pensioni

Statali, un esercito in ritirata

Statali, un esercito in ritirata

Giusy Franzese – Il Messaggero

Colletti bianchi e tute blu in picchiata. Le politiche di austerity con il blocco del turnover nel settore pubblico e la crisi nera nel settore privato stanno decimando i principali due battaglioni dell’esercito dei lavoratori italiani: travet e operai. Ma copiose sono anche le emorragie in altri comparti: dagli apprendisti alle colf, fino ai lavoratori autonomi. A fotografare disagi e difficoltà di un’Italia stremata dalla lunga crisi è il bilancio sociale Inps 2013 illustrato ieri a Roma. Una presentazione interrotta (e poi ripresa) dalle proteste di alcuni precari che hanno fatto irruzione sul palco contestando il ministro del Welfare Giuliano Poletti e il Jobs act.

Emorragia di statali
Nel 2013 i dipendenti pubblici sono calati di altre 64.000 unità, proseguendo un trend iniziato già da anni. Basti pensare che nel 2008 erano 3 milioni e 436.000 e adesso sono 3 milioni e 39.536. La flessione comunque inizia a rallentare: nel 2012 il calo era stato doppio (130.000). In realtà il 2013 è stato l’annus horribilis soprattutto per gli operai: i dipendenti privati sono diminuiti di 313.000 unità, di questi ben 230.000 sono tute blu (-3,5%). Le aziende non assumono più nemmeno gli apprendisti (-4%) e crollano anche i lavoratori auto- nomi (-15,7% gli iscritti alla gestione separata dell’Inps). Con l’aumento dei disoccupati sono lievitate le spese per gli ammortizzatori sociali, arrivate a 23,5 miliardi di euro (+4,1%). Tra cassa integrazione, disoccupazione e mobilità l’Inps ha assistito ben 4,5 milioni di persone (mezzo milione in più rispetto al 2012).

Italiane con la ramazza
Per tamponare le minori entrate familiari e le paure di un futuro opaco, le famiglie hanno iniziato a risparmiare nella spesa per aiuti domestici, le colf per molti sono diventate un lusso che non ci si può più permettere: sono 43.000 in meno rispetto al 2012 (-5,4%). Ma nel saldo si nota anche un altro fenomeno che sembra riportare il calendario a oltre 40 anni fa: aumentano le italiane che per sbarcare il lunario accettano lavori di collaborazione domestica (+2,8% rispetto al 2012). Le colf italiane restano comunque una minoranza: solo il 21% (su un totale di 749.840).

Troppo poveri
Resta sempre troppo affollata la platea di pensionati che vive con meno di mille euro al mese: 6,8 milioni di persone, il 43,5% del totale (erano 7,2 milioni nel 2012) e di questi ben 2,1 milioni non arriva a 500 euro. I pensionati ricchi, con assegni superiori ai 3.000 euro al mese, sono 676.000 (il 4,3%) e assorbono ben 38 miliardi di euro (contro i 52,4 spesi per i 6,8 milioni di pensionati poveri). Intanto iniziano a vedersi i primi frutti della riforma Monti-Fornero: le pensioni liquidate nel 2013 sono costate il 12,7% in meno rispetto al 2012, un risultato ottenuto dal combinato disposto tra il calo del numero dei nuovi pensionati (-5,3%) e la riduzione dell’importo medio mensile (-7,9%). I conti dell’istituto comunque restano in rosso (8,7 miliardi di euro) ma registrano un miglioramento di circa un miliardo rispetto al 2012 quando il disavanzo fu di 9,7 miliardi.

Oltre due milioni di pensioni sotto i 500 euro

Oltre due milioni di pensioni sotto i 500 euro

La Stampa

Nel 2013 quasi la metà dei pensionati (il 43,5%, pari a 6,8 milioni di persone), aveva un reddito pensionistico inferiore a 1.000 euro al mese. Lo si legge nel Bilancio sociale Inps. Oltre 2,1 milioni di pensionati (il 13,4%) aveva un reddito inferiore ai 500 euro mentre quasi il 70% aveva meno di 1.500 euro al mese. Crollo dei lavoratori pubblici nel 2013: rispetto al 2012 – si legge nel Bilancio sociale dell’Inps – sono diminuiti di 64.491 unità (-2,1%). I dipendenti del sottore privato sono diminuiti di 140.195 unità (-1,1%) mentre i parasubordinati hanno perso oltre 100.000 iscritti (-9,3). Nel complesso gli iscritti sono diminuiti di 357.000 unità (-1,6%).

Nel 2013 è salita la spesa per ammortizzatori sociale. Al netto dei contributi figurativi l’esborso dell’Inps è risultata pari a 14.514 milioni, con un incremento di 1.982 milioni (+15,8%) rispetto ai 12.532 del 2012 a cui si aggiunge la spesa per contributi figurativi di 9.077 milioni, la spesa totale risulta pari a 23.591 milioni di euro, con un incremento di 938 milioni (+4,1%) rispetto ai 22.653 milioni del 2012. I lavoratori hanno percepito un ammortizzatore sociale sono stati oltre 4 milioni e mezzo: le prestazioni (tenendo conto che uno stesso individuo può aver fruito di prestazioni di tipo diverso) sono state 4.897.868, contro 4.330.905 del 2012, quindi oltre 560 in più.

L’incremento maggiore della spesa è stato rilevato per l’indennità di mobilità che ha superato il 17%; la spesa per la Cig nel suo complesso è cresciuta del 9,6% mentre la spesa per indennità di disoccupazione è calata dell’1%. La Cig in particolare ha coinvolto più di 1 milione e mezzo di lavoratori (+1,1% rispetto al 2012), la mobilità ne ha interessati oltre 300 mila e la disoccupazione nel suo complesso quasi 3 milioni e mezzo. «L’analisi dei dati riguardanti il numero dei beneficiari di ammortizzatori sociali nel 2013 – si legge nel Rapporto – testimonia il perdurare delle difficoltà affrontate da imprese e lavoratori italiani». La permanenza media pro capite in Cig è stata pari a 2 mesi e 4 giorni lavorativi.

Riforma pensioni, il libro “scomodo” per Renzi

Riforma pensioni, il libro “scomodo” per Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

All’Ecofin di Milano si è trattato estesamente di “riforme strutturali” che i singoli Stati dell’Unione europea, in particolare quelli dell’eurozona, dovrebbero intraprendere perché l’aumento della liquidità, l’abbassamento dei tassi d’interesse e le stesse misure “non convenzionali” che dovrebbero essere adottate tra breve dalla Banca centrale europea abbiano il risultato di rianimare l’economia di un continente all’apparenza sempre più vecchio. Si sono toccati molti temi relativamente all’insieme dei Paesi Ue (mercati del lavoro, dei beni e dei servizi, rafforzamento della concorrenza), nei riguardi di alcuni (ad esempio, della Francia) si è posto l’accento sul sistema previdenziale. Tuttavia, non sono le pensioni italiane uno dei temi che preoccupano il resto dei nostri partner europei.

Siamo stati, con la Svezia, i primi a effettuare , circa venti anni fa, una riforma strutturale, anche se (su richiesta di categorie molto sindacalizzate) abbiamo previsto un periodo di transizione di diciotto anni (a differenza di quello di tre anni della riforma svedese) e, successivamente, abbiamo più volte rimaneggiato la riforma (anche in barba delle sentenze della Corte Costituzionale). Abbiamo, in breve, messo in atto un sistema che Banca mondiale, Fmi, Ocse e, quindi, anche Ue considerano esemplare (nonostante le disfunzioni, peraltro, temporanee causate dal lungo periodo di transizione).

Ciononostante, pure negli ultimi giorni si sono levate voci perché si rimetta mano alle pensioni in essere al fine di evitare riduzioni di spesa in altri settori (quali i costi della politica e il finanziamento, ancora in atto, ai partiti e alla loro stampa). Queste voci – lo abbiamo detto in altre occasioni – preoccupano l’Ue per due ordini di motivi: a) la certezza del diritto in Italia; b) le implicazioni verso quella “unione europea delle pensioni”, essenziale per fare funzionare il mercato unico e l’unione monetaria.

Tutta la costruzione che stanno faticosamente mettendo in piedi il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e delle Finanze si basa sull’aumento della credibilità internazionale dell’Italia. Spetta ad altri, per il momento, decidere se tale credibilità internazionale sia vera o fittizia. Una nuova riforma della previdenza che sconvolga la certezza dei diritti di chi ha già maturato la pensione, oltre a mettere repentaglio la situazione sociale interna e a colpire – come dimostrato da studi Censis ed Eurostat – i giovani (i quali spesso sono mantenuti agli studi grazie alle pensioni dei nonni) più che gli anziani – è la prova del nove che l’Italia della certezza delle regole se ne impipa ed è pronta – unico Paese al mondo (secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro) a fare una riforma della previdenza l’anno spesso solo per la vanagloria di chi vuole associare a essa il proprio nome. Tutto ciò è segnale di poca serietà. Anche in materia di impegni economico-finanziari e di riforme strutturali.

Inoltre, la proposta dell’Eiopa – European Insurance and Occupational Pensions Authority, acronimo poco conosciuto nella galassia delle sigle europee – sta facendo strada: la si può leggere per esteso, nei suoi dettagli tecnici, scaricando il relativo documento. È un testo importante che merita di essere divulgato e discusso: nel futuro dell’Ue, perché l’unione monetaria riesca a funzionare, devono funzionare, a livello europeo, anche i mercati delle merci, dei servizi e dei fattori di produzione (quindi anche quello del lavoro).

Oggi il buon funzionamento del mercato del lavoro è ostacolato non solo da rigidità interne ai singoli Stati Ue, ma anche dalle difficoltà di mobilità poste da profonde differenze nei sistemi previdenziali. La proposta Eiopa, peraltro ben delineata, consiste nel fare confluire contributi pubblici e privati in Personal pension plans uniformi per tutti i lavoratori europei che potrebbero scegliere se utilizzare questa strada o sistemi previdenziali nazionali. In pochi mesi, si è fatto molto più lavoro di quanto si sarebbe immaginato come dimostra questo volume Bce.

È incomprensibile che in un Governo che vuole fare della trasparenza il proprio vessillo il lavoro Bce non sia stato divulgato (se possibile in traduzione come fatto in altri Paesi Ue) e venga quasi considerato un “testo all’Indice dei libri proibiti”), peraltro abolito da anni. Pare sia chiuso a quattro mandate nei cassetti dell’Inps e del ministero del Lavoro. Dal volume, che merita un dibattito approfondito, si deduce che l’Italia è indietro, soprattutto in materia di “seconda gamba” di un eventuale sistema previdenziale europeo (i fondi pensione occupazionali). Ed è questo il tassello su cui puntare. Perché in materia i sindacati non cominciano ad agitarsi?

Questo non è un paese per giovani

Questo non è un paese per giovani

Ilvo Diamanti – La Repubblica

Temo che l’immagine di Renzi cominci a risultare inadeguata per raffigurare il Paese. Troppo “giovane” e “giovanile”. Troppo spavalda e, perfino, esagerata. Rispetto a un Paese che sembra viaggiare – e guardare – in direzione contraria. Cioè, verso il passato. Perché l’Italia mi sembra un Paese sempre più rassegnato. Che ostenta un ottimismo triste, attraversato da rabbia diffusa. È un Paese di pensionati, con tutto rispetto per chi la pensione se l’è guadagnata, dopo anni e anni di lavoro. Però, è difficile non rilevare le tensioni continue intorno al sistema pensionistico. Dal punto di vista sociale e politico. Perché l’età di accesso alla pensione si è “allungata”, per contenere il costo della previdenza pubblica, in una società sempre più vecchia. Dove i pensionati sono oltre 7 ogni 10 occupati. Ma, in questo modo, l’ingresso nel mercato del lavoro per i più giovani si è ulteriormente ristretto. Così la generazione dei padri – e, talora, dei nonni – sessantenni vorrebbe andare in pensione. Ma non ci riesce. Neppure quando il governo, come ha fatto nelle scorse settimane, lo prevede. Ad esempio: per gli insegnanti (cosiddetti) “quota 96”. Che a 61 anni abbiano maturato 35 anni di contributi. Perché, dopo l’annuncio, si scopre che non ci sono le coperture, le risorse. Un po’ com’è avvenuto per gli “esodati”. Un’invenzione linguistica. Participio passato di un verbo che non c’è. Coniato per significare quelle persone sperdute, in “esodo” verso la pensione. Ma rimasti per strada. Pre-pensionati senza pensione. A causa di im-previsti legislativi. Esistono ma non si vedono. Sono “pensionandi”. In attesa che lo Stato trovi le risorse per “pensionarli” davvero, dopo la chiusura anticipata del rapporto di lavoro, negoziata con l’impresa.

D’altronde, l’Italia è un Paese schiacciato dalla spesa pubblica. Dal debito pubblico. Nonostante che il pubblico impiego sia in costante calo. Il 7% in meno negli ultimi 5 anni. Ma circa il 20%, per quel riguarda gli statali. Con l’esito, paradossale, che la spesa pubblica non è calata. Al contrario. Perché, come ha annotato Tito Boeri, alcuni giorni fa su queste pagine, “gli stipendi pubblici in meno si sono trasformati in pensioni in più da pagare, sempre a carico del contribuente”.

Questo Paese di esodati, pensionandi e aspiranti pensionati, come può avere e, prima ancora, “immaginare” il futuro? Al massimo: il presente. Ma, più facilmente, il passato prossimo. Nell’Italia di oggi, nonostante Renzi, il futuro: è ieri. Al massimo, stamattina. D’altronde, non per nulla, questo Paese per vecchi, come io stesso ho rilevato altre volte, sta perdendo e ha già perduto i suoi giovani. Che sono pochi e sempre di meno, visto che i tassi di natalità, in Italia, sono fra i più bassi dell’Occidente. Mentre i tassi di occupazione giovanile scendono e quelli di disoccupazione crescono continuamente.

I giovani: sono “esodati” anche loro. Visto che si contano circa due milioni di Neet, un altro neologismo per significare una popolazione fuori dalla scuola e dal lavoro. Dunque, anch’essa sperduta. Tra le pieghe dell’impiego temporaneo e informale. Protetta dalle famiglie, che offrono loro un ancoraggio, in attesa di una stabilità imprevista e imprevedibile. I giovani. Se ne vanno dall’Italia, se e quando possono. Sempre più numerosi. In particolare, durante i corsi di laurea. Utilizzano l’Erasmus, programma che prevede alcuni mesi di studio presso università straniere in convenzione con quelle italiane. Ma poi, dopo la laurea, ripartono di nuovo. Proseguono la loro “formazione” in altre università straniere. E spesso trovano impiego. Altrove. Perché l’Italia è un Paese di pensionati dove i giovani “esodano”. Soprattutto i “laureati”. Che sono sempre meno. Il 20% della popolazione fra 25 e 34 anni. Cioè, la metà della media Ocse. D’altronde, il saldo fra giovani laureati che escono e vengono, in Italia, è negativo (-1,2%, secondo un Rapporto di Manageritalia). Il peggiore della Ue.

Così, siamo diventati un paese di vecchi, attraversato da inquietudini e paure. Perché, quando si invecchia, crescono e si diffondono anche le paure. E ci si difende dagli altri, chiudendosi in casa. Guardando tutti con crescente sospetto. In Italia, più di due persone su tre diffidano di chi hanno di fronte (Oss sulla Sicurezza, Demos-Oss. Pavia-Fond. Unipolis). Perché ci potrebbero “fregare”. In particolare, preoccupano – e spaventano – gli stranieri che affollano l’Italia, in numero crescente. Perché sono tanti, sempre di più, quelli che arrivano. Con ogni mezzo. In particolare, dal Nord dell’Africa. Non per “piacere”, ma spinti da paure ben più immediate e drammatiche delle nostre. Le guerre, la fame, i conflitti. Fuggono dal loro mondo che è lì, a un passo dal nostro. E intraprendono viaggi brevi ma, spesso, infiniti. Perché finiscono in modo tragico. In fondo al mare. Ai nostri mari che assomigliano a cimiteri liquidi, dove si depositano, a migliaia, i corpi di migranti che tentano di scavalcare il muro che li separa da noi. Il Mare Nostrum che ormai è divenuto un Mare Mostrum. Quel tratto di mare: è un muro, una barriera. Costruita con le nostre paure, per difendere la nostra solitudine, la nostra vecchiaia infelice. Per coltivare la nostra indifferenza.

Noi, l’estremo confine d’Europa. Ultima frontiera di una civiltà senza più civiltà. Senza più pietà. Senza più futuro. Perché se fai partire i tuoi giovani (più qualificati) e tieni lontani quelli che vorrebbero entrare, dal Sud ma anche dall’Occidente, i poveri e i disperati, ma anche i più istruiti e specializzati: che futuro vuoi avere? Al massimo un passato. Sempre più incerto, anch’esso. E annebbiato. Come la memoria. Per questo la rappresentanza, o meglio, la “rappresentazione” offerta da Renzi, oggi, mi appare inadeguata. Troppo giovane e giovanile. Troppo giocosa. Rispetto al Paese: rischia di proporre uno specchio deformante. Difficile predicare la “crescita” se siamo in “declino” – demografico. Se i giovani sono pochi e quando possono se ne vanno. Non basterà, di certo, un gelato a farli rientrare. Né a farci ringiovanire tutti. Più facile, piuttosto, che lui, il premier, rispecchiandosi nel Paese, invecchi presto.

Non disturbare il manovratore

Non disturbare il manovratore

Domenico Cacopardo – Italia Oggi

Con una certa solennità, il capo II della riforma della pubblica amministrazione, nel testo convertito, è dedicato alle misure in materia di organizzazione. Si inizia con le società a partecipazione pubblica: «(…) salva la facoltà di nominare un amministratore unico, i consigli di amministrazione delle società controllate (…) che abbiano conseguito nel 2011 un fatturato da prestazione di servizi a favore di amministrazioni pubbliche superiore al 90% dell’intero fatturato devono essere composti da non più di tre membri, ferme restando le disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità (…) il costo per compensi agli amministratori deve essere contenuto nell’80% di quanto speso nel 2013 (…) per le altre società a totale partecipazione pubblica il numero dei consiglieri non può superare i 3 o i 5 membri (…)».

Queste norme, criptiche e farraginose, meritano qualche spiegazione. Nella prima parte dell’articolo (il 16), si parla, in sostanza, della massa di aziende, nate sotto l’egida della riforma degli enti locali condotta da Franco Bassanini. Si tratta dell’in-house, di società a prevalente partecipazione comunale (provinciale, regionale) che hanno, come scopo sociale, compiti propri dell’ente di cui sono emanazione. Un esempio: per la realizzazione di infrastrutture di loro competenza, molti comuni hanno costituito un’apposita società che gestisce l’intero procedimento. C’è, in questa modalità organizzativa, un non detto: se il comune dovesse appaltare la costruzione di un ponte sul fiume che lo attraversa, dovrebbe applicare le norme europee e indire una gara abbastanza libera che potrebbe essere vinta da un’impresa sgradita al sindaco e ai suoi assessori. Rivolgendosi alla propria società, formalmente, privata, gli amministratori locali pensano che l’operazione sia manovrabile e che, comunque, trattandosi di un soggetto privatistico, come dire, è più difficile che la magistratura intervenga. Una bubbola infondata, vista la severa giurisprudenza penale. Tuttavia, le possibilità di farla franca sono oggettivamente maggiori.

Va notato il 90% del fatturato destinato a servizi della pubblica amministrazione di cui la società è figlia: questa qualificazione mostra come il governo sappia bene la natura distorsiva di questi strumenti organizzativi e di malaffare, ma che ne voglia limitare i costi. Chiamare una norma del genere «riforma» è una inqualificabile mistificazione.

È vero che da qualche giorno si parla di obbligare gli enti locali a liquidare gran parte delle 7/10 mila società e, proprio oggi, il consiglio dei ministri dovrebbe decidere qualcosa. Leggeremo i testi con la solita attenzione, anche se è lecito immaginare che la «vis» riformatrice si limiterà a un piccolo aggiustamento, senza incidere seriamente sul deleterio sistema. La massa di quadri politici che vivono da parassiti e malversatori nel mondo delle aziende pubbliche (che drena una impressionante quantità di denaro dei cittadini e che procura ai partiti risorse non dichiarate) non può essere colpita senza compromettere il patto tra vertici dei partiti e cosiddetta base e, per li rami, il consenso elettorale. Meglio prendersela con i pensionati il cui peso nelle urne non è paragonabile a quello dei quadri di cui sopra.

L’art. 17 della riforma induce all’ilarità: si occupa di «sic!» di ricognizione degli enti pubblici e unificazione delle banche dati delle società partecipate. La solita domanda viene spontanea: è necessaria una legge per una semplice, normale attività amministrativa gestibile con semplici direttive dalla presidenza del consiglio dei ministri? Si pensi che il comma 2 ter, dispone che entro il 15 febbraio 2015 «sono pubblicati sul sito internet istituzionale del Dipartimento della funzione pubblica della presidenza del consiglio dei ministri l’elenco delle amministrazioni adempienti e di quelle non adempienti all’obbligo di inserimento di cui al comma 2 e i dati inviati a norma del medesimo comma. A parte la zoppicante costruzione della frase, immaginate come trema, per esempio, il sindaco di Napoli di fronte alla prospettiva di essere inserito nell’elenco dei «cattivi» che non hanno contribuito all’unificazione delle banche dati nazionali? Purtroppo, questo è il metodo. Questi sono i contenuti.

Quel balletto sulle pensioni dà una mazzata alla ripresa

Quel balletto sulle pensioni dà una mazzata alla ripresa

Renato Brunetta – Il Giornale

Difficile dare torto a Enrico Morando, migliorista doc (la corrente del Pd di Giorgio Napolitano) quando dice che ritornare sul tema delle pensioni è «estremamente negativo, perché la riforma della previdenza pubblica già è stata fatta». Ne avrebbe tuttavia dovuto parlare prima con Pier Paolo Baretta, ex Cisl, ben più possibilista, disposto a salvare solo le pensioni minori: 2.000 euro al mese.

Lordi o netti? Si tratta di autorevoli esponenti della maggioranza parlamentare. Fanno parte non solo dello stesso governo, ma dello stesso Ministero: quello dell’economia. Il primo: vice ministro; il secondo: sottosegretario. Forse era opportuno, prima di procedere ad ulteriori esternazioni, invocare il coordinamento del ministro Pier Carlo Padoan. Che, a sua volta, andando a ritroso nella catena di comando, avrebbe dovuto interessare della questione il premier, Matteo Renzi, che avrebbe, a sua volta, dovuto frenare il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, prima dell’intervista che ha determinato una nuova piccola tempesta estiva.

Se abbiamo rievocato la vicenda è solo per dimostrare lo stato di confusione in cui versa il governo in una materia così delicata, come la previdenza, che interessa circa 16 milioni di persone. Se aggiungiamo che la maggior parte di loro sono capifamiglia, possiamo ben dire che l’argomento è universale. Riguarda tutti gli italiani. Dalla singola pensione non deriva solo il sostentamento del singolo, ma quell’economia familiare – il welfare naturale – che è uno degli antidoti più potenti ai morsi della crisi. Sono sempre più spesso i padri che aiutano i figli disoccupati o con un reddito insufficiente. I nonni che si sobbarcano dell’onere di far quadrare il magro bilancio familiare. Turbare, in modo intermittente, quel delicato equilibrio non è solo un atto inutile di crudeltà. Genera la più generale incertezza. E con essa un’ulteriore contrazione dei consumi – quelli che possono – nel timore di tempi più neri. Risultato: un ulteriore avviluppo della crisi, nella spirale della deflazione.

Ai tanti smemorati della maggioranza, ricordiamo che il contributo di solidarietà sulle pensioni più alte esiste già. Lo ha previsto la legge 486 del 2013: gentile lascito del governo Letta. Colpisce tutte le pensioni superiori a circa 5mila euro netti al mese. Con una progressione che va dal 6 al 18 per cento per quelle superiori a 195mila euro lordi l’anno (circa 10mila netti al mese). In quest’ultimo caso la somma delle due aliquote (quella erariale ed il contributo) porta ad un prelievo marginale di circa il 65 per cento. Siamo al limite dell’esproprio. La rilevanza di questi argomenti spiega il diluvio di prese di posizione che questi propositi hanno alimentato. La ferma opposizione di parti consistenti della stessa maggioranza. Le preoccupazioni dei sindacati e di tutti coloro che operano nel sociale. La nostra stessa dura reazione per porre fine ad un gioco stupido e dannoso. Non sono mancate, naturalmente, le voci dissonanti. Gli economisti della voce.info hanno quasi brindato. Chi condanna senza appello il metodo retributivo non tiene conto del fatto che quand’esso era operante la «speranza di vita» degli italiani – la base di ogni discorso serio sulla previdenza – era di gran lunga minore di quella attuale.

Può sembrare pura necrologia, ma non è così. La logica del pro-rata, vale a dire della sola applicazione «de futuro» delle riforme, aveva quell’origine statistica. Il sistema venne progressivamente modificato – l’ultima volta con la legge Fornero – proprio a seguito dell’allungamento della vita media. L’alterazione del parametro demografico rendeva progressivamente insostenibile, cosa che invece era nel t-n, come direbbero gli economisti della Voce . Ossia nel tempo precedente. Può sembrare fin troppo sofisticato. Ma questa è stata la base materiale di decine di sentenze, sia della Corte Costituzionale (sentenza 116/2013) che della Cassazione (sentenza n. 17892/2014), nel ribadire la non retroattività di quelle disposizioni di legge o atti amministrativi a danno delle pensioni già in essere.

Considerazioni che dovrebbero bastare. Sennonché la logica espropriativa che è alla base delle argomentazioni di chi vorrebbe colpire il presunto privilegio rappresentato da una pensione non di semplice povertà è ancora più devastante. Il parametro numerico è solo uno degli elementi che caratterizzano la relativa equazione. Le altre incognite – altrettanto essenziali – sono date dall’entità dei contributi versati e dal numero degli anni che hanno caratterizzato quel prelievo. Ma di questo non si parla. È semplicemente scomparso dal radar dei nuovi «livellatori». La cosa è paradossale. Se si accettasse la tesi del ricalcolo delle pensioni – passaggio dal «retributivo» al «contributivo» ad essere principalmente colpiti non sarebbero i «ricchi», ma i poveracci. Di fronte a quest’obiezione, le risposte sono state sempre sconcertanti. Il ricalcolo – è stato detto – va applicato solo ai benestanti. Vale dire a quella classe media, considerata la forte progressione delle aliquote Irpef , già massacrata da una pressione fiscale senza precedenti. Si avrebbero, in questo modo, due diversi sistemi di calcolo: vantaggioso per i meno abbienti, punitivo per gli altri. Il tutto, naturalmente, in barba al principio d’eguaglianza – articolo 3 della Costituzione – e della progressività del carico fiscale – articolo 53 della stessa.

Le polemiche di questi ultimi giorni non hanno senso. O meglio hanno un senso traslato, com’è nella migliore tradizione del politicismo italiano. L’indizio è stato fornito da la Repubblica : non solo giornale bene informato, ma molto spesso il vero suggeritore occulto delle posizioni di alcuni esponenti del governo. La polemica è legata all’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Proposta condivisa da tutto il centrodestra. Piuttosto che impegnarsi in una discussione seria su questo argomento, ecco la mossa del cavallo. Alimentiamo un nuovo tormentone sulle pensioni, per arrivare all’inevitabile compromesso: voi la piantate di agitare il tema e noi facciamo lo stesso per le pensioni. Risultato finale? Niente di niente.

È accettabile questo baratto? Lo sarebbe se non avessimo a cuore il destino degli italiani. Insistere sulla maggiore flessibilità del mercato del lavoro, non è un totem: come ama ripetere Matteo Renzi. Ma quel che più conta è che quel freno (non certo l’unico) ha progressivamente azzoppato l’economia italiana, impedendo la crescita della produttività che è il vero ed unico volano dello sviluppo. Ha infatti reso impossibile politiche attive per il lavoro, che sono il volto nascosto che alimenta il denominatore. E se il Pil non si muove – checché ne dicano i cultori della «decrescita felice» – si fermano tutte le altre componenti dell’economia.

Questa politica, che è il sale dello sviluppo economico moderno, può essere sostituita dalla pura redistribuzione del reddito, come traspare dal libro di Gutgeld, il consigliere di Matteo Renzi («Più eguali, più ricchi»)? Che il mercato vada addomesticato è fuori dubbio. Ma da qui a sopprimerne, con politiche cervellotiche, l’intimo dinamismo ce ne corre. Vale un vecchio principio, tratto dalla saggezza contadina. Le pecore vanno tosate, non ammazzate. La loro eventuale macellazione può servire per un grande banchetto, ma il giorno dopo, se non si hanno altre risorse, è lo spettro della fame a prendere il sopravvento.

P.S. Nei giorni scorsi il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, con il suo «Le pensioni non si toccano» ha messo fine al disastroso dibattito agostano sulle pensioni. Bene, anche se la frittata è difficilmente rimediabile. I 16 milioni di pensionati non si fidano più. Con tutto quel che ne conseguirà in termini di incertezza. Come farsi del male inutilmente. E lo diciamo con amarezza e grande preoccupazione.

Sbagliato l’assalto alla previdenza

Sbagliato l’assalto alla previdenza

Walter Passerini – La Stampa

Puntuale come una sagra paesana, ogni fine agosto si celebra il tormentone delle pensioni, fatto apposta per demotivare il ritorno al lavoro e il rientro dalle vacanze. Le sembianze quest’anno vanno sotto il nome di prelievo di solidarietà, su cui si cimentano ministri, politici, contabili, liberisti, sovietologi e alchimisti vari. Alla insostenibile leggerezza degli assegni (l’importo medio annuo è di 11 mila euro lordi) si accompagna l’insopportabile leggerezza di Catoni e Censori che si divertono a gettare alcol sul fuoco, aumentando l’incertezza degli italiani e il loro umor cupo. Sulle pensioni non si scherza, simboleggiano e sostanziano non solo la capacità di avere un reddito, ma anche il patto di coesione sociale su cui si fondano le comunità e il patto di fiducia sui diritti acquisiti e sul futuro. Non può essere unicamente economico e contabile, quindi, il parametro su cui impostare la riapertura del cantiere pensioni, ad alcune condizioni.

La prima è che non si può fare cassa con la previdenza: le pensioni non sono né un bancomat né una slot machine. Gli eventuali risparmi della spesa previdenziale devono restare nel sistema previdenziale stesso. La seconda è che le pensioni non sono un campo di battaglia in cui consumare vendette: le storture ci sono, le ingiustizie pure (vedi i vitalizi di politici e parlamentari), e Robin Hood non è più in attività. Il rischio è illudere le masse che togliendo ai super-ricchi possano goderne i poveri. I Paperoni che guadagnano più di 20 mila euro lordi al mese sono 540, mentre sopra 3 mila al mese lordi ci sono 505 mila pensionati, che valgono 38 miliardi l’anno: poca cosa se li si vuole tassare al 10% con un prelievo di solidarietà. Il paniere si restringerebbe ulteriormente alzando l’asticella a più di 5 mila euro lordi al mese, che riguarda 140 mila individui, il cui sacrificio sarebbe ancora più inconsistente. I rimedi sinora proposti avrebbero un significato più simbolico che concreto. Nessuno ha oggi una ricetta del tutto convincente, anche perché per accontentare i contabili si abbassa l’asticella e l’alta tensione diventa micidiale. Cinque possibili le strade su cui far convergere opinione pubblica ed esperti, se si vuole dettare l’agenda ai politici. La prima è la costituzionalità, più ancora dell’efficacia, dell’eventuale prelievo di solidarietà. Già due recenti sentenze della Corte Costituzionale lo hanno bocciato. Sarebbe necessario un Fondo previdenziale, i cui proventi dovrebbero restare nel sistema pensionistico stesso.

La seconda è il valore delle pensioni. Il sistema contributivo riduce di un terzo il reddito medio percepito e rischia di creare una generazione di poveri. Oggi ci sono 13 milioni di pensioni retributive e solo 360 mila pensioni contributive, a cui vanno aggiunti 1,1 milioni di pensioni miste. Ma nel prossimo futuro il rapporto si rovescerà, creando potenziali bombe sociali nei sistemi di welfare.

La terza strada è il diritto all’informazione. Mentre il sistema retributivo legava con un coefficiente la pensione a stipendi e anni lavorati, oggi e domani la pensione dipenderà dai contributi effettivamente versati. Il cambiamento produrrà effetti depressivi sui redditi più bassi e insostenibili paradossi: chi vorrà lavorare oltre i 69-70 anni avrà una pensione superiore al 100% degli stipendi percepiti; i giovani e le donne, con una vita contributiva discontinua, si vedranno decurtare il reddito del 30%.

Per questo, ed è la quarta strada, si rende necessaria la busta arancione, un sistema di comunicazione che permetta ai cittadini di conoscere l’ammontare dei propri contributi e la simulazione del futuro assegno pensionistico. Cittadino informato, cittadino salvato? Forse nemmeno questo basterebbe, se non venisse affiancato, ed è la quinta strada, da un robusto rafforzamento della previdenza integrativa, più collettiva che individuale, per integrare un assegno pubblico che si preannuncia modesto. La questione previdenziale va legata alla questione del lavoro. Non si risolve trattenendo al lavoro più a lungo le persone, ma aumentando le entrate di nuovi lavoratori e di nuova linfa contributiva. E’ solo la creazione di nuovo lavoro che garantirà la sostenibilità del sistema pensionistico nel futuro.

Macché pensione, trasferiamo gli statali

Macché pensione, trasferiamo gli statali

Vittorio Feltri – Il Giornale

Quando si parla di pensioni, in tivù e sui giornali, immancabilmente si prende di mira la ex ministra Elsa Fornero, colpevole, secondo la vulgata, di essersene infischiata degli esodati.

I quali invece sono vittime di un sistema perverso denominato prepensionamento: certi lavoratori si dimettono, incentivati dal datore di lavoro, poi si trovano in brache di tela perché nel frattempo lo Stato ha modificato le regole. Esso ha deciso che non si va più in quiescenza a 63 anni, ma a 68. Di modo che uno sfigato che avesse scelto di collocarsi a riposo in base alle vecchie norme, piomba nella spiacevole situazione di non ricevere più lo stipendio dalla ditta (che lo ha liquidato con fior di quattrini) e neppure l’assegno dell’Inps, in quanto non ha ancora maturato l’età per incassarlo, per effetto delle modifiche nel frattempo intervenute.

Che colpa ne ha la Fornero? Nessuna. Ella infatti si è limitata a varare una legge – da tutti approvata in Parlamento – tenendo conto dei dati forniti dalla Previdenza. Sono sbagliati? L’ente previdenziale si batta il petto.

Negli ultimi tempi, esodati a parte, le cose si sono ulteriormente complicate. L’amministrazione pubblica recentemente si è alleggerita di 260mila dipendenti. E uno è portato a dire: ottimo, tanti stipendi in meno da versare, un bel risparmio. Un corno. Perché un impiegato statale che va in pensione continua a costare allo Stato la stessa cifra: prima riscuoteva lo stipendio, ora incassa l’assegno di quiescenza, e il risultato finale non muta. Sempre soldi pubblici incamera. E così via.

Il problema va affrontato diversamente. Le persone oggi sono più in forma rispetto a 20 o 30 anni fa e possono continuare a prestare servizio sino in tarda età. È da stupidi spedirli a casa quando sono ancora efficienti. Conviene trattenerli e trasferirli, semmai, in uffici carenti di personale e bisognosi di assunzioni. Chi cessa si recarsi al lavoro perché bacucco peserà sui bilanci per qualche anno, poi andrà al Creatore e non costerà più nulla. E chi invece continuerà l’attività fino al limite della vecchiaia si guadagnerà la paga in un settore o in un altro, indifferentemente. È un fatto che il numero complessivo dei dipendenti pubblici vada ridotto al massimo, ma non scaricando gli esuberi sulla cassa pensioni, bensì evitando nuove assunzioni.

Obiezione: e i giovani, a quale occupazione possono aspirare? I mestieri da imparare sono tanti, non esistono solo le scrivanie della burocrazia. In Francia, l’agricoltura è la colonna vertebrale dell’economia, da noi è la cenerentola. Perché? Evidentemente, il contadino, il pastore, l’allevatore, il produttore di formaggi e confetture varie non godono qui di buona fama. È assurdo. Segno che i nostri giovani hanno una mentalità retrograda e non capiscono che lavorare in campagna richiede una cultura specialistica profonda, sicuramente non inferiore dal punto di vista qualitativo a quella di uno che timbra carte e sbriga pratiche allo sportello di un ente (spesso inutile).

Serve una svolta. Occorre passare dal culto della camicia bianca alla gioia del fare. Creare ricchezza e non scartoffie è un’esigenza primaria. Quanto ai pensionati, bisogna selezionare: i minatori (categoria estinta) hanno diritto ad appendere il piccone a 60 anni, ma chi ha maneggiato la penna tutta la vita vada avanti a farlo sino a 68–70 anni. Dov’è il dramma? I calli alle dita? Una volta si diceva: lavorare di meno, lavorare tutti. Aggiornarsi: lavorare di più e fino in tarda età, senza aggravare la spesa sociale che non ci possiamo più permettere. I ragazzi si ingegnino. Emigrino come fecero i nostri padri e i nostri nonni, si inventino nuovi mestieri come noi ci inventammo.

Mi scuso se mi cito. All’inizio degli anni Settanta non esistevano le tivù private. Furono quelli della mia generazione – io compreso – a inaugurare il filone: dal nulla mettemmo in piedi delle antenne. Che all’inizio facevano schifo. Poi ci specializzammo e le emittenti locali spopolarono, fecero fortuna.

Qualcuno di noi guadagnò parecchio, altri – meno bravi o meno fortunati – rimasero al palo, c’est la vie. Il famoso terziario si sviluppò negli anni Ottanta. Prima non si sapeva neanche cosa fosse. Ogni epoca offre occasioni e impone il superamento di vari ostacoli. Darsi da fare è l’unica soluzione. Lo Stato non può e non deve essere una balia. Arrangiatevi, fratelli, nipoti e cugini.