pensioni

Guerra di sigle e di generazioni

Guerra di sigle e di generazioni

di Giuseppe Pennisi*

Una nuova sigla entrata da qualche giorno nella galassia degli acronimi giornalistici e nel dibattito di politica previdenziale (e, quindi, di finanza pubblica): APE, ossia Anticipo Pensione. Pochi si sono accorti che nella galassia esiste già un APE, Attestato di Prestazione Energetica, come sanno tutti coloro che vogliono vendere od acquistare un immobile. Prima o poi, la “guerra” delle APE troverà una soluzione, anche in quanto la flessibilità in uscita, con pensionamento anticipato, pare ancora lontana, quanto meno per coloro che non hanno fatto lavori “usuranti” per diversi anni o che non hanno cominciato a lavorare quando erano molto giovani (nel gergo INPS “i precoci”).

Ma è, poi, realmente in atto una guerra tra vecchi e giovani, ammesso che ci sia piena sostituibilità tra lavoratori più o meno anziani sul posto di lavoro? Non sembra che ci sia. Una quindicina di anni fa, su istanza di associazioni di senior citizen, la Corte Suprema americana ha sentenziato che stabilire un’età legale di pensionamento (allora in numerose aziende USA era a 67 anni) è un’incostituzionale discriminazione contro gli anziani; da allora frotte di americani restano al lavoro quanto vogliono e quanto possono.

Non sono i soli. In questa rubrica abbiamo già ricordato come analisi internazionali dimostrino che andare troppo presto in pensione causa disturbi mentali che spesso accorciano la vita. Un team di economisti delle Università di Londra e di Amburgo (Gabriel H. Ahfelt, Wolfang Maenning, e Malte Steenbeck) ha appena pubblicato un lavoro (Après Nous Le Déluge? Direct Democracy and Intergenerational Conflict in Aeging Societies CESiffo Working Paper Series No. 5779) in cui con un’analisi quantitative in base a procedure quali quelle promosse nel volume del Centro Studi Impresa Lavoro La Buona Spesa – Dalle Opere Pubbliche alla Spending Review – Una Guida Operativa analizza un caso specifico: il maggior progetto infrastrutturale di oggi, i cui costi gravano su questa generazione di tedeschi a benefico delle future. La conclusione è che i conflitti intergenerazionali derivanti dall’invecchiamento della popolazione sono limitati ad un limitato numero di casi in cui il valore attuale netto varia molto significativamente tra classi di età. La proposta è quella di utilizzare in questi casi non lo strumento referendario ma l’analisi costi-benefici economica.

Tornando alle pensioni, di grande interesse di lavoro di Riccardo Calcagno, Flavia Coda Moscarola, Elsa Fornero pubblicato il 27 aprile come Cerp Working Paper 161/16. Eloquente il titolo “Too busy to stay at work. How willing are Italian workers “to pay” to anticipate their retirement?” (‘Troppo occupati per restare al lavoro: quanti italiani sono disposti a ‘pagare’ per anticipare la loro pensione?’). È un’analisi statistica su un campione di lavoratori italiani di almeno 55 anni e la loro ‘disponibilità a pagare’ per anticipare di un anno il pensionamento. La preferenza per una pensione anticipata (ovviamente ridotta) è marcata per le donne e per i lavoratori immediatamente colpiti dalla riforma del 2011 (quali i così detti ‘esodati’). Le donne che curano figli e nipoti, o genitori anziani, sono pronte a pagare anche un prezzo elevato per andare prima in pensione. Ciò indica che il sistema previdenziale può causare “effetti collaterali” se non accompagnato da altre misure di politica sociale, quali quelle per la cura dei congiunti.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Pensioni, c’è un effetto livella

Pensioni, c’è un effetto livella

Paolo Ermano – Italia Oggi*

Sembra quasi un risultato inaspettato, ma il sistema pensionistico disegnato dalle recenti riforme, in particolare quelle dell’ultimo governo Berlusconi e della Legge Fornero, hanno di fatto reso le pensioni, più o meno volutamente, uno strumento di riduzione delle diseguaglianze. Contrariamente a quanto altri hanno evidenziato, e un po’ al senso comune, le recenti modifiche normative hanno infatti reso la popolazione dei pensionati più omogenea dal punto di vista del reddito. Sia ben chiaro: una popolazione che si trova in una situazione di maggior equità non è necessariamente una popolazione che vede il proprio benessere aumentare. Di fatto, però, il recente aumento dell’assegno medio per le pensioni di anzianità e vecchiaia, unito alla diminuzione dell’Indice di Gini, descrive una situazione di maggior benessere sia per il singolo pensionato, sia per la popolazione dei pensionati.

Il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato il database della Banca d’Italia sulle indagini sui bilanci delle famiglie italiane dal 1977 al 2014. Grazie a questa serie di dati, è possibile indagare per ogni anno il confronto fra l’Indice di Gini relativo al reddito disponibile netto e il reddito da pensione (vecchiaia, anzianità e reversibilità), dividendo il campione anche per sesso e ripartizione geografica. Il valore dell’Indice di Gini misurato sul reddito delle due popolazioni, lavoratori e pensionati, evidenzia un percorso che dal 1977 al 2014 vede la popolazione dei pensionati ridurre il grado di diseguaglianza interna, passando da un valore di 0,40 a 0,30, contrariamente a quanto accade all’altra popolazione, quella dei lavoratori, per i quali l’indice cresce lievemente da 0,34 a 0,37. Il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, iniziato con la riforma Dini del 1995, non sembra aver modificato sigificativamente la distribuzione dei redditi dei pensionati: dal 1995 a oggi l’Indice di Gini non segnala particolari movimenti, se non dopo 2010. Stando ai dati sulla spesa pensionistica forniti dall’Istat, dal 2010 l’importo medio annuo degli assegni di vecchiaia è cresciuto (2011-2013: +3%) per effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile, riducendo così le differenze fra le pensioni più modeste e quelle più elevate. 

Questa progressione dell’importo versato ai pensionati può essere un indizio per giustificare una riduzione dell’ineguaglianza in questa popolazione. Se questo andamento continuerà, l’effetto redistributivo del passaggio dall’essere lavoratore all’essere pensionato sarà maggiore. Inoltre, da questo punto di vista, il passaggio dal contributivo al retributivo non sembra aver influenzato particolarmente la distribuzione del reddito fra i pensionati. Nel dettaglio dell’indice suddiviso per sesso troviamo una sostanziale parità di genere. L’Indice di Gini, invariante per trasformazioni omogenee, non permette di evidenziare la differenza di importo fra uomo e donna: per quanto l’indice di diseguaglianza abbia valori molto simili fra i due sessi è il caso di ricordare che nel 2013 l’assegno di vecchiaia per le donne era pari in media al 60% dell’assegno per gli uomini, segnalando un’evidente disparità nei redditi percepiti.

Per valutare eventuali differenze territoriali è stato possibile computare l’Indice di Gini per tre specifiche aree, seguendo la divisione usuale per l`Italia come previsto nel database originale: Nord, Centro e Sud+Isole. Per quanto l’evoluzione dell’indice nelle tre aree sia simile, come ci si aspetterebbe da un sistema pubblico che cerca di smorzare le differenze fra diverse aree economiche, appare chiaro che delle differenze esistono. Stranamente, il Sud e il Nord sembrano muoversi in parallelo fino a metà anni ’90, quando il Nord ottiene un grado di equità fra i pensionati più elevato, come confermano anche diversi studi che analizzano l’intera popolazione nazionale.

Molto più erratico sembra il comportamento dei pensionati residenti in centro Italia, che sembra muoversi in senso opposto rispetto alle altre aree del Paese. Entrando nel dettaglio degli ultimi 20 anni, osserviamo come fosse il Nord l’area con il minor grado di diseguaglianza. Non sembra esserci alcun congruenza fra l’andamento dell’Indice di Gini per aree geografiche fino al 2010, quando tutte e tre le aree vedono sia una discesa dell’indice, segno di maggior eguaglianza, sia una convergenza verso un medesimo valore, 0,30. E sembra proprio questo, dal punto di vista dell’equità, la cifra più importante delle riforme del sistema pensionistico nell’ultimo anno.

*Docente di Economia internazionale al’Università di Udine e ricercatore del Centro studi ImpresaLavoro

Leggi l’articolo di Italia Oggi in formato pdf

Pensioni, Furlan (Cisl): “Dopo 41 anni di lavoro si deve poter andare in pensione”

Pensioni, Furlan (Cisl): “Dopo 41 anni di lavoro si deve poter andare in pensione”

Annamaria Furlan*

“Dopo 41 anni di lavoro si deve poter scegliere di andare in pensione. Bisogna creare queste condizioni. Questa è la nostra proposta. Quella del sottosegretario Nannicini è stata l’ennesima proposta autorevole che abbiamo letto sui giornali: ce ne sono state anche altre in questi mesi. Ma quello che manca è una proposta ufficiale del Governo che tenga conto di un aspetto importante: non si può lavorare in alcuni settori oltre i 65-67 anni. Il tema della flessibilità in uscita è un tema delicato e molto sensibile per le persone. Proprio oggi si celebra la giornata mondiale sulla salute e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Bisogna tenere conto che la mortalità e gli infortuni avvengono spesso nei settori come l’edilizia dove lavorare a 65-67 anni è davvero rischioso”.

“In Italia aumenta purtroppo l’area della povertà e questo ha prodotto il fenomeno grave che le persone si curano di meno. Ecco perché bisogna affrontare anche il tema della sanità con grande determinazione. In Italia abbiamo indubbiamente un sistema sanitario di alta qualità ma la nostra è una sanità a due velocità. Nel Sud c’è una mortalità infantile più alta che arriva secondo alcuni dati al 39% rispetto al Nord. Un dato allarmante che deve farci riflettere. Il compito delle istituzioni deve essere quello di garantire il diritto alla salute per tutti. Purtroppo nella sanità ci sono troppi sprechi e anche corruzione. Le risorse per fare la flessibilità in uscita sulle pensioni le potremo trovare nel combattere fino in fondo tutto questo, investendo in una migliore qualità del lavoro e soprattutto dei servizi”.

 

*Segretario generale della Cisl
Pensioni, Barbagallo (Uil): “Intervenire sulla flessibilità”

Pensioni, Barbagallo (Uil): “Intervenire sulla flessibilità”

Carmelo Barbagallo*

“Una delle cause degli incidenti sul lavoro è l’avanzare dell’età: questa è un’altra delle ragioni per cui occorre rendere flessibile l’accesso alla pensione. Gli effetti della legge Fornero, peraltro, incidono negativamente anche sui lavori usuranti ed ecco perché, su questo aspetto, occorre intervenire con urgenza”.

“Qualcuno dice che quel provvedimento ha salvato l’Italia: sarà, ma di certo non ha salvato gli italiani e in particolare i lavoratori, i giovani e i pensionati. Hanno fatto cassa sulle loro spalle. Noi pensavamo che avessero sottratto a pensionati e pensionandi 80 miliardi sino al 2020, ma dalle dichiarazioni della Corte dei Conti ricaviamo che si tratta, addirittura, di 30 miliardi l’anno. Ora, dicono che per introdurre la flessibilità in uscita servirebbero dai 5 ai 7 miliardi: ne resterebbero ancora dai 23 ai 25. E comunque, che fine hanno fatto tutti questi soldi se, nel frattempo, spesa pubblica e debito pubblico aumentano?”

*Segretario generale della Uil

Pensioni, Polverini (Fi): “Il governo non dà certezze”

Pensioni, Polverini (Fi): “Il governo non dà certezze”

Renata Polverini*

“L’incertezza sulle pensioni molto spesso è provocata dalle dichiarazioni estemporanee del presidente dell’Inps Boeri, che farebbe bene invece ad occuparsi del funzionamento del suo istituto. Veniamo da tre anni di grande difficoltà: non ci dimentichiamo degli esodati, dei quota 96 e della grande questione che riguarda le donne che avevano nella loro disponibilità una normativa che arrivava dal Governo Berlusconi, ma che a causa di questo esecutivo non hanno potuto accedere alla pensione”.

“In commissione lavoro alla Camera, opposizione e maggioranza, lavorano unite per tentare di dare una certezza rispetto all’uscita dal lavoro e l’accesso alla pensione. Sono state anche incardinate diverse proposte di legge tra cui quella di Damiano e su questo abbiamo qualche timida apertura da parte del governo. Sulle pensioni integrative già la riforma Maroni sottolineava che non era possibile vivere con la sola pensione pubblica ed infatti erano state messe in campo misure fiscali per incentivare le giovani generazioni. Ma il governo attuale ha fatto marcia indietro”

* Deputato di Forza Italia, Vicepresidente della Commissione Lavoro

Le riforme delle pensioni? Hanno ridotto la diseguaglianza

Le riforme delle pensioni? Hanno ridotto la diseguaglianza

di Paolo Ermano*

Analizzando i dati della Banca d’Italia sulle Indagini sui Bilanci delle Famiglie Italiane dal 1977 al 2014 è stato possibile computare l’indice di Gini per la popolazione dei pensionati (vecchiaia, anzianità e reversibilità) e confrontarla con quello della popolazione dei lavoratori. Lo scopo della ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro è quello di far emergere l’impatto del sistema pensionistico pubblico che sembra sempre più capace, grazie alle recenti riforme, di livellare le differenze di reddito all’interno della popolazione dei pensionati rispetto ai lavoratori. Contrariamente a quanto altri hanno evidenziato, e un po’ al senso comune, le recenti modifiche normative hanno reso la popolazione dei pensionati più omogenea dal punto di vista reddituale.

L’indagine

La presenza di un sistema pubblico che gestisce le pensioni di anzianità e vecchiaia rende la società più o meno diseguale? La domanda ha finora trovato poche risposte. L’anno scorso il Sole 24 Ore ha provato a misurare l’indice di concentrazione di Gini [1], la più nota misura della diseguaglianza economia, per il 2013 evidenziando come la popolazione di pensionati fosse caratterizzata da maggior diseguaglianza rispetto alla popolazione dei lavoratori. Purtroppo l’assenza di dettagli più precisi sulle modalità di calcolo utilizzate non ci ha permesso di comprendere come sia stato calcolato l’Indice di Gini da parte degli autori della ricerca pubblicata [2]. L’Istat e Banca d’Italia pubblicano studi che tengono conto dell’andamento dell’indice, non suddividendo però la popolazione indagata in sotto campioni [3].

Eppure il tema è importante per almeno tre ragioni. Innanzitutto, in Italia la spesa pubblica per le pensioni ammonta a circa €250 miliardi, di cui circa €180 miliardi sono spesi per le pensioni di anzianità, e ci si aspetterebbe che tanto denaro gestito dallo Stato sia indirizzato, fra i diversi obiettivi, anche a ridurre le diseguaglianza. Perché, se così non fosse, la gestione pubblica del sistema avrebbe una ragione in meno di esistere.

Secondo, con l’introduzione, avvenuta con la riforma Dini, del sistema contributivo nel nostro ordinamento, si sviluppa una difformità di trattamento generazionale fra vecchi e nuovi pensionati che durerà decenni, diversità che colpisce la sostanza dell’assegno pensionistico e che quindi modifica la distribuzione dei redditi della popolazione dei pensionati.

Terzo, le recenti modifiche della normativa sull’accesso alle pensioni di anzianità e vecchiaia potrebbero aver impattato sulla distribuzione dei redditi dei pensionati e conoscerne l’impatto è uno dei criteri per valutarne l’efficacia [4].

Per rispondere a questi interrogativi, il Centro Studi ImpresaLavoro ha analizzato il database della Banca d’Italia sulle Indagini sui Bilanci delle Famiglie Italiane dal 1977 al 2014. Grazie a questa preziosa e puntuale serie di dati, è possibile indagare per ogni anno il confronto fra l’Indice di Gini relativo al reddito disponibile netto e il reddito da pensione (vecchiaia, anzianità e reversibilità), dividendo il campione anche per sesso e ripartizione geografica [5].

Risultati

Dal grafico 1 possiamo già dare una parziale risposta ai quesiti appena avanzati.

Come si può osservare, il valore dell’indice di Gini misurato sul reddito delle due popolazioni, lavoratori e pensionati, evidenzia un percorso che dal 1977 al 2014 vede la popolazione dei pensionati ridurre il grado di diseguaglianza interna, passando da un valore di 0,40 a 0,30, contrariamente a quanto accade all’altra popolazione, quella dei lavoratori, per i quali l’indice cresce lievemente da 0,34 a 0,37.

Grafico 1Ermano01

Da questa indicazione possiamo affermare che negli ultimi venti anni il sistema pensionistico relativo alla vecchiaia, anzianità e reversibilità, si è rivelato capace di ridurre la diseguaglianza della popolazione interessata in maniera significativa rispetto ai lavoratori.

Il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, iniziato con la riforma Dini del 1995, non sembra aver modificato significativamente la distribuzione dei redditi dei pensionati. Come si può osservare dal grafico 2, dal 1995 a oggi l’indice di Gini non segnala particolari movimenti, se non dopo 2010.

Grafico 2
Ermano02

Stando ai dati sulla spesa pensionistica forniti dall’Istat, dal 2010 l’importo medio annuo degli assegni di vecchiaia è cresciuto (2011-2013: +3%) per effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile, riducendo così le differenze fra le pensioni più modeste e quelle più elevate. Questa progressione dell’importo versato ai pensionati può essere un indizio per giustificare una riduzione dell’ineguaglianza in questa popolazione.

Se questo andamento continuerà, e se la spiegazione qui avanzata si rivelerà corretta, l’effetto redistributivo del passaggio dall’essere lavoratore all’essere pensionato sarà maggiore. Inoltre, da questo punto di vista, il passaggio dal contributivo al retributivo non sembra aver influenzato particolarmente la distribuzione del reddito fra i pensionati. Se andiamo ad analizzare nel dettaglio l’indice suddiviso per sesso (grafico 3) troviamo una sostanziale parità di genere.

Grafico 3
Ermano03

L’indice di Gini, invariante per trasformazioni omogenee, non permette di evidenziare la differenza di importo fra uomo e donna: per quanto l’indice di diseguaglianza abbia valori molto simili fra i due sessi è il caso di ricordare che nel 2013 l’assegno di vecchiaia per le donne era pari in media al 60% dell’assegno per gli uomini, segnalando un’evidente disparità nei redditi percepiti.

Per valutare eventuali differenze territoriali è stato possibile computare l’indice di Gini per tre specifiche aree, seguendo la divisione usuale per l’Italia come previsto nel database originale: Nord, Centro e Sud+Isole. I risultati, come rappresentati nei prossimi due grafici (4 e 5), presentano l’andamento dell’indice di Gini dal 1977 al 2014 per i pensionati divisi per ripartizione geografica.

Per quanto l’evoluzione dell’indice nelle tre aree sia simile, come ci si aspetterebbe da un sistema pubblico che cerca di smorzare le differenze fra diverse aree economiche, appare chiaro che delle differenze esistono. Stranamente, il Sud e il Nord sembrano muoversi in parallelo fino a metà anni ’90, quando il Nord ottiene un grado di equità fra i pensionati più elevato, come confermano anche diversi studi che analizzano l’intera popolazione nazionale. Molto più erratico sembra il comportamento dei pensionati residenti in centro Italia, che sembra muoversi in senso opposto rispetto alle altre aree del Paese.

Grafico 4
Ermano04

 

Entrando nel dettaglio degli ultimi 20 anni, osserviamo come fosse il Nord l’area con il minor grado di diseguaglianza. Non sembra esserci alcun congruenza fra l’andamento dell’indice di Gini per aree geografiche fino al 2010, quando tutte e tre le aree vedono sia una discesa dell’indice, segno di maggior eguaglianza, sia una convergenza verso un medesimo valore, 0,30.

Grafico 5
Ermano05Sembra questo, dal punto di vista dell’equità, la cifra più importante delle riforme del sistema pensionistico nell’ultimo anno.

Commento

Sembra quasi un risultato inaspettato, ma il sistema pensionistico disegnato dalle recenti riforme, in particolare quelle dell’ultimo Governo Berlusconi e della Legge Fornero, hanno di fatto restituito, più o meno volutamente, alle pensioni una dimensione fondamentale per dar valore alla natura pubblica del sistema di ripartizione: quella di esser strumento di riduzione delle diseguaglianze.

Sia ben chiaro: una popolazione che dal punto di vista del reddito percepito grazie al sistema pensionistico si trova in una situazione di maggior equità non è necessariamente una popolazione che vede il proprio benessere aumentare. Di fatto, il recente aumento dell’assegno medio per le pensioni di anzianità e vecchiaia, unito alla diminuzione dell’indice di Gini, come qui evidenziato, descrive un situazione di maggior benessere sia per il singolo pensionato, che si trova ad avere un assegno più pesante rispetto al passato, sia per la popolazione dei pensionati, più omogenea dal punto di vista reddituale rispetto al passato.

Note: 

[1] Misura tra le più utilizzare per analizzare la concentrazione di una variabile (es.: reddito ricchezza) all’interno di una popolazione. L’indice assume valori tra lo 0, in corrispondenza di una equa ripartizione delle risorse disponibili fra tutti gli individui, e l’1 quando un solo individuo ottiene tutte le risorse disponibile;

[2] “Con la pensione la diseguaglianza cresce”, Sole24Ore, 29/4/2015 pp.21;

[3] Si veda: “Reddito e condizioni di vita”, Istat, vari anni; “Indagini sui bilanci delle famiglie italiane”, Banca d’Italia, vari anni;

[4] Già ci siamo occupati degli impatti sulla sostenibilità economica di queste manovre. Vedi: “Troppo ottimismo sul futuro delle pensioni”, Panorama, 27 novembre 2015;

[5] Specificatamente, l’Indice di Gini è stato calcolato sul campione presente nel database della Banca d’Italia “Indagini sui Bilanci delle Famiglie Italiane 1977-2014”. Abbiamo computato l’indice per il Reddito disponibile netto (escluso da capitale finanziario) e per il Reddito da Pensione (Tipo 1: vecchiaia o anzianità; Tipo 3: reversibilità);

Riforma pensioni: cosa c’è in cantiere

Riforma pensioni: cosa c’è in cantiere

di Giuseppe Pennisi*

Come preconizzato sin dall’aprile scorso dal Centro Studi Impresa Lavoro in una tavola rotonda organizzata presso il CNEL, il Governo ha riaperto il cantiere sulle pensioni. L’Esecutivo sta pensando ad un mix di interventi da includere in settembre nel prossimo disegno di legge di stabilità per rendere più flessibile l’accesso alla pensione. Al centro resta l’ipotesi di una pensione a partire dai 62/63 anni con una penalità tra il 2 % ed il 3% per ogni anno di anticipo dell’uscita rispetto all’età della pensione di vecchiaia, cioè 66 anni e 7 mesi. Resta da comprendere il destino dei lavoratori precoci cioè coloro che vantano una lunga carriera contributiva: questi lavoratori chiedono un tetto a 41 anni di contributi per la pensione anticipata senza alcuna penalità sull’assegno.

Per i disoccupati il governo starebbe poi vagliando la possibilità di ritoccare la riforma degli ammortizzatori sociali, varata nel 2015 con l’obiettivo di prolungare di uno o due anni la copertura garantita oggi dalla Naspi, che dura al massimo 2 anni, per “accompagnare”, con una contribuzione figurativa, questi lavoratori alla pensione. Ciò consentirebbe di dare una risposta al superamento, dal 1° gennaio 2017, dell’indennità di mobilità e al gran numero di lavoratori disoccupati senior cioè con età superiori a 60 anni senza occupazione e senza più alcun sostegno al reddito.

Accanto a queste misure ci sarebbe un terzo canale di anticipo del pensionamento per i lavoratori coinvolti in processi di ristrutturazioni aziendali o per svecchiare la forza lavoro i cui oneri sarebbero, questa volta, posti a carico prevalentemente delle imprese con il coinvolgimento eventuale delle banche. Molte però le altre opzioni sul tavolo, compresa una revisione della normativa per i lavori usuranti, modifiche fiscali alla previdenza  complementare per rendere più appetibile il ricorso all’assegno integrativo e, in particolare, sull’utilizzo del TFR che potrebbe essere destinato ad arricchire l’importo dell’assegno erogati proprio dai fondi complementari.

In questo contesto, due lavori analitici recenti possono essere utili alle riflessioni di Governo e Parlamento. Il primo è un duro attacco ai sistemi previdenziali su base retributiva ed a perimetri troppo ampi della spesa pubblica. Ne è autore Daniel Smyth del Johnson Center della Troj University ed è intitolato Breaking Bad: Public Pensions and the Loss of that Old-Time Fiscal Religion. La prima parte del lavoro non riguarda direttamente la previdenza ma l’economia keynesiana e la “tendenza ad accumulare debito pubblico ed a promuove sistemi previdenziali non sostenibili”.  La seconda riguarda la poca trasparenza e le fuorvianti ipotesi attuariali dei sistemi previdenziali a benefici definiti “che hanno stimolato i legislatori a porre i costi delle pensioni sui contribuenti del futuro”. “Far transitare (come ha fatto l’Italia) le pensioni pubbliche da sistemi retributivi a sistemi contributivi può essere un passo verso la riduzione della sfera pubblica”.

Il secondo è un lavoro di tre docenti dell’Università di Padova: Marco Bertoni, Giorgio Brunello e Gianluca Mazzarella. Lo ha pubblicato il principale istituto Tedesco di economia del lavoro, l’IZA come Discussion Paper No. 9834. Il documento rafforza la tesi presentata il 5 aprile in questa rubrica sulla base di uno studio comparato della London School of Economics: ritardare, entro certi limiti, l’età della pensione, fa bene alla salute. Il lavoro analizza i cambiamenti dell’età minima per andare in pensione introdotti in Italia nel decennio 1990 -2000 e dimostra che gli italiani di genere maschile tra i 40 ed i 39 anni hanno risposto aumentando le attività fisiche, riducendo il fumo ed il consumo di alcolici ed adottando diete più salubri.

*Presidente del board scientifico del Centro Studi ImpresaLavoro

La morsa del fisco che penalizza le pensioni dei giovani

La morsa del fisco che penalizza le pensioni dei giovani

Andrea Giacobino – Avvenire

Si aprirà il prossimo 5 aprile a Milano il “Salone del risparmio”, un’importante manifestazione organizzata da Assogestioni, che raggruppa per tre giorni nello spazio fieristico del Mico tutti i principali attori del mondo degli investimenti, a cominciare dai fondi comuni. Il “Salone” è diventato in questi anni un vero e proprio punto di riferimento anche per gli interlocutori della politica e così non stupisce che il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan sia ospite della conferenza inaugurale intitolata «Risparmio al centro. Demografia, liquidità, sviluppo» mentre il viceministro Enrico Zanetti tirerà le fila di un dibattito sul futuro della previdenza. L’hashtag scelto per simboleggiare lo spirito del Salone è #risparmioalcentro. Ma c’è da chiedersi se davvero il risparmio degli italiani sia al centro delle scelte della politica.

Dal 2011 allo scorso anno le tasse sul risparmio hanno registrato un incremento progressivo del 130%, pari a 9 miliardi di euro. A tanto, infatti, ammonta l’aumento del prelievo complessivo dello Stato sulle attività finanziarie, passato da 6,9 miliardi nel 2011 ai 15,9 del 2015, stando a una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro basata su dati e indici Banca d’Italia, Abi, Mef e Fideuram. Tale cifra si deve per 4,7 miliardi all’aumento delle aliquote sui rendimenti, per 4 miliardi all’introduzione dell’imposta di bollo proporzionale e per solo 0,3 miliardi alla Tobin Tax.

Lo studio rileva come, secondo i più recenti dati di Bankitalia, il totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie supera i 3.800 miliardi di euro. Su questa massa di attivi si è registrato, a partire dalla fine del 2011, un «progressivo e repentino inasprimento fiscale». Questo incremento nella tassazione del risparmio appare vertiginoso anche in considerazione del drastico calo della redditività dei titoli di Stato e dei depositi bancari. A inasprire la situazione dall’inizio del 2015 è entrato in vigore un “giro di vite fiscale” anche sulla rivalutazione di fondi pensione, casse previdenziali, e Tfr. Lo studio mostra che l’incremento delle aliquote sui fondi pensione al 20% ridurrà il montante contributivo atteso dei giovani lavoratori di una percentuale compresa tra il 5% e l’8,6%.

In tale contesto il futuro della previdenza italiana è tutto in salita. E bene fa il Salone a mettere al centro dell’attenzione i Pepp, acronimo scelto dalla Commissione Europea per i Pan european personal pensions, piani di pensione individuali pan-europei che dovrebbero introdurre nei paesi dell’Unione quel “terzo pilastro” previdenziale volto a coprire il gap che ancora caratterizza molte nazioni. Ma a questi prodotti, per decollare davvero, serviranno benefici fiscali: e anche questo tocca è responsabilità della politica.

Le pensioni lunghe non fanno bene alla salute

Le pensioni lunghe non fanno bene alla salute

di Giuseppe Pennisi

Il libro “A vent’anni da un’occasione mancata?” di Fabrizio e Stefano Patriarca (rispettivamente un figlio e un padre che coltivano il medesimo interesse per le problematiche del lavoro e del welfare) rivela un enorme incremento delle pensioni di anzianità caratterizzate da età di pensionamento attorno ai 57-58 anni per gli anni 2000-2010 (favorite, peraltro, anche dalla liberalizzazione del cumulo tra pensione e reddito) ossia prima che terminasse il periodo di transizione della riforma del 1995. Ne derivano diverse conseguenze: in Italia il tasso di occupazione della popolazione in età compresa tra i 55 e i 64 anni è il più basso di tutti i Paesi considerati e si situa al di sotto sia della media europea che di quella dell’Eurozona; la permanenza media sul mercato del lavoro è ben di cinque anni inferiore alla media europea, di sette anni più bassa di quella della Germania e del Regno Unito e di quasi 10 anni rispetto a quella olandese.

Queste conseguenze non fanno certamente bene alla finanza pubblica. Fanno bene alla salute di chi va in pensione relativamente giovane? Gabriem Heller Sahalgren della London School of Economics ha appena posto on line un paper (Retirement Blues) in cui vengono analizzati gli effetti sulla salute (in particolare quella mentale) in dieci Paesi europei. Lo studio utilizza sia le “età ufficiali” del pensionamento sia il comportamento degli individui rispetto alla possibilità di anticipare l’andare in quiescenza. I risultati mostrano che nel breve termini gli esiti non sono significativi. Nel lungo termine, però, la decisione di lasciare l’occupazione presto sono negativi. Sotto il profilo statistico, il risultato è “robusto” e riguarda sia le donne sia gli uomini quale che sia il loro livello d’istruzione. A conclusioni analoghe sono giunti studi americani, giapponesi e coreani. In sintesi, ritardare l’età della pensione non fà bene solo alle casse degli enti ma anche alla sanità di mente ed alla produttività.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Inps, sui conti pesano i crediti non riscossi

Inps, sui conti pesano i crediti non riscossi

Raffaella Cantone – L’Occidentale

Brutte notizie per INPS. Secondo uno studio di ImpresaLavoro, la perdita di bilancio di INPS dal 2012 ammonterebbe a oltre 11 miliardi l’anno, da quando cioè l’istituto ha incorporato l’Enpals e Inpdap, perdita che secondo le stime dovrebbe registrarsi anche al termine del 2016. Il patrimonio netto di INPS, che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro, si sta quindi erodendo progressivamente, compresi i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite fatto negli anni scorsi.

Secondo il Centro studi ImpresaLavoro, a fine 2016 i conti dell’Istituto potrebbero essere ancora peggiori: negli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e, sempre secondo gli esperti di ImpresaLavoro, in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, comportando quindi un nuovo intervento di ripiano da parte dello Stato. Un costo che INPS continuerebbe a sottostimare è quello della svalutazione dei crediti, quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa.

Non si tratta solo di evasione, ma anche di debitori falliti o liquidati oppure deceduti senza eredi, o ancora crediti caduti in prescrizione o per i quali ne viene accertata l’insussistenza. La massa dei contributi non incassati, secondo le stime, dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei 100 miliardi, crescendo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese. Al momento i crediti non incassati corrisponderebbero a 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione. Due i parametri su cui si calcolano questi crediti, l’anno di riferimento e la gestione specifica a cui si riferisce.

ImpresaLavoro ha scoperto che proprio negli ultimi bilanci questi criteri sono stati rivisti al ribasso. Quelli risalenti fino al 2009, vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici. Per il triennio successivo la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

Secondo ImpresaLavoro le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

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