pensioni

Le pensioni dei lavoratori con versamenti discontinui

Le pensioni dei lavoratori con versamenti discontinui

PAPER

a cura di Giuseppe Guttadauro
esperto previdenziale e fondatore del portale www.infoprevidenza.it

Il sistema di calcolo contributivo e quello retributivo
Il tema delle pensioni ritorna sempre alla ribalta dei media e del dibattito politico. Un tema “caldo” che interessa il futuro di tutti e sul quale l’informazione è sempre stata poco chiara e vaga.
Parliamo di pensioni INPS, un mondo che riguarda più di 24 milioni di lavoratori e, nello specifico, del sistema di calcolo delle pensioni per cercare di fare chiarezza su una convinzione molto diffusa: il sistema di calcolo contributivo è penalizzante rispetto a quello retributivo.
Vediamo, prima di tutto, di fare un po’ d’ordine analizzando i due sistemi: a chi sono rivolti e la loro storia.
Il sistema retributivo si applica a coloro che alla data del 31 dicembre 1995 erano già titolari di una posizione lavorativa e per un periodo che varia in funzione degli anni di contribuzione maturati:
● almeno 18 anni, la quota di pensione retributiva è calcolata sino al 31 dicembre 2011. Inizialmente questi lavoratori andavano in pensione con un calcolo esclusivamente retributivo; la riforma Fornero ha, invece, introdotto anche per loro il sistema contributivo a partire dal 1° gennaio 2012;
● meno di 18 anni, la quota di pensione retributiva è calcolata sino al 31 dicembre 1995; agli anni maturati dal 1° gennaio 1996 al momento della pensione viene applicato il sistema contributivo.
Il sistema contributivo si applica interamente, invece, a tutti coloro che non avevano maturato una posizione lavorativa al 31 dicembre 1995. È stato introdotto dalla riforma Dini e calcola l’importo dell’assegno non più sulla media delle retribuzioni bensì su quanto versato a titolo di contribuzione durante la vita lavorativa. Un sistema di calcolo sicuramente più giusto dove la pensione è determinata da quanto versato.
I due sistemi a confronto
Mettendo a confronto i due sistemi scopriamo che non è vero, poi, che tutti i vantaggi stiano nel retributivo e tutti gli svantaggi nel contributivo. Nel primo sistema, infatti, i lavoratori effettuano i versamenti sull’intera retribuzione percepita, ma il rendimento è pari al 2% per ogni anno d’attività fino a 45 mila euro di stipendio. Per le quote di retribuzione eccedenti tale importo, invece, l’aliquota è decrescente. Nel retributivo, inoltre, la pensione è sottoposta ad un tetto contributivo massimo pari a 40 anni. Quelli lavorati in più subiscono il prelievo previdenziale sulla retribuzione, ma “non fanno” anzianità contributiva. Ecco il motivo per il quale la percentuale massima di pensione sull’ultima retribuzione può arrivare all’80% (40 anni per il 2%). Nel regime contributivo invece contano solo i contributi versati: chi ha lavorato più a lungo percepisce una pensione migliore per due motivi:
1. ha accumulato un montante contributivo più elevato;
2. usufruisce di un “coefficiente di trasformazione” più alto in relazione dell’età del pensionamento.
I lavoratori con retribuzioni maggiori, inoltre, versano i contributi soltanto su di un “massimale” che attualmente è di circa 100.000,00 euro l’anno (oltre tale importo non sono previste ritenute e, ovviamente, le quote ulteriori non sono considerate come retribuzione pensionabile).
Perché il sistema di calcolo contributivo non è sempre così negativo
Proviamo ad analizzare i due sistemi di calcolo con alcuni esempi numerici, prima su di un lavoratore dipendente e poi su un lavoratore autonomo.
Lavoratore dipendente
È assicurato presso il Fondo Gestione Lavoratori Dipendenti (FPLD) e ha un’aliquota contributiva pari al 33% della RAL (retribuzione annua lorda) di cui il 23,81% a carico del datore di lavoro e il 9,19% a carico del lavoratore.
Analizziamo quindi il caso di due lavoratori dipendenti che maturano il diritto alla pensione entrambi a 66 anni di età e dopo 40 di contribuzione. Ipotizziamo che il primo si trovi in un regime di calcolo esclusivamente retributivo (cosa non più possibile dopo la riforma Fornero ma nel nostro esempio serve come “estremizzazione” comparativa) e il secondo in un regime interamente contributivo e supponiamo che l’ultima retribuzione annua lorda percepita sia stata di 30.000,00 per entrambi.
Per un’analisi comparativa equa (ma anche più semplice) consideriamo che i 30.000,00 euro corrispondano, in termini di potere d’acquisto, alla retribuzione media reale annua (1) percepita nel corso dei 40 anni di lavoro.
Procediamo adesso con il calcolo delle due pensioni.
► Nel sistema retributivo l’importo della pensione è determinato dalla media delle ultime 10 retribuzioni annue (nel nostro caso pari sempre a 30.000,00 euro) a cui si applica un 2% per ciascun anno di anzianità contributiva . Abbiamo, quindi, un 2% x 40 anni x 30.000,00 corrispondente a un importo di pensione di 24.000,00 euro annui.
► Nel sistema contributivo l’importo della pensione è determinato dai contributi versati durante l’attività lavorativa a cui si deve applicare un coefficiente di conversione in funzione dell’età pensionabile. E’ necessario quindi calcolare prima il montante contributivo accumulato. Sapendo che l’aliquota contributiva del dipendente è del 33%, in 40 anni di lavoro il totale complessivo dei contributi versati sarà pari a 396.000,00 euro (33% x 30.000,00 x 40 anni). Il coefficiente di trasformazione relativo al 66° anno di età è il 5,624% e, di conseguenza, l’importo della pensione annua corrisponde a 22.271,04 euro.
Una differenza di 1.728,96 euro a favore del sistema retributivo, pari a poco meno dell’8%.
Lavoratore autonomo
È assicurato presso le Gestioni dei lavoratori autonomi (Commercianti e Artigiani) e ha un’aliquota contributiva che, a regime nel 2019, sarà del 24% interamente a proprio carico.
Procediamo al calcolo della pensione di due lavoratori autonomi, mantenendo invariati i parametri utilizzati per il caso precedente (età pensionabile a 66 anni, 40 anni di lavoro, ultimo reddito prima del pensionamento pari a 30.000,00 euro), e vediamo cosa accade alla pensione retributiva e a quella contributiva.
Nel caso di calcolo retributivo l’importo della pensione sarà sempre di 24.000,00 euro, corrispondente all’80% (40 anni x 2%) del reddito medio reale annuo (1).
Nel sistema contributivo , invece, le cose cambiano, e non di poco. Infatti, dopo 40 anni di lavoro il montante contributivo accumulato (1) sarà pari a 288.000,00 euro (2) a cui si deve applicare un coefficiente di trasformazione corrispondente al 66° anno di età (attualmente il 5,624%) che determina un importo dell’assegno pari a 16.197,12 euro.
Una differenza di quasi 8.000,00 euro l’anno, con una riduzione superiore al 30%.
Sempre riguardo al lavoratore autonomo (con 40 anni di contribuzione) e al sistema di calcolo contributivo, vediamo cosa succede in caso di reddito medio annuo reale di 25.000,00 euro e di 20.000,00 euro
► Con un reddito medio annuo di 25.000,00 euro il montante contributivo accumulato sarà pari a 240.000,00 euro (25.000,00 x 24% x 40 anni) corrispondente ad una pensione di 13.497,60 euro annui (240.000,00 x 5,624%).
► Con un reddito medio annuo di 20.000,00 euro il montante contributivo si riduce a 192.000,00 euro per una pensione di 10.798,00 euro (192.000,00 x 5,624%).
IPOTESI DI LAVORO DISCONTINUO
Vediamo adesso cosa succede in caso di lavoro discontinuo con un reddito, quindi, incostante e lo vediamo ipotizzando tre fasce di reddito diverse: 30.000,00, 25.000,00 e 20.000,00 euro e con tre “vuoti contributivi” rispettivamente di 3, 5 e 7 anni.
► Vuoti “contributivi” su un reddito medio reale annuo di 30.000,00 euro
1. Reddito di 30.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 3 anni (37 anni di contribuzione complessivi)
In questo caso il montante contributivo sarebbe pari a 266.400,00 euro (37 anni x 30.000,00 x 24%) per un importo di pensione annua pari a 14.982,34 euro (266.400,00 x 5,624%).
2. Reddito di 30.000,00 euro e vuoto contributivo di 5 anni (35 anni di contribuzione complessiva)
Con 35 anni di contribuzione il montante finale contributivo accumulato sarà di 252.000,00 euro (30.000,00 x 24% x 35 anni) corrispondente a una pensione annua di 14.172,48 euro.
3. Reddito di 30.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 7 anni (33 anni di contribuzione complessiva)
Dopo 33 anni di contribuzione il montante accumulato è di 237.600,00 euro (30.000,00 x 24% x 33 anni) corrispondente a una pensione annua di 13.362,63 euro.
► Vuoti “contributivi” su un reddito medio reale annuo di 25.000,00 euro
1. Reddito di 25.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 3 anni (37 anni di contribuzione complessivi)
In questo caso il montante contributivo sarebbe pari a 222.000,00 euro (37 anni x 25.000,00 x 24%) per un importo di pensione annua pari a 12.485,28 euro (222.000,00 x 5,624%).
2. Reddito di 25.000,00 euro e vuoto contributivo di 5 anni (35 anni di contribuzione complessiva)
Con 35 anni di contribuzione il montante finale contributivo accumulato sarà di 210.000,00 euro (25.000,00 x 24% x 35 anni) corrispondente a una pensione annua di 11.810,40 euro.
3. Reddito di 25.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 7 anni (33 anni di contribuzione complessiva)
Dopo 33 anni di contribuzione il montante accumulato è di 198.000,00 euro (25.000,00 x 24% x 33 anni) corrispondente a una pensione annua di 11.135,52 euro.
► Vuoti “contributivi” su un reddito medio reale annuo di 20.000,00 euro
1. Reddito di 20.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 3 anni (37 anni di contribuzione complessivi)
In questo caso il montante contributivo sarebbe pari a 177.600,00 euro (37 anni x 20.000,00 x 24%) per un importo di pensione annua pari a 9.988,23 euro (177.600,00 x 5,624%).
2. Reddito di 20.000,00 euro e vuoto contributivo di 5 anni (35 anni di contribuzione complessiva)
Con 35 anni di contribuzione il montante finale contributivo accumulato sarà di 168.000,00 euro (20.000,00 x 24% x 35 anni) corrispondente a una pensione annua di 9.448,32 euro.
3. Reddito di 20.000,00 euro e “vuoto contributivo” di 7 anni (33 anni di contribuzione complessiva)
Dopo 33 anni di contribuzione il montante accumulato è di 158.400,00 euro (25.000,00 x 24% x 33 anni) corrispondente a una pensione annua di 8.908,42 euro.
Questo fa chiaramente intendere che il sistema di calcolo contributivo non è poi sempre penalizzante. Dato che l’età pensionabile (3) e il coefficiente di trasformazione sono uguali per tutti, il problema si pone esclusivamente in relazione ai contributi accumulati durante l’attività lavorativa. E’ evidente che la differenza di aliquota contributiva tra un lavoratore dipendente e un autonomo (33% contro il 24%) porta, a parità di retribuzione/reddito, a due montanti differenti e, di conseguenza, a due importi diversi di pensione.
Non è, quindi, il calcolo contributivo che penalizzerà le future pensioni dei giovani, bensì la loro condizione di lavoro caratterizzata da un accesso tardivo nel mercato e una permanenza instabile e saltuaria che rende precaria anche la loro posizione contributiva.
Si continua a discutere di riforma delle pensioni, di flessibilità in uscita, di ricalcolo contributivo, etc. ma forse sarebbe meglio, prima, avviare una seria politica occupazionale perché la salute del sistema previdenziale deve obbligatoriamente passare da qui: incentivazione all’occupazione per aumentare il numero dei lavoratori e delle entrate contributive ma anche, e soprattutto, per garantire una pensione decorosa ai giovani.

(1) Si considerano le retribuzioni e i redditi “reali” percepiti nel corso della vita lavorativa con ipotesi di un tasso d’inflazione pari a zero.
(2) Considerando l’aliquota contributiva del 24% già a regime.
(3) A regime dal 2019.

I fondi pensione soffrono la crisi e finiscono soffocati dal fisco

I fondi pensione soffrono la crisi e finiscono soffocati dal fisco

Davide Giacalone – Libero

Il futuro economico degli odierni lavoratori si regge su due gambe: da una parte la previdenza obbligatoria, dall’altra quella integrativa e facoltativa. La prima è piena di protesi e bulloni, frutto di continue riforme. Che neanche sono finite. L’altra doveva essere più atletica e promettente, ma manifesta qualche cedimento al ginocchio.

Sono in crescita i lavoratori che portano i loro risparmi verso i Piani individuali pensionistici: il 29,4%, 6 milioni e mezzo di persone. Il 5,4% in più rispetto al 2013. E questo è un bene. Potrebbero e dovrebbero (dovremmo) essere più numerosi, ma si tratta già di una fetta significativa. La relazione della Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), però, segnala un dato preoccupante: cresce anche il numero di quelli che interrompono i versamenti, che, in altre parole, non riescono a tenere il passo con quanto avevano programmato di risparmiare e accantonare: erano 1,2 milioni nel 2013, sono diventati 1,4 milioni a marzo 2014, per arrivare a 1,6 alla fine dell’anno scorso.

Effetto della crisi? Certo, ma anche di una pressione fiscale che non molla la presa sugli italiani che producono, risucchiando nella spesa pubblica quel che sarebbe saggio lasciare al risparmio privato. Tanto più se si tiene conto di questi fatti: nel corso del 2014 sono stati raccolti 13 miliardi di euro, 600 milioni in più rispetto al 2013; dei contributi versati, 5,3 miliardi di euro provengono da flussi di trattamento fine rapporto, di cui l’82% confluisce nei fondi pensione negoziali e preesistenti; il rendimento del Tfr così impiegato è stato del 7%, mentre quello lasciato al datore di lavoro (dove prima si trovava obbligatoriamente) ha reso 1,3%. Chi ha dovuto interrompere i versamenti, quindi, subisce un danno notevole, perdendo le occasioni propiziate dalle politiche espansive della Banca centrale europea, dal calo del cambio e del prezzo del petrolio. Danno che si estende, come occasione mancata, all’intero sistema produttivo.

Esaminiamo l’ultima serie di dati: alla fine del 2014 il patrimonio delle forme pensionistiche complementari ha raggiunto 131 miliardi, circa il 12% in più rispetto alla fine del 2013, pari all’8,1% del prodotto interno lordo e il 3,3% delle attività finanziarie delle famiglie italiane; gli investimenti dei fondi pensione sono destinati per il 35% al nostro Paese, ma solo il 3% va a finanziare le imprese nazionali. La gran parte di quei soldi, quindi, finisce in titoli del debito pubblico che, come sanno bene i “Bot people”, ora rendono pochissimo. Per andare a cercare rendimenti produttivi i nostri risparmi emigrano. Questa è un’opportunità positiva per quei risparmiatori, ma negativa per l’Italia.

Gli alti rendimenti statali del passato erano in gran parte illusori, visto che venivano continuamente corretti dall’alta inflazione e dalle continue svalutazioni, ma, appunto, rappresentavano pur sempre un’illusione confortante. Se, però, guardiamo ai risultati positivi delle nostre imprese che esportano, le stesse che trovano credito con mille difficoltà e a un prezzo più alto rispetto ai concorrenti, ci rendiamo conto che stiamo sprecando un’occasione: dirigere il flusso del risparmio non più al finanziamento del debito e della spesa pubblica, ma della produzione e dell’impresa privata. La prima via portava risultati apparenti, la seconda può portarne di entusiasmanti. Ma non la si imbocca. Perché? Perché il finanziamento all’impresa resta bancocentrico (e asfittico), gli strumenti finanziari altrove diffusi (ad esempio negli Usa) qui restano sconosciuti e, come non bastasse, il fisco penalizza questo genere d’impieghi.

Ieri riflettevamo sulla Cassa depositi e prestiti e sull’idea, più mormorata che ufficializzata, di farne strumento governativo d’intervento nel sistema produttivo, ma è, quello, un modo antiquato e dirigistico di ragionare. Mentre il risparmio gestito, anche di natura previdenziale, potrebbe trovare ottimi e succosi impieghi proprio scommettendo sui nostri campioni produttivi. Se questo non accade, totalizzando il doppio danno, contro i risparmiatori e contro i produttori, è in gran parte perché i lacci fiscali strangolano il mercato interno. Con il risultato di portare i nostri risparmi, in cerca di guadagni, a finanziare i produttori altrui. E se non è follia masochista questa, altre non riesco a immaginarne.

Verso un sistema  previdenziale “europeo”

Verso un sistema previdenziale “europeo”

Giuseppe Pennisi – Formiche

Si può rimettere mano al sistema previdenziale tenendo in conto principalmente le esigenze delle giovani generazioni? Il tema è anche una chiave per la sopravvivenza dell’unione monetaria e della stessa Unione europea. Infatti, l’unione monetaria è stata concepita come un percorso a tappe obbligate per giungere a quella che gli economisti chiamano un’area valutaria ottimale, caratterizzata da effettiva mobilità dei fattori di produzione (capitale e lavoro), oltre che di beni e servizi. Anche ove si superassero difficoltà linguistiche e culturali, tale effettiva mobilità è impedita, per il lavoro – ora che si sono superate quelli attinenti strettamente al diritto del lavoro – a sistemi previdenziali  profondamente differenti in termini di accesso, livello, e amministrazione delle prestazioni (per citare gli aspetti più salienti). Sono il frutto di percorsi storici e sistemi di sicurezza sociale molto diversi.

Esiste, è vero, una rete (o meglio una ragnatela o un labirinto) di accordi bilaterali per le pensioni statali – o comunque pubbliche – oltre a una direttiva europea per facilitarne l’attuazione. Tuttavia, se un lavoratore dell’Ue, in caso di difficoltà di occupazione per la sua professione, richiesta invece in un altro Paese, si spostasse dove c’è domanda (come avviene, ad esempio, negli Stati Uniti) subirebbe molto probabilmente una perdita secca (e anche forte) in termini di tutela previdenziale. Quindi, la sua mobilità verrebbe frenata. Con un costo, in termini di occupazione e reddito per l’individuo e di produttività, per l’intera Ue.

Come uscirne? Da circa 12 anni, la strada è stata tracciata in una conferenza internazionale, organizzata dalla Banca mondiale e dall’Istituto di previdenza sociale svedese (con folta ed attiva partecipazione di esperti italiani), e tenuta nell’isola di Sandhamn, nell’arcipelago baltico a circa un’ora di navigazione da Stoccolma. Il percorso è quello di una graduale convergenza dei vari Stati dell’Ue verso quello che, in gergo tecnico, viene chiamato un sistema Notional defined contribution (Ndc), in effetti un sistema contributivo figurativo, modellato su quelli messi in atto da Italia e Svezia, quasi contemporaneamente, pur se distintamente (e senza consultazioni o coordinamento) nella primavera del 1995. Da allora è adottato gradualmente da oltre una ventina di Stati, tra cui gran parte dei nuovi aderenti all’Ue.

Il messaggio principale delle maggiori organizzazioni è che, pur basate sull’Ndc, le pensioni statali o comunque pubbliche sono solamente una promessa che non potrà essere soddisfatta se il quadro economico non migliora in misura significativa, sempre in balìa di governi e parlamenti che guardano a riforme delle pensioni anche (ove non principalmente) per fare cassa.

Tale promessa, alle prese con un costante rischio politico, deve essere affiancata da fondi pensione anch’essi gradualmente europei, soggetti sì al rischio finanziario ma, se sufficientemente grandi e diversificati, in grado di minimizzarlo, cosa che non possono fare i 700 lillipuziani fondi pensione nostrani, tra quelli di vecchia e quelli di nuova generazione. Per di più, tali fondi andrebbero incoraggiati fiscalmente, non penalizzati (come si è fatto di recente) per essere in linea con standard, criteri e direttive europee (una seconda direttiva europea sulla previdenza complementare è in avanzata fase di preparazione).

L’Italia è stato uno dei primi due Paesi a mettere in atto un sistema previdenziale Ndc. Ha l’opportunità di avere un ruolo importante nella costruzione di un sistema previdenziale Ndc europeo, se effettua i correttivi necessari per incoraggiare la previdenza privata. Ovviamente, tenendo i conti previdenziali – pubblici o privati – ben distinti da spese assitenziali per anziani non capienti, che per loro natura devono essere a carico della collettività (come avviene nel resto del mondo), non si contribuisce alla previdenza per la tarda età.

Illusioni pensionistiche

Illusioni pensionistiche

Davide Giacalone – Libero

Il sistema pensionistico futuro è in equilibrio. Ciò si deve a un lungo processo riformatore, iniziato con la riforma Dini e concluso con la riforma Fornero (15 anni!). Il governo fa bene a proporre la possibilità di pensionamento anticipato, perché in un sistema interamente contributivo ciascuno prenderà in ragione del versato e della speranza di vita. Prima va in pensione e meno versa. Fa male, però, a inoculare illusioni e paure: anticipando la pensione non si perderà «qualcosina», ma molto. Né potrebbe essere diversamente, se non si vuole riscassare un sistema fra i più equilibrati d’Europa. Con un non trascurabile dettaglio: le pensioni saranno basse. Per i giovani la cui carriera lavorativa e discontinua saranno bassissime. Il sistema, pertanto, si regge solo a patto che ciascun lavoratore si rassegni alla miseria o investa nella previdenza integrativa. Cosa resa difficile da una pressione fiscale forsennata.

Il sistema resta squilibrato perché squilibratissimo è il passato. Ogni anno lo Stato spende il 16,5% del Pil per pagare le pensioni. È una quota senza paragoni fra le democrazie sviluppate. Contiene, però, due zavorre: a. si trova sotto la voce «pensioni» quel che dovrebbe stare al capitolo «assistenza» (per cui chi dice che la nostra spesa sociale è bassa, rispetto ad altri europei, non sa far di conto); b. all’incirca la metà delle pensioni attuali non è retta da adeguati contributi versati. La differenza è un trasferimento di ricchezza da chi lavora oggi a chi lavorò ieri. Sono regali fatti in nome di «diritti acquisiti» che, talora, sono solo contributi figurativi (come Renzi, del resto, che diventa dirigente d’azienda prima che la Provincia di Firenze cominci a pagare per lui i contributi previdenziali).

L’informazione sui vitalizi parlamentari (che non sono nel conto delle pensioni, ma restano spesa pubblica) è preziosa perché dimostra che non si regalano soldi ai poveri, ma ai privilegiati. Quei numeri servono la soluzione su un piatto d’argento. Se solo si è in grado di capirli. Il valore assoluto dei regali agli ex parlamentari non è tale da risolvere altri problemi, ma il ricondurli alla ragionevolezza contabile ha un valore altissimo. Si chiama: buon esempio. Al contrario, decurtare l’adeguamento all’inflazione per le pensioni più alte è un’ingiustizia che configura un’incostituzionalità. Se le pensioni si dividessero in rette o meno da contributi versati, avrebbe un senso, per le seconde, un adeguamento deflattivo, mentre sarebbe un furto per le prime. Se prendo in ragione di quel che ho versato la mia pensione non è alta o bassa, è mia, sicché punirmi (dopo avermi costretto a versare) è da assatanati. O da incapaci, che avendo ereditato un sistema in equilibrio futuro non sanno dove mettere le mani per riportare un accettabile equilibrio anche per il presente.

Cari Renzi, Poletti e Boeri, maneggiate con  cura le pensioni

Cari Renzi, Poletti e Boeri, maneggiate con cura le pensioni

Giuseppe Pennisi – Formiche

Ai tempi del governo Letta (quando Matteo Renzi non era ancora Segretario del PD e le “larghe intese” sembravano destinate a durare per l’intera legislatura), a un conversazione tra amici economisti, l’allora ministro pro-tempore (peraltro breve) Enrico Giovannini affermò che dopo avere messo mano al mercato del lavoro (si era appena in parte risolta la questione degli “esodati”) avrebbe rivolto il proprio il proprio pensiero e le proprie energie ad una nuova “riforma delle pensioni”. Si levò, dagli altri commensali, un ‘coretto a cappella’: Enrico non farlo; nessun Paese regge una riforma della previdenza l’anno, le informazioni su futuro delle pensioni sono la determinante che più incide sui comportamenti dei cittadini-elettori poiché ti diventare prima o poi pensionati.

Continua a leggere su Formiche.

 

 

Atti del Seminario “Previdenza, agire per tempo”

Atti del Seminario “Previdenza, agire per tempo”

SEMINARIO PREVIDENZA

CNEL – 6 Maggio 2015, ore 10.30-13.00
Relatori/Discussants

Le prospettive demografiche – Presentazione PDF
Michela Pellicani, docente di Statistica e Demografia, Università degli Studi di Bari
Discussant: Giuseppe Greco, Segretario Generale ISIMM Ricerche

Pensioni e dinamica generazionale di occupazione e redditi
Mauro Marè, Presidente MEFOP
Discussant: Michel Del Buono, Cornell University , Banca Mondiale

Le fabbriche delle pensioni
Giuseppe Guttadauro, esperto di previdenza, docente di Diritto del Lavoro UniECampus
Discussant: Salvatore Zecchini, Presidente Gruppo di Lavoro OCSE su Pmi e Imprenditoria

Verso Pensioni Europee
Giuseppe Pennisi, Presidente Board Scientifico ImpresaLavoro
Discussant: Carlo Lottieri, Istituto Bruno Leoni

Rassegna Stampa:
Panorama
Le prospettive demografiche

Le prospettive demografiche

Michela C. Pellicani – Seminario “Previdenza, agire per tempo”

Premessa
Grazie al rigore formale che le dà la matematica delle popolazioni, la demografia costruisce scenari per il futuro che servono spesso ad alimentare paure collettive. Per più di cinquanta anni – dalla pubblicazione dei testi fondamentali di Frank Notestein (Notenstein F., 1945) e di Kingsley Davis (Davis K., 1945) sulla transizione demografica – la paura agitata dalle proiezioni è stata e continua ad essere quella della sovrappopolazione, della pressione che la crescita demografica esercita sulle risorse materiali e sul mezzo di produrre beni di consumo, ossia il lavoro
A livello globale questa paura si è concentrata particolarmente sulle nazioni del Sud del mondo che sono entrate più tardivamente rispetto a quelle del Nord nella fase di crescita rapida. La paura della sovrappopolazione non è ancora passata che, già, una paura inversa ha cominciato a prendere sempre più peso. Il vecchio spettro medievale dello spopolamento, sotto le nuove vesti dell’invecchiamento, è risorto anch’esso minacciando il Sud più subdolamente del Nord, poiché il Sud, vivendo ancora nell’idea dell’esplosione demografica, ha manifestato un marcato ritardo nella presa di coscienza del rallentamento in atto della propria crescita.
Il segnale più chiaro non è stato dato dai demografi, ma da un economista. È, in effetti, da Walt Whitman Rostow che giunge il segnale. Il teorico delle “Tappe dello sviluppo economico ” propone nel suo lavoro – « The Great Population Spike and After » (Rostow W. W., 1998) – una visione iconoclasta della demografia.
La demografia, ci dice Rostow, sarà la preoccupazione principale dei prossimi decenni. Ma non sarà per la ragione che si crede, non perché il pianeta sarà minacciato dalla sovrappopolazione. No, al contrario ci dice Rostow, è la riduzione della crescita e la prospettiva della stagnazione demografica a costituire la vera sfida.
Non si tratta solo di una sfida per i paesi industrializzati, che hanno già familiarizzato con l’idea dell’invecchiamento (anche se non si è ancora trovata la “ricetta” di un nuovo contratto tra le generazioni), ma ugualmente, e forse soprattutto, per i paesi meno sviluppati che non sono preparati a tale cambiamento e ove si è propensi a ritenere che il problema risieda ancora nella crescita demografica troppo rapida.
Cosa è l’invecchiamento, cosa produce invecchiamento, quali soluzioni demografiche
Quando si parla di invecchiamento demografico si commette molto spesso l’errore di concentrare l’attenzione sulle persone anziane (con la relativa difficoltà di definizione della soglia o delle soglie di ingresso nella vecchiaia).
In realtà, la definizione stessa di invecchiamento ci dice che esso si verifica quando la quota/proporzione/percentuale di anziani aumenta all’interno della popolazione totale. Non è, quindi, in termini assoluti che occorre ragionare, bensì in termini relativi ossia di rapporto tra la popolazione anziana e la popolazione totale e, ancor più, di rapporto tra la popolazione anziana e quantomeno le altre due grandi classi d’età: giovani e adulti.
Ma cosa “produce” l’invecchiamento demografico (e non biologico il quale rientra nel campo medico e, al contrario de primo, è ineluttabile ed irreversibile, almeno ad oggi)?
Contrariamente a ciò che si può pensare, è sostanzialmente il calo della fecondità ad alimentare l’invecchiamento (invecchiamento dal basso della piramide dell’età) e non il calo (sarebbe meglio dire posticipo) della mortalità (invecchiamento dall’alto).
Ne consegue che le politiche di contrasto dell’invecchiamento, almeno da un punto di vista strettamente demografico (sulle politiche di contrasto alle sue ripercussioni economiche e sociali potremo tornare in seguito), consisterebbero in concrete politiche pronataliste (non i bonus bebè, anche su questo potremo tornare in seguito) le quali, ovviamente, possono produrre effetti nel futuro ma non correggere i risultati dell’evoluzione passata.
Potrebbe esserci un’altra strada, almeno così sentiamo dirci piuttosto frequentemente e da più parti. Potremmo far ricorso alla terza grande variabile demografica (anche se non unanimemente considerata tale): la migrazione e, nello specifico, l’immigrazione. Quest’ultima potrebbe venire in soccorso con un duplice effetto positivo: da un lato, gli immigrati arrivando generalmente da giovani, andrebbero a compensare quelle nascite che non si sono verificate a causa del drastico calo della fecondità (migrazioni di sostituzione), dall’altro, gli stranieri sono caratterizzati da un livello di fecondità superiore a quello degli autoctoni.
Purtroppo, le cose non stanno esattamente in questi termini o meglio, stanno così solo molto parzialmente. Inoltre, non possono essere trascurate almeno due condizioni che incidono in maniera determinante su questo potenziale effetto benefico: l’orizzonte temporale che fissiamo e la disponibilità da parte della comunità di accoglienza a sostenere i costi (non solo economici) derivanti dall’arrivo di immigrati.
A questo proposito, qualche anno fa, esattamente nel 2000, la Divisione di popolazione delle NU ha pubblicato delle proiezioni demografiche relative ad alcuni paesi particolarmente colpiti dall’invecchiamento (tra cui l’Italia) e ad alcuni aggregati geo-politici.

v. power point (1) Migrazioni di sostituzione o il “vaso delle Danaidi”

Invecchiamento e relazione tra classi d’età e generazioni
Qual è la situazione, ad oggi, in termini di invecchiamento della popolazione italiana?

v. power point (2)

Tab. 1 – Indici di struttura, speranza di vita e età media, Italia, 2003 e 2013

tabella pellicani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per cercare di cogliere con più efficacia le evoluzioni della struttura per età possiamo avvalerci di un primo semplice indice di struttura (Is) che ci permette di apprezzare con immediatezza i cambiamenti in termini di peso relativo di ogni classe di età all’interno della popolazione totale.
Is = (t+αPx-x+a / t+αPT / tPx-x+a / tPT) * 100 – 1001
Le trasformazioni strutturali sono così importanti da emergere con estrema evidenza già attraverso una semplice osservazione della Figura 3.
Fig. 3 – Is (variazioni della struttura per età), Italia, 1950-2000 e 2000-2050

tabella pellicani 2

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutte le classi di età ne sono toccate e spesso, in modo rilevante. Tra il 1950 e il 2000 si è assistito ad un quasi dimezzamento del peso relativo delle classi d’età giovanili (0-14 anni) e ad un contestuale più che raddoppio delle classi d’età anziane (> 65 anni) che si trasforma facilmente in triplicazione per gli ultrasettantacinquenni. Segnaliamo la perdita di importanza della classe 15-24 anni tanto nel passato quanto nel presumibile futuro che è destinata a lasciare una traccia in termini di alterazione del profilo delle piramidi delle popolazioni osservate. Se si dovesse realizzare l’ipotesi di rimonta della fecondità soggiacente alle proiezioni utilizzate1, nel 2050 dovremmo attenderci una quasi stazionarietà della proporzione di giovanissimi, una riduzione del peso degli adulti (soprattutto dei giovani adulti) e un aumento di quello degli anziani attutito rispetto all’aumento registrato nel 2000.
Come abbiamo visto, la prospettiva convenzionale della demografia, quando si osserva la struttura per età, è di distinguere tre grandi classi d’età: giovani, adulti, anziani e di considerare il rapporto tra le classi estreme e la classe centrale come un indicatore della dipendenza demografica (concetto puramente quantitativo che non rende l’idea del contratto tra le generazioni il quale, a sua volta, deve tenere in considerazione elementi qualitativi per stabilire le modalità e le forme di solidarietà tra attivi e inattivi).
Questa prospettiva prende in considerazione, quindi, aggregati che non corrispondono alle “realtà vissute”, tangibili per gli individui. Ebbene, nel momento in cui ci si interessa ai processi di determinazione della scelta, occorre sforzarsi di immedesimarsi nella situazione che gli individui percepiscono.
Un secondo indice (Ig) ci permette di mettere in relazione diretta le diverse generazioni. La soglia dell’unità rappresenta l’equilibrio (quantitativo) tra generazioni di genitori e figli.
Ig = tPg+γx-x+a / tPgx-x+a 2
Fig. 4 – Ig (relazione tra generazioni), Italia, 1950-2050

tabella pellicani 3

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il commento della curva (Fig. 4) si fa da solo. Una sola annotazione relativa all’indice calcolato per genitori 60-64enni su figli 30-34enni: il 2015 rappresenta un momento di svolta poiché, da un rapporto favorevole ai figli (anche se già “appesantito”) si giunge ad un contesto fortemente squilibrato caratterizzato dalla presenza di 1,5 genitori (anziani) in media per ogni figlio (nel 2030). Il miglioramento finale, benché auspicato, è ancora tutto da verificare.
Al fine di avvicinarsi ancor di più alla “realtà vissuta”, abbiamo, infine, simulato la prospettiva dell’individuo piuttosto che quella della popolazione basandoci sulla constatazione che in demografia (e non solo) il cambiamento può essere interpretato anche come la successione di generazioni che non si “rassomigliano”. Più il cambiamento è rapido, più i contrasti intergenerazionali sono marcati.
In termini appunto generazionali: in una prospettiva orizzontale, è l’ammontare di ogni generazione osservata ad ogni determinata età che varierà e in una prospettiva verticale, è il rapporto tra generazioni di età diverse che cambierà.
Al momento dell’entrata nelle età produttive e riproduttive (25 anni), ci siamo posti la seguente domanda: qual è il carico che i suoi “genitori” (e la prospettiva del loro mantenimento) fanno pesare su di lui?
Abbiamo costruito un indicatore che illustra la valutazione che un individuo medio (in senso statistico) può fare della propria situazione (Fargues Ph. – Pellicani M.C., 2000).
Detto indice, se limitiamo l’analisi alle generazioni nate sino al 2000, quelle che compiranno 25 anni entro il 2025, gode del vantaggio di non comportare alcuna proiezione, cioè alcuna ipotesi sul futuro.

v. power point (3) i.c.a.

i.c.a. = 2 * (lg-30 55 / lg-30 30) / (ISFg * lg25)
Figura 5 – Indice di carico ascendente, Italia, generazioni 1950-2000

tabella pellicani 4

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Conclusioni
In conseguenza di un complesso di circostanze che hanno cambiato profondamente la società e la sua organizzazione, la durata media della vita è raddoppiata in poco più di cento anni. L’aumento del numero di anziani è espressione di una evoluzione positiva, una rivoluzione a dire il vero, che ha permesso di raggiungere traguardi fino a pochi decenni fa giudicati inarrivabili. Nonostante lo scenario sia profondamente mutato, la definizione di “anziano” ancora oggi utilizzata per scandire i tempi della vita sociale, continua a far riferimento alla sola età anagrafica, un indicatore quantitativo che ha la caratteristica di progredire in maniera costante e inalterabile, dal momento della nascita a quello della morte, in modo indipendente dal succedersi delle generazioni e dal mutare dalle condizioni interne ed esterne all’individuo, al suo stato di salute e alla sua vitalità.
Una delle domande sulle quali si sta concentrando l’attenzione sia in ambito scientifico che politico è se all’allungamento della vita corrisponda un aumento della vita in buona salute o se, al contrario, questo comporti un allungamento della vita vissuta in condizioni di malattia e di dipendenza. Il verificarsi dell’uno o dell’altro scenario comporta, ovviamente, importanti conseguenze per gli individui, per le loro famiglie e per la collettività in termini organizzativi e di costi da sostenere per far fronte alla domanda di servizi sanitari e assistenziali.

v. power point (4) Un’unica speranza di vita? La “speranza di salute”

Al momento attuale non si hanno risposte univoche a questa domanda: per alcune condizioni, e soprattutto per quelle di più grave limitazione dell’autonomia personale, l’evoluzione è stata senz’altro positiva garantendo un aumento della vita vissuta in buona salute e comprimendo la cattiva salute verso età sempre più avanzate, tanto da bilanciare, in un certo senso, l’invecchiamento demografico. Per altre condizioni l’evoluzione è molto meno netta ed un giudizio complessivo circa le conseguenze dell’invecchiamento sullo stato di salute della popolazione italiana, risulta incerto.
Per di più, anche se dal punto di vista della qualità degli anni di vita guadagnati il bilancio è globalmente positivo, altri problemi emergono che possono condizionare negativamente gli andamenti futuri e generare aumenti di costi economici e sociali. Si tratta delle diseguaglianze (di genere, territoriali, sociali, economiche) che caratterizzano la sopravvivenza e la salute, producendo divari che possono arrivare anche a diversi anni di vita. E ancora, i rischi di evoluzione negativa sono oggi accresciuti per la prolungata crisi economica che compromette la funzionalità e l’efficacia della sanità pubblica, con costi differenziati sul territorio e per le diverse classi sociali.
L’esperienza di altri Paesi ha dimostrato che la longevità e la buona salute non devono considerarsi dei risultati acquisiti una volta per tutte, e che in caso di crisi il disagio dei gruppi più svantaggiati si trasforma molto rapidamente in una peggiore condizione di salute e un più alto rischio di morte (v. ad esempio Unione Sovietica). Questi scenari negativi possono essere contrastati per varie vie, alcune delle quali non implicano necessariamente l’utilizzo di maggiori risorse.
Agganciare, quindi, l’età pensionabile alla speranza di vita (in Italia come in altri paesi europei), risulta quantomeno meccanico e semplicistico. Vorrebbe dire sancire la dipendenza automatica delle pensioni dalle evoluzioni demografiche senza tener conto delle contemporanee evoluzioni in campo sociale, medico, economico, politico. Per certi versi, addirittura, ciò potrebbe mascherare una debole volontà di portare avanti interventi incisivi finalizzati all’aumento della partecipazione, in particolare femminile e giovanile, al mercato del lavoro o di dedicare adeguati investimenti destinati all’aumento della produttività.
Una nuova riforma pensionistica è inevitabile

Una nuova riforma pensionistica è inevitabile

Salvatore Zecchini – Seminario “Previdenza, agire per tempo”

Dopo 6 grandi riforme dal 1992 al 2011 il problema del riequilibrio del sistema previdenziale italiano, più a torto che a ragione, sembrava aver perduto agli occhi dei governanti e dell’opinione pubblica gran parte di virulenza ed attenzione. Fino a qualche giorno fa, se se ne parlava, era per la questione degli “esodati”, per i quali si cerca di trovare un avvicinamento alla pensione che costi poco alle casse dello Stato. Improvvisamente, dal 30 aprile la situazione è cambiata con la dichiarazione di incostituzionalità del congelamento dell’adeguamento all’inflazione dei trattamenti medi ed alti. Il Governo, dopo aver dichiarato col DEF e successivamente che non era intenzionato a intervenire, ora è costretto a reperire circa 17 miliardi (1% PIL al lordo della tassazione di ritorno) per coprire il nuovo buco di bilancio. Non si tratta soltanto di corrispondere quanto non versato, ma di evitare che negli anni avvenire la curva di proiezione della spesa pensionistica in rapporto al PIL si innalzi, compromettendo gli sforzi fatti per abbassarla nell’ultimo decennio. Visto che un nuovo aumento del peso del fisco è insostenibile, è quindi probabile che sarà necessaria una nuova riforma di sistema con tagli di spesa.
Perché i conti della previdenza non erano più visti come un problema tale da richiedere nuove, tempestive riforme? A parte le considerazioni di opportunità elettorale, la risposta sta negli esercizi di simulazione della spesa pensionistica fino al 2060 effettuati dalla Ragioneria Generale e confermati nel DEF 2015. Ne risulta che in rapporto al PIL la spesa, dopo aver raggiunto l’apice del 15,9% nel 2014, dovrebbe scendere al 15,8% quest’anno e continuare a flettere fino al 15,4% del 2019. Queste previsioni di sostenibilità del sistema non sembravano del tutto irrealistiche, pur scontando alcune ipotesi su cui è ragionevole nutrire dubbi. In particolare, una crescita reale di medio periodo del 1,5% annuo, un tasso d’occupazione di circa 10 punti percentuali più elevato che nel 2010, e un tasso d’incremento della produttività dell’1,5% annuo.
Sempre prima della sentenza della Consulta, la RGS riteneva che il rapporto Spesa pensionistica/PIL avrebbe continuato a scendere fino al 15% a circa il 2030 a causa dell’innalzamento dell’età minima di accesso alla pensione e dell’applicazione parziale del metodo contributivo, per poi risalire fino al 15,5% nel 2044 per effetto dell’aumento del rapporto pensionati/occupati, e successivamente ridiscendere fino al 13,7% nel 2060 a seguito dell’estesa applicazione del sistema contributivo e della riduzione del rapporto pensionati/occupati. Questi risultati ovviamente sono attesi se le regole del sistema rimangono stabili nel tempo, ma è evidente che il sistema non è stabile, perché è sotto il costante assedio di una massa di lavoratori che vedono come scopo principale della loro vita lavorativa quello di andare in pensione a spese di quanti restano a lavorare. Un chiaro esempio di parassitismo sociale!
Ma questo non è il solo motivo per preoccuparsi degli effetti del sistema attuale, perché ve ne sono altri ben più pressanti:
  1. L’impatto negativo del sistema pensionistico attuale sulla capacità di crescita dell’economia;
  2. le iniquità intragenerazionali ed intergenerazionali;
  3. il disincentivo implicito nel sistema nei confronti della previdenza complementare e l’alimentare distorsioni nella società verso un modello tendente all’inattività.
Ciascuno di questi punti richiede un breve commento per concludere con l’indicazione di qualche orientamento a cui dovrebbe ispirarsi il governante saggio.
Una spesa pensionistica nell’ordine del 15,5% del PIL può apparire sostenibile, ma è superiore di circa 3,5 punti alla media dell’eurozona, e lo è ancor più se il confronto è fatto con le economie più dinamiche dell’area OCSE. L’incidenza sul PIL risulta di circa 1 punto percentuale superiore a quella della Francia, di oltre 4 punti alla Germania e di 9 punti al UK. Questa forte incidenza si riflette in un prelievo per contributi sulle remunerazioni che dovrebbero andare ai lavoratori pari al 33%, mentre la media OCSE è del 19,6%. Questa imposizione inoltre grava per 23,8 punti percentuali sul datore di lavoro, appesantendo il costo del lavoro e scoraggiando la domanda di lavoro, con conseguenze negative sul tasso di disoccupazione e sulla propensione ad investire nel Paese.
Appare altresì sproporzionato che questa spesa assorba attualmente il 34% della spesa pubblica primaria, percentuale che dovrebbe salire al 35,6% nel 2019.
Nondimeno non è solo la sproporzione, ma le iniquità del sistema che lo dovrebbero rendere poco accettabile ai lavoratori delle ultime generazioni. Mentre costoro si vedono sottrarre il 33% del loro reddito per sostenere i pensionati, il loro titolo alla pensione rappresentato dal tasso di sostituzione netto è destinato a scendere, ad esempio per un lavoratore dipendente, dall’83,2% nel 2010 al 77,3% nel 2020 e al 71,4 nel 2040. Queste percentuali peraltro nascondono la pochezza degli importi risultanti in valore assoluto, dato che esse si applicano a retribuzioni che tendono a crescere poco, che si collocano su livelli inferiori mediamente a quelli dei maggiori paesi UE, e che non si riferiscono a carriere di lavoro spezzettate. Le attese sono peggiori per chi lavora ad intermittenza, in quanto non può sperare di ricevere una pensione consistente nella vecchiaia, a meno che accetti di lavorare più a lungo o abbia goduto di retribuzioni medio-alte.
L’iniquità intergenerazionale del sistema pensionistico attuale si può cogliere anche sotto un altro profilo. Secondo le stime dell’OCSE, in media la ricchezza pensionistica netta data dal cumulo delle pensioni riferite all’arco di vita al netto delle imposte sulle pensioni stesse supera il salario medio annuale lordo di 9,5 volte per gli uomini e di 10,8 volte per le donne (contro 8,1 e 9,3 volte rispettivamente nella media OCSE). Questa ricchezza viene coperta dai contributi versati annualmente da chi resta al lavoro, oltre che dalle imposte.
L’iniquità non è soltanto intergenerazionale ma anche intragenerazionale. Tra i pensionati attuali sussiste infatti un’ampia differenziazione quanto al rapporto tra l’ammontare dei contributi versati durante la vita lavorativa e il totale dei redditi da pensione durante la vita residua. Per una fascia abbastanza ampia, l’ammontare del trattamenti supera ampiamente il montante contributivo, sempre che si applichi interamente il sistema contributivo in vigore per il calcolo delle pensioni. Ne sono esempi i trattamenti accordati ai rappresentanti politici, ai ferrovieri e ad alcune categorie con fondi speciali. Questo squilibrio, contrariamente a un’opinione diffusa, non è impossibile da misurare, considerato che i dati sono disponibili dagli anni 90, mentre per i due decenni precedenti si conoscono le aliquote contributive e si possono ricostruire le retribuzioni a cui andavano applicate.
Il disincentivo al risparmio previdenziale complementare è un altro degli effetti deplorevoli del sistema. Per quanti possono contare su uno stabile lavoro remunerato mediamente, dato l’alto tasso di sostituzione, l’incentivo a risparmiare per crearsi una previdenza complementare si riduce significativamente. Solo con l’abbassamento del tasso di sostituzione e con il lavoro precario, o le retribuzioni relativamente basse l’incentivo aumenta, ma questi sono casi in cui le possibilità di risparmio sono ridotte. Non deve quindi sorprendere che solo 6,2 milioni di lavoratori su 22,2 milioni aderiscono alla previdenza complementare. Questa è anche penalizzata dal Quantitative Easing della BCE, che ha polverizzato i rendimenti obbligazionari, e dall’incremento della tassazione sui rendimenti.
Su questo sfondo è evidente che il Governo non ha scelta migliore che intervenire con l’ennesima riforma al fine di smorzare la dinamica della spesa pensionistica in rapporto al PIL e al totale della spesa pubblica, ridurre le iniquità e favorire la previdenza complementare. La motivazione principale è che per stimolare la crescita occorre anche ridurre la tassazione e potenziare le risorse per gli investimenti. In quest’azione il vincolo da tenere presente è la ricerca di una maggiore equità sia intergenerazionale che intragenerazionale.
Traducendo questi principi in poche parole, significa ridurre al tempo stesso i trattamenti a tutti i pensionati, facendo alcune distinzioni, e i prelievi contributivi per lasciare più risorse per investimenti, salari e future generazioni.
Nella riduzione dei trattamenti, non appare equo tendere a perequare tagliando genericamente tutte le pensioni medie ed alte. La pensione, infatti, rappresenta, anche per la Consulta, reddito differito del lavoratore, ovvero risparmio forzoso accumulato per fini previdenziali a copertura di consumi differiti al tempo in cui il lavoratore rimane inattivo per motivi di età o altra valida inabilità. Manovre di redistribuzione fatte con le risorse pensionistiche e non con le imposte sono la negazione del principio di previdenza. Si ritiene, invece, che il Governo debba usare come metro dei tagli la differenza esistente tra il montante dei contributi versati dal soggetto e quello delle pensioni che gli vengono corrisposte nell’intero arco della vita residua. È proprio su coloro che godono maggiormente di questa eccedenza che dovrebbero incidere i tagli che sono necessari per finanziare una nuova azione di stimolo alla crescita del Paese.
Le fabbriche delle pensioni

Le fabbriche delle pensioni

Giuseppe Guttadauro – Seminario “Previdenza, agire per tempo”

L’obiettivo del mio intervento è di stimolare una riflessione sulla situazione del sistema previdenziale italiano ripercorrendo brevemente le tappe principali che hanno portato alla riforma del 2011, conosciuta come riforma Fornero e cercherò di farlo analizzando in modo particolare quanto di buono sia stato fatto, al contrario del pensiero di molti, per mettere il sistema in sicurezza ma quanto ancora si debba fare.
Attualmente siamo in un sistema a ripartizione nel quale se le entrate contributive non sono sufficienti, la spesa pensionistica è garantita con trasferimenti dalla fiscalità generale. Nel 2013 l’Inps ha evidenziato un buco di 25 miliardi di euro nonostante la “gallina dalle uova d’oro” rappresentata dalla Gestione Separata dove il numero dei pensionati è di gran lunga inferiore ai lavoratori attivi e nel 2014 le cose non sono andate meglio per la perdita di quasi un milione di posizioni attive. E’ del tutto evidente allora che la salute del sistema previdenziale deve obbligatoriamente passare attraverso una seria politica di incentivazione all’occupazione per aumentare il numero dei lavoratori e di conseguenza delle entrate contributive..
Le riforme che si sono succedute a partire dal 1992 hanno messo mano a un sistema che per decenni non ha saputo controllare la spesa pensionistica che è cresciuta anno dopo anno sino a raggiungere nel 2014 il 16,3% del PIL. Abbiamo persone che percepiscono la pensione da quando avevano 40 anni di età, abbiamo importi di pensione completamente slegati dai contributi realmente versati, abbiamo avuto fino a pochi anni fa gestioni pensionistiche che garantivano trattamenti di favore a molte categorie di lavoratori dipendenti generando pensionati di serie A e di serie B. Tutto questo è stato pagato a caro prezzo con interventi sempre più restrittivi introdotti dalle principali riforme, Amato, Dini e Maroni mentre il saldo, probabilmente, è stato versato con la recente riforma Fornero definitivamente approvata con la legge 22 dicembre 2011 n. 204. Una riforma approvata a larga maggioranza dalle forze politiche che sostenevano il governo Monti e con il sostegno delle parti sociali, una riforma resa necessaria per dare un’immagine di credibilità e di tenuta del nostro Paese all’interno della U.E.
Suona davvero strano che da più parti (Governo, Parlamento, Sindacati) vengono annunci o si assumono iniziative per attuare una sorta di “contro riforma” in modo particolare per quanto riguarda l’età pensionabile le cui regole sono considerate troppo elevate e rigide, suona strano perché queste iniziative sono portate avanti proprio dagli stessi partiti che qualche anno prima avevano approvato la riforma, tutto questo non sembra proprio una garanzia di serietà. In ogni caso qualche giorno fa un risultato devastante per le casse dello Stato e, di conseguenza per le tasche degli italiani, è stato raggiunto: una sentenza della Consulta che ha sbloccato l’adeguamento al costo della vita per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo (1.443,00 euro mensili) nel periodo 2012 – 2013, dichiarando incostituzionale il blocco attuato dalla riforma Fornero..
Secondo un’indagine svolta dall’Ordine dei dottori commercialisti di Napoli il risultato di questa sentenza farà sì che un pensionato con 20 mila euro lordi di pensione, si vedrà restituire circa 1.134 euro lordi, con 50 mila euro di pensione il rimborso ammonterà a circa 2.518 euro lordi e infine chi riceve 100 mila euro annui di pensione avrà diritto a una restituzione di circa 4.700 euro lordi. Nulla è invece dovuto al pensionato che percepisce una pensione lorda sino a 19 mila euro annui. L’onere a carico dello Stato è stimato intorno ai cinque miliardi di euro! E’ doveroso anche ricordare che la mancata rivalutazione delle pensioni superiori a 1.450,00 euro mensili ha permesso di evitare il blocco per le più povere e che nel 2007 il governo Prodi attuò il blocco delle rivalutazioni per le pensioni superiori a 3.700,00 euro mensili, senza che la Consulta avesse da obiettare.
Nel 2011, da un punto di vista finanziario, la situazione dell’Italia puntava pericolosamente in direzione della Grecia ed è stato anche grazie alla riforma Fornero che fu possibile evitare il default.
Adesso non è possibile tornare indietro, al di là di tutti gli slogan elettorali non possiamo non fare i conti con una aspettativa di vita media che nel 2014 è stata di 79,40 anni per gli uomini e di 84,82 per le donne e con un debito pubblico tra i più alti in Europa che ha toccato lo scorso anni i 2.167 miliardi, il 132,50% del PIL!
Nel 2007, prima dell’inizio della crisi, l’incidenza della spesa pensionistica sul PIL era di circa il 14%, adesso siamo al 16,3% ma senza quella riforma saremmo ad un livello inaccettabile del 18%, e nel 2060 scenderà al 13,9%.
Qualunque azienda per risanare i conti può agire sul fronte delle entrate e/o delle uscite, la riforma Fornero ha scelto di agire su entrambi, introducendo per tutti il sistema di calcolo contributivo dal 2012 e una novità assoluta per il nostro sistema previdenziale: l’adeguamento dell’età pensionabile e dei coefficienti di trasformazione per il calcolo della pensione alle aspettative della speranza di vita. In futuro il traguardo della pensione sarà sempre più lontano e l’importo della pensione sempre più basso.
Per fare un esempio concreto, nel 2009 a fronte di un montante contributivo pari a 200.000,00 euro maturava una pensione annua lorda di 12.272,00 euro, oggi con lo stesso montante la pensione sarebbe pari a 10.870,00 euro annui, circa il 12% in meno. A quanto ammonterà l’assegno tra 20 anni?
Dobbiamo essere tutti consapevoli che in futuro la pensione dei nostri figli non potrà più essere quella dei nostri genitori.
Una proposta interessante potrebbe sicuramente essere quella di agire sull’età pensionabile che già oggi è per molti giovani fissata in 70 anni e 3 mesi, introducendo una flessibilità in uscita fissando un’età minima e lasciando al lavoratore la possibilità di decidere quando andare in pensione. Il maggior numero di anni pensionabili sarebbe compensato con una riduzione proporzionale del relativo coefficiente di trasformazione senza dover cercare le coperture finanziarie. Una sorta di ritorno alla riforma Dini che appunto questo meccanismo già prevedeva prima che la riforma Maroni lo abolisse.
In ultimo, lo Stato dovrebbe garantire una corretta informazione previdenziale al cittadino, garantendo il decollo definitivo della previdenza complementare, perché essere informati significa avere consapevolezza e la consapevolezza porta alla ricerca di una soluzione.
E desidero chiudere questo intervento facendo qualche riflessione anche sulla previdenza complementare diventata indispensabile per poter garantire un adeguato tenore di vita in età pensionabile, soprattutto dopo l’introduzione del sistema di calcolo contributivo.
In Europa la media di chi ha una pensione complementare è di circa il 91%, in Italia è di circa il 28% (poco più di 6,5 milioni), un differenziale troppo elevato sul quale è necessario riflettere per capire quali errori sono stati fatti.
Un dato su tutti è l’età media degli aderenti: i lavoratori con meno di 35 anni di età rappresentano solo il 18%, il 25% ha un’età compresa tra 36 e 44 anni e oltre il 30% sono quelli tra i 54 e i 64 anni. Un basso numero di adesioni e con età vicine al pensionamento, qualcosa non funziona. Forse l’incentivo fiscale non è la motivazione principale per chi avrebbe invece più bisogno di pensare al proprio futuro pensionistico e non dispone delle risorse necessarie. E chiudo con una provocazione: il risparmio previdenziale in gestione ammonta a circa 126,3 miliardi e la deduzione dei contributi non consente al fisco di incassare ogni anno circa 3,5 miliardi di imposte. Perché non provare a pensare di abolire la deduzione dei contributi e utilizzare questa cifra come incentivo pubblico per i giovani, magari per i primi anni di adesione, che decidono di aderire alla previdenza complementare? Forse che questo potrebbe contribuire al decollo della previdenza complementare per chi ne ha veramente bisogno?
Verso un sistema previdenziale europeo

Verso un sistema previdenziale europeo

Giuseppe Pennisi – Seminario “Previdenza, agire per tempo”

Si può rimettere mano al sistema previdenziale tenendo specialmente in conto le esigenze delle giovani generazioni? Il tema, centrale a questo seminario, è anche una chiave per la sopravvivenza dell’unione monetaria e della stessa Unione Europea (UE). Infatti, l’unione monetaria è stata concepita come un percorso a tappe obbligate per giungere a quella che gli economisti chiamano un’‘area valutaria ottimale’, caratterizzata da effettiva mobilità dei fattori di produzione (capitale e lavoro), oltre che di beni e servizi. Anche ove si superassero difficoltà linguiste e culturali, tale effettiva mobilità è impedita, per il lavoro, – ora che si sono superate quelli attinenti strettamente al diritto del lavoro– a sistemi previdenziali profondamente differenti in termini di accesso, livello, ed amministrazioni delle prestazioni (per non citare che gli aspetti più salienti). Sono il frutto di percorsi storici e sistemi di sicurezza sociale molto diversi. Esiste è vero una rete (o meglio una ragnatela od un labirinto) di accordi bilaterali per le pensioni ‘statali’ o comunque pubbliche ed una direttiva europea per facilitarne in attuazione. Tuttavia se un lavoratore dell’UE in caso di difficoltà di occupazione , per la sua professione. in uno Stato dell’UE e richiesta, invece, n altro, si spostasse dove c’è domanda (come avviene , ad esempio, negli Stati Uniti) subirebbe molto probabilmente una perdita secca (ed anche forte) in termini di tutela previdenziale. Quindi, la sua mobilità verrebbe frenata. Con un costo, in termini di occupazione e reddito per l’individuo e di produttività, per l’intera UE.
Come uscirne? Da circa dodici anni , la strada è stata tracciata in una conferenza internazionale, organizzata dalla Banca mondiale e dall’istituto di previdenza sociale svedese (nonché con folta ed attiva partecipazione di esperti italiani), e tenuta nell’isola di Sandhamn, nell’arcipelago baltico a circa un’ora di navigazione da Stoccolma.
Il percorso è quello di una graduale convergenza dei vari Stati dell’UE verso quello che, in gergo tecnico viene chiamato un sistema Notional Defined Contribution (NDC), in effetti un sistema contributivo figurativo, modellato su quelli messi in atto da Italia e Svezia, quasi contemporaneamente, pur se distintamente (e senza consultazioni o coordinamento) nella primavera del 1995. E da allora adottato gradualmente da oltre una ventina di Stati, tra cui gran parte dei nuovi aderenti all’UE.
Il sistema NDC può essere il veicolo per dare uno zoccolo duro comune alla previdenza europea tramite la graduale armonizzazione dei sistemi vigenti nei vari Stati (alcuni Stati, ad esempio la Francia, sono particolarmente ostili al cambiamento). Ma non può compiere miracoli: se l’economia reale non torna a tassi di crescita soddisfacenti (almeno a quelli degli Anni Ottanta) e se i mercati di lavoro non forniscono agli europei sbocchi occupazionali continuativi e ben remunerati, le giovani e le nuove generazioni avranno sempre le prospettive di trattamenti previdenziali bassi e di cui potranno fruire solamente in età molto avanzata. E’difficile stimare quali saranno i livelli, anche perché dipendono dai criteri attuariali adottati. Ad esempio, uno studio d’impatto qualitativo condotto per conto della Commissione Europea ha prodotto nel 2013 ben 7.700 scenari possibili, successivamente ridotti a 18 (diminuendo le variabili attuariali) al fine di disporre di uno strumento utile per la formulazioni di politiche. In questo secondo (e ridotto) studio di impatto solamente la Svezia e la Norvegia avevano sistemi sostenibili . Ci si approssimava molto l’Olanda, ma anche Stati che sembravano avere sistemi ben equilibrati (come il Regno Unito, la Repubblica Federale Tedesca, l’Irlanda e le Francia) esponevano disavanzi crescenti delle loro previdenze pubbliche nel medio e lungo periodo. Preoccupante il quadro degli Stati mediterranei, anche dove è in vigore un sistema NDC (come in Italia) perché lunghe fasi di recessioni e stagnazione incidono fortemente (in senso negativo) sui conti previdenziali.
In Italia, come esaminato da chi mi ha preceduto, sarebbe errato non partire dal complesso di riforme già in atto per vedere come meglio tararle alle esigenze dei giovani. I suggerimenti e le proposte non mancano. Ne sono state presentate organiche, nel 2011, dal Center for Research on Pension and Welfare Policies (CeRP) del Collegio Carlo Alberto dell’Università di Torino. Il documento prende l’avvio dalla situazione immediata delle preoccupazioni (anche europee) per la finanza pubblica italiana e ricorda che la riforma del 1995 non sarà completata, a normativa vigente, prima del 2050.
Tali misure possono essere anche l’avvio di un riequilibrio intergenerazione. Da un lato, quanto minore è il fardello totale tanto minore può esserlo per chi in un sistema “a ripartizione” è chiamato a portarlo. Da un altro, con pochi ritocchi alle proposte CeRP si può fare molta strada in materia di equità tra generazioni.
In primo luogo, dopo una fase di riforme, occorrono regole che siano immodificabili per i prossimi 15-20 anni in modo da dare un buon grado certezza a tutti – elemento essenziale per programmare il proprio futuro (programmare la terza età è il principale “diritto” di tutti); ciò può, anzi deve, essere blindato nella legge. In secondo luogo, le regole della previdenza pubblica devono essere uguali per tutti dato che il passato ci insegna che nell’eccessiva differenziazione delle regole si annidano privilegi e ingiustizie. Infine, per il buon funzionamento delle riforme serve l’informazione. È essenziale che l’Inps (e gli altri enti previdenziali) inviino rendiconti periodici ai cittadini in cui siano riportati, per ciascuna posizione previdenziale, la quota di pensione giustificata – in base a criteri attuariali – dalla contribuzione previdenziale effettuata lungo la vita lavorativa e la quota eccedente tale misura. Quest’ultima parte evidenzia infatti quello che può essere considerato il “contributo” della collettività (incluse le generazioni future) alla loro pensione individuale.
Tuttavia, il messaggio principali delle maggiori organizzazioni internazionali ed anche del CeRP è che , pure basate sullo NDC, le pensioni statali o comunque pubbliche solo solamente una promessa che non potrà essere soddisfatta se il quadro economico non migliora in misura significativo , sempre in balia di Governi e Parlamenti che guardano a riforme delle pensioni anche (ove non principalmente) per ‘fare cassa’.
Tale promessa, alle prese con un costante ‘rischio politico’, deve essere affiancata da fondi pensione anche essi gradualmente europei, soggetti sì al ‘rischio finanziario’ ma se sufficienti grandi e diversificati in grado di minimizzarlo, Cosa che non possono di fare i 700 lillipuziani fondi pensione nostrani, tra quelli di ‘vecchia’ e quelli di nuova generazione. Per di più, tali fondi andrebbero incoraggiati fiscalmente non penalizzati (come si è fatto di recente) per essere in linea con standard, criteri e direttive europea (una seconda direttiva europea sulla previdenza complementare è in avanzata fase di preparazione).
L’Italia è stato uno dei primi due Stati a mettere in atto un sistema previdenziale NDC. Ha l’opportunità di avere un ruolo importante nella costruzione di un sistema previdenziale NDC europeo se effettua i correttivi necessari per incoraggiare la previdenza privata.
Ovviamente, tenendo, come avviene nel resto del mondo, i conti previdenziali, pubblici o privati, da spese assistenziali per anziani non capienti- che per loro natura devono essere a carico della collettività non di contribuisce alla previdenza per la tarda età.