ex premier Mario Monti e il segretario della Cgil, Susanna Camusso, esprimano giudizi taglienti su Matteo Renzi e il suo governo; di fatto, accusandolo di avere messo in cantiere un «piano dei mille giorni» pieno di titoli e vuoto di veri contenuti. Ma forse sorprende ancora di più il silenzio col quale il Pd ha accolto queste critiche. Anzi, arriva il «fuoco amico» di Massimo D’Alema. A replicare a Monti, attaccandolo, per paradosso è un’esponente di FI, Mara Carfagna: soprattutto per difendere la memoria politica di Silvio Berlusconi, spodestato nell’autunno del 2011 dall’esecutivo dei tecnici.

Per il resto, la corsa del presidente del Consiglio verso un futuro che continua a raffigurare radioso appare sempre più solitaria; circondata dal sostegno dei fedelissimi ma anche dalle ombre spesse della crisi economica e da quelle, meno vistose, di chi lo aspetta al varco. I sondaggi continuano a darlo stabilmente in sella, e descrivono gli avversari distanziati nettamente. Sta diventando sempre più chiaro, tuttavia, che le speranze di Palazzo Chigi di agganciare un’Europa in ripresa sono destinate a segnare il passo. Renzi ieri ha voluto sottolineare che i problemi sono continentali, non solo italiani.

«Il nostro dato negativo sulla crescita del secondo trimestre, che tanto ha alimentato il dibattito in casa nostra, è identico al dato tedesco: -0,2 per cento. Mal comune mezzo gaudio? Macché. Mal comune doppio danno», riconosce il premier, perché l’Italia è in condizioni ben peggiori. Su questo sfondo, sentirgli dire che «in mille giorni riportiamo il nostro Paese a fare la locomotiva, non l’ultimo vagone» dell’Europa, suona, a dir poco, azzardato. L’accusa di velleitarismo non è ancora esplicita, ma comincia a serpeggiare. D’altronde, ci sarà qualche ragione se una minoranza del Pd finora afona, adesso rialza la testa.

La richiesta al governo è di cancellare dalla Costituzione l’obbligo di pareggio del bilancio; e pazienza se in questo modo il Pd contraddice il suo voto del 2012. È il sintomo di un malessere che cova, represso; e che riaffiora. D’Alema parla di «risultati insoddisfacenti del governo» e ricorda di essere «sempre stato contrario al doppio incarico di segretario Pd-premier»: tema insidioso e tarato su Renzi. Il fatto che il presidente del Consiglio non smetta di ricordare il trionfo del partito alle europee di maggio costituisce una sorta di ammonimento ai suoi critici. Serve a sottolineare un rapporto diretto con l’opinione pubblica che oltrepassa le lealtà degli apparati del partito.

Il problema è capire se la cosiddetta «luna di miele» si perpetua, come sembra dire Palazzo Chigi additando i risultati che sostiene di avere raggiunto o di poter afferrare; o se l’affanno dell’economia ha cominciato a guastarla, rianimando chi finge di appoggiarlo. Il Movimento 5 Stelle martella sulla tesi dell’Italia che affonda, oberata dalle tasse. FI asseconda e incalza il premier. Ma il timore che le cose possano prendere una piega negativa si avverte nelle parole di Pier Ferdinando Casini, dell’Udc, finora suo difensore. Renzi «ha il pallino in mano, glielo abbiamo dato. Ma ora bisogna passare dalle parole ai fatti», avverte: come se quelli rivendicati finora non fossero tali.