pensioni lunghe

Le pensioni lunghe non fanno bene alla salute

Le pensioni lunghe non fanno bene alla salute

di Giuseppe Pennisi

Il libro “A vent’anni da un’occasione mancata?” di Fabrizio e Stefano Patriarca (rispettivamente un figlio e un padre che coltivano il medesimo interesse per le problematiche del lavoro e del welfare) rivela un enorme incremento delle pensioni di anzianità caratterizzate da età di pensionamento attorno ai 57-58 anni per gli anni 2000-2010 (favorite, peraltro, anche dalla liberalizzazione del cumulo tra pensione e reddito) ossia prima che terminasse il periodo di transizione della riforma del 1995. Ne derivano diverse conseguenze: in Italia il tasso di occupazione della popolazione in età compresa tra i 55 e i 64 anni è il più basso di tutti i Paesi considerati e si situa al di sotto sia della media europea che di quella dell’Eurozona; la permanenza media sul mercato del lavoro è ben di cinque anni inferiore alla media europea, di sette anni più bassa di quella della Germania e del Regno Unito e di quasi 10 anni rispetto a quella olandese.

Queste conseguenze non fanno certamente bene alla finanza pubblica. Fanno bene alla salute di chi va in pensione relativamente giovane? Gabriem Heller Sahalgren della London School of Economics ha appena posto on line un paper (Retirement Blues) in cui vengono analizzati gli effetti sulla salute (in particolare quella mentale) in dieci Paesi europei. Lo studio utilizza sia le “età ufficiali” del pensionamento sia il comportamento degli individui rispetto alla possibilità di anticipare l’andare in quiescenza. I risultati mostrano che nel breve termini gli esiti non sono significativi. Nel lungo termine, però, la decisione di lasciare l’occupazione presto sono negativi. Sotto il profilo statistico, il risultato è “robusto” e riguarda sia le donne sia gli uomini quale che sia il loro livello d’istruzione. A conclusioni analoghe sono giunti studi americani, giapponesi e coreani. In sintesi, ritardare l’età della pensione non fà bene solo alle casse degli enti ma anche alla sanità di mente ed alla produttività.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Pennisi: “Che fine hanno fatto i dati su pensioni lunghe e silenti?”

Pennisi: “Che fine hanno fatto i dati su pensioni lunghe e silenti?”

di Giuseppe Pennisi

L’Inps dovrebbe inoltre fare chiarezza su due questioni sulle quali il suo sito non fornisce alcun dato preciso. La prima è quella sul flusso annuale delle ‘pensioni lunghe’ godute da una vastissima platea di uomini e donne che, in virtù di norme speciali, hanno iniziato a riscuotere assegni di anzianità quando non erano nemmeno quarantenni. Quante sono? Si vocifera di più di 80mila casi e quel che è certo è che non si tratta di pensioni correlate ai contributi versati. L’altra questione su cui vige una “congiura del silenzio” è quella – si permetta il gioco di parole – dei ‘silenti’: quanti sono e quanto è il ‘montante’ dei contributi di coloro che hanno effettuato versamenti senza poterne fruire perché non hanno raggiunto il minimo di anni contributivi o perché deceduti o perché emigrati? È in queste voci che si devono cercare risorse, non in quelle su pensioni di reversibilità a vedove ed orfani.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro