pil

Ridicolo far festa per il Pil a +0.5%

Ridicolo far festa per il Pil a +0.5%

Davide Giacalone – Libero

Le campane del Fondo monetario internazionale suonano a morto, per l’Italia, ma da noi si offrono confetti. Il medico che comunicasse una diagnosi fatale, o l’avvocato che mettesse a parte il cliente dell’irrimediabile sconfitta giudiziaria, considererebbero matti gli interessati, se li vedessero festeggiare. Da noi si brinda per dati pessimi. Ed è segno che si è così fuori di testa al punto da negare l’evidenza dei numeri.

Dicono politici, giornali e opinionisti nostrani: secondo l’Fmi l’Italia crescerà più del previsto. Evviva. Dicono i numeri che la stima di crescita del prodotto interno lordo, per il 2015, s’inchioda allo 0,5%. Considerato che il governo ha appena previsto una crescita dello 0,7, a me pare qualche cosa in meno, non in più. Già, si obietta, ma è una stima al rialzo, perché prima il Fmi prevedeva solo 0,4. Peggio mi sento, perché l’incremento, dovuto alle politiche espansioniste della Banca centrale europea, è calcolato in +0,3 per l’eurozona e +0,1 per l’Italia. La nostra crescita incrementale è pari a un terzo della media europea. E non basta, perché la crescita 2015 dell’eurozona è stimata all’1,5 mentre la nostra, come detto, allo 0,5.

Dunque: fino a ieri noi rabbrividivamo all’idea di crescere solo la metà della media europea, mentre ora festeggiamo il crescere solo un terzo. Sono numeri da paura. Ma fa ancora più paura l’incoscienza e la superficialità di chi li commenta con il sorriso di compiacimento. Finalmente si rivede la crescita. Questa è la straordinaria fesseria che sentiamo ripetere. Taluni, e son tanti, hanno l’attenuante di non sapere di che parlano, ma altri hanno l’aggravante di far finta di non sapere cosa diavolo dicono. Tutti popolano la Repubblica dei bonus, quella in cui si redistribuiscono i soldi nel mentre si accresce il debito.

Una classe dirigente che si rispetti, fatta di politici, ma anche di cattedre e opinionisti, dovrebbe avere il coraggio di partire dalle previsioni (quelle del Fmi coincidono con quelle della Banca d’Italia) per dedicarsi a come modificarle, prendendo atto che segnano un sicuro insuccesso italiano, con un aumento del nostro svantaggio competitivo. Da lì si dovrebbe passare ai possibili rimedi. Ad esempio: la nostra macchina produttiva ha dimostrato, con le esportazioni, di avere un motore capace di ruggire, anziché dilapidare ricchezza blandendo elettori si potrebbe concentrare la spinta laddove la si crea, arricchendo tutti, elettori compresi. Ma quelli di domani, mentre ci si occupa solo di quelli odierni. Una classe dirigente non degna di rispetto, invece, prova a negare la realtà, allo scopo di tirare avanti senza farci i conti, Nel frattempo concentrando tutte le energie in partite certo non prive di rilevanza, ma estranee alla sola vitale: la capacità di riprendere la via della crescita, ad una velocità almeno pari a quella degli altri europei. È la sola condizione capace di farci reggere il peso del debito. Il resto è fuffa.

Terno perso

Terno perso

Davide Giacalone – Libero

La pressione fiscale sarebbe dovuta scendere, sia per promesse fatte che per convenienza, invece è salita. La spesa pubblica sarebbe dovuta diminuire, invece è cresciuta. Il deficit avrebbe dovuto ridursi, invece è aumentato. Sono questi i tre dati che se ne infischiano delle chiacchiere. I tre numeri con cui fare i conti. Anche perché, se si fa finta di niente, sono tre piaghe già infette, ma destinate a peggiorare.

Della pressione fiscale, salita dal 43,4 del 2014 al 43,5 del 2015, hanno parlato in tanti. Con animo mesto. Molti, però, hanno dimenticato due dettagli: a. l’indice misura la pressione totale sulla ricchezza prodotta, ma non tutti pagano tutte le imposte e tasse, il che vuol dire una pressione che supera il 50% in capo al parco dei paganti; b. per far tornare i saldi, fra gettito e spesa pubblica, il governo ha promesso di aumentarle ancora. Di quanto? Presto detto: il differenziale fra gli interessi da pagare (grazie alla Banca centrale europea in netto calo), sul debito pubblico, e la crescita del prodotto interno lordo, che il governo ora stima allo 0,7%, con un tasso d’inflazione che, se va bene, si collocherà all’1% (ma al momento siamo ancora in deflazione, quindi è ottimistico), quel differenziale è di circa 3 punti di pil. E si tratta di un calcolo ottimistico. Fin troppo. Quei 3 punti o sono tagli della spesa o sono coperti da gettito fiscale.

Veniamo alla spesa, dunque. Sono anni che ci rintontoniamo con i tagli. Li abbiamo definiti lineari o mirati, considerandoli macelleria o chirurgia, poi li abbiamo chiamati in inglese (spending review), che fa più fico, infine abbiano nominato cinque successivi commissari, incaricati di programmarli e praticarli. A esito di questa interminabile ammuina, la spesa cresce. Un tempo si dava tutta la colpa agli oneri del debito, che da venti anni bruciano gli avanzi primari. Ma da un paio d’anni quegli oneri diminuiscono, pur restando enormi (figli dell’enorme debito). Allora, dove se ne va tutta questa spesa, crescente? Scorre nei canali della spesa corrente, sommando interessi sul debito, pensioni, stipendi e consumi intermedi della pubblica amministrazione. Del debito si è detto (abbatterlo con le dismissioni di patrimonio pubblico sarebbe saggio, ma qui vediamo solo vendite destinate a coprire la spesa!). Sulle pensioni si è già tagliata la spesa, ma futura, di quelli che ancora non la prendono, mentre su quella presente si attende che Tito Boeri, dall’Inps, presenti qualche idea. Gli stipendi aumenteranno, sia perché aumentano le assunzioni, sia perché anche gli scatti automatici sono fermi da anni. In quanto ai consumi della pubblica amministrazione, non ricordo più da quanti anni sento dire che le stazioni appaltanti dovrebbero diminuire drasticamente, gli acquisti debbano essere centralizzati e così via annunciando. Effetti reali: tanti convegni. E anche tanti numeri dati a caso, perché dietro molti risparmi sbandierati si nasconde uno spostamento delle voci di spesa.

A tutto questo aggiungete che i mitici 80 euro in busta paga altro non sono che una spesa. Il governo se ne lamenta, perché vorrebbe contabilizzarli fra gli sgravi fiscali. Gema pure con comodo, ma le regole della contabilità sono chiare: una roba che non è permanente e che non è oggettiva e generale (un autonomo che guadagna meno di un dipendente non ha visto e non vedrà gli 80 euro), non è uno sgravio, ma un regalo. Il governo ha scelto un preciso pezzo della società e gli ha regalato dei soldi, il che comporta, ogni anno, una copertura pari a 10 miliardi. Sicché non si stabilizzano, non si allargano e la spesa cresce. Così anche il deficit. Che forse è il punto più delicato, sicché qui lo scrivo e che nessuno lo legga: non solo è cresciuto al 3%, segnando un +0,1 rispetto al 2013, ma nel 2014 sarebbe dovuto scendere al 2,6. Quindi, rispetto al programmato, è cresciuto dello 0,4. E che sia veramente al 3% è un articolo di fede cui tutti hanno convenienza a credere, perché l’Unione europea sa bene che avviare una procedura d’infrazione può avere effetti disastrosi, ma cui nessuno crede.

La settimana prossima vedremo i conti del Def (documento di economia e finanza), ma già immagino quel che si dirà: il deficit non cresce. Peccato che dovrebbe quasi dimezzarsi, scendendo all’1,7. Il deficit è la contabilizzazione, in corso d’anno, del maggior debito l’anno successivo. E un Paese con un debito mostruoso dovrebbe farlo scendere, non salire. Sappiamo tutti cosa è stato detto alla Commissione europea: se le cose dovessero andare storte compenseremo, con nuovo gettito fiscale (Iva, in primis). Ebbene: le cose sono storte. È incosciente un governo che prova a negare l’evidenza e continua a far propaganda a tre palle un soldo (naturalmente a debito). È sciocco supporre che si possa risolvere la faccenda dando tutte le colpe al governo (80 euro e assunzioni sì, però). Ma è perso un Paese che supponga di scansare la realtà producendosi nella tarantella delle polemicuzze da cortile.

Occultati i dati Confindustria su Pil: nascondono la mancanza d’ossigeno

Occultati i dati Confindustria su Pil: nascondono la mancanza d’ossigeno

Davide Giacalone – Libero

I numeri non mentono mai. Tutto sta a non truccarli, non darli a vanvera e non fraintenderli. Non interessa, qui, far polemica sulle previsioni sbagliate, né è saggio usare i problemi reali come randelli per risse politiche. Ma la realtà va conosciuta e da quella si deve partire per proporre soluzioni. Ebbene: dai giornali è sparita la previsione di crescita, elaborata dal Centro studi Confindustria, per il primo trimestre 2015: +0,2%. Cancellata. Il quotidiano degli industriali, Il Sole 24 Ore, la riporta in modo surreale: «si consolida la ripresa nel primo trimestre». Ci stiamo nascondendo la realtà, o proviamo a mistificarla. Ed è grave.

Il 28 gennaio scorso, quindi appena ieri, lo stesso Centro studi prende una crescita del prodotto interno lordo, nell’anno in corso, al 2,1. Magari! Cuor contento il ciel l’aiuta, ma quel numero ci sembrò stupefacente. In tutti i sensi. ll Centro insisteva, anche perché, sostenevano, per il primo trimestre è “acquisita” una crescita della produzione industriale dello 0,5%. Dunque: se quella la si considerava una fondata speranza, ora si deve parlare di sicura delusione, visto che a gennaio la produzione ha fatto ­0,7 e si spera che febbraio segni un +0,4, che non compensa. E, come abbiamo già documentato, le proiezioni più serie ci danno sì con il pil in crescita, ma sempre meno della metà dell’Eurozona. Il problema è grosso, quindi.

Guardando dentro quella, pur millimetrica, crescita ci si accorge che discende tutta dalle esportazioni. E, fra quelle, deriva dalla crescita delle esportazioni verso gli Stati Uniti (+49,3 in un anno, calcolato a febbraio). Ergo: a determinare la (troppo piccola) crescita è la capacità dei nostri esportatori, ma quella c’era anche prima, c’era anche mentre restavamo in recessione, a far la differenza è la svalutazione dell’euro sul dollaro e la diminuzione dei costi energetici. Tutta roba che non dipende da noi.

Ripeto: lasciamo da parte le polemiche di cortile, inutili, ciò che conta è che qui non è ancora successo niente che possa smentire una previsione di crescita annua che non solo è troppo bassa, ma è destinata ad aumentare il nostro svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi europei, Germania in primis. Gerhard Schroeder, che di quelle riforme tedesche fu l’autore politico, oggi punta il dito su quel che ripetiamo da tempo: il problema non è la Grecia, ma la Francia e l’Italia.

Si chiede: «cosa può succedere se queste due importanti nazioni non aumentano la loro capacità produttiva e non sanno migliorare la loro competitività?». Lascia in sospeso l’interrogativo, ma è chiaro che teme il risorgere di tensioni ingovernabili, fin qui anestetizzate dall’opera della Bce. Ebbene, i dati che sono stati nascosti dimostrano proprio quello: non stiamo aumentando e non stiamo migliorando. Per riuscirci dobbiamo approfittare dei bassi tassi d’interesse, che aiutano a lenire il dolore sociale di riforme che tolgano sicurezze e diritti acquisiti, aprendo a meritocrazia e competizione. Ma è una parentesi breve. Approfittarne significa tagliare la spesa pubblica corrente e aumentare quella per investimenti. Il contrario di quel che si è fin qui fatto, visto che si sono tagliati i secondi. E il contrario di quel che ci si propone di fare, assumendo nuovi dipendenti pubblici senza concorso e selezione.

Significa usare la vendita di patrimonio pubblico per abbattere il debito, mentre oggi se ne usano i proventi per tenere sotto controllo il deficit. Significa restringere il perimetro dello Stato, laddove ancora lo si allarga. Significa diminuire stabilmente la pressione fiscale e stabilizzare la normativa, mentre ancora cresce e il satanismo erariale raggiunge vette inimmaginabili, con il contribuente minacciato di indagini se solo osa mettere nella dichiarazione le spese mediche. Questa, e altra, è la roba che ci tiene inchiodati. E non serve a un accidente occultare i numeri sgraditi, o limitarsi a commentare: finalmente si rivede il segno positivo. In un’afosa giornata d’agosto anche chi precipita da un grattacielo sente un po’ d’aria circolare. Meglio che se la goda in fretta.

I segnali di una ripresa con i piedi d’argilla

I segnali di una ripresa con i piedi d’argilla

Stefano Manzocchi – Il Sole 24 Ore

Nel districarci tra le recenti previsioni economiche per il nostro Paese, e parafrasando Mao Tze Tung, potremmo dire: grande è la confusione sotto il cielo, speriamo che la situazione divenga eccellente. Nelle ultime settimane si sono susseguiti molti aggiornamenti delle stime del Pil italiano nel 2015/16, accompagnati da interpretazioni e comunicazioni che talvolta sono apparse piuttosto discordanti. Il mestiere del previsore economico di questi tempi è arduo: per anni le stime della crescita italiana (e in generale europea) sono state riviste al ribasso trimestre dopo trimestre. La crisi finanziaria, il lento deleveraging, la brusca contrazione del commercio mondiale nel 2009, e poi le difficoltà ancora irrisolte dell’Eurozona e delle sue politiche economiche che ci hanno condotto in deflazione.

Tutto ha contribuito a frustrare le aspettative (le speranze?) di una ripresa sostenuta e generalizzata. Per comprendere le pene del previsore, occorre tener conto di almeno tre aspetti. In primo luogo, il potenziale di crescita dell’Italia e dell’Europa appare modesto rispetto a qualche decennio fa, e inferiore a quello di altre macro-aree mondiali. La crescita potenziale è quella che si stima quando c’è pieno impiego dei fattori produttivi, e dipende dalla crescita degli input e della loro produttività. Ci si riferisce qui alla cosiddetta Produttività Totale dei Fattori (PTF), che in Italia ristagna da molto tempo: nei 12 anni prima della crisi è diminuita dello 0,14% in media annua, mentre aumentava anche di 2 o 3 punti l’anno in tutti gli altri Paesi Ue eccezion fatta per la Spagna (-0,18%).

L’aumento della PTF è favorito da molti elementi, ad esempio innovazione, progresso tecnico, introduzione di nuovi beni e servizi, buone istituzioni e giusti incentivi per gli attori economici. Rilevano a tal proposito la qualità del capitale umano, lo sviluppo del sistema finanziario locale, le infrastrutture di trasporto che ad esempio sembrano dar conto di circa il 10% della dinamica della competitività manifatturiera in Italia.

Ma le stime della crescita potenziale sono di scarso aiuto quando si tratta di fare previsioni a medio termine per un Paese, o un Continente, dove l’output gap (scostamento del Pil effettivo da quello potenziale) è così pronunciato come in questa fase. L’Italia è sotto di un decimo rispetto al Pil degli anni pre-crisi, e di un quarto se consideriamo la produzione industriale, secondo le valutazioni più accreditate. Quanto di tale scostamento dipende dal vuoto di domanda generatosi dopo la crisi, o invece dagli “shock strutturali” che hanno investito la nostra economia rendendo meno competitive le nostre risorse strumentali ed umane? Tra questi shock, non possiamo trascurare l’avvento della moneta unica che ha cristallizzato l’enorme surplus commerciale tedesco che grava tuttora sui destini dell’Eurozona, nonostante i proclami della Commissione Ue di sanzionarlo.

L’ulteriore difficoltà per il previsore è che la crescita potenziale e i divari di competitività sono interconnessi: la stasi della nostra PTF dal 1995 ha deteriorato nel profondo la competitività dell’industria italiana che all’esplodere della crisi globale si è scoperta più vulnerabile di altre. E sarebbe illusorio immaginare che il mercato interno da solo possa nel medio termine sostenere l’industria: remano contro la nostra demografia, tecnologia e distribuzione del reddito.

Stretto tra tendenze della crescita potenziale, output gap e divari di competitività, il previsore economico ha spesso un compito difficile. Anche gli sviluppi recenti, come il crollo del prezzo del petrolio, si possono leggere in modo opposto: come stimolo alla crescita per la maggior competitività delle imprese importatrici di energia e per la spinta ai consumi per via dell’aumento del potere d’acquisto; oppure come ulteriore tassello di un quadro deflazionistico assai preoccupante per un’economia che “danza” su oltre 2000 miliardi di debito pubblico (si veda la nota di Nomisma del 16 gennaio 2015 – Insidie petrolifere). Gli spunti di ripresa sembrano tuttavia confermati dalla batteria di indicatori che Il Sole 24 Ore pubblica in questo numero e che provengono da fonti diverse, anche se non mancano come sempre segnali discordanti. La sensazione complessiva è che molte condizioni sistemiche per un’inversione di tendenza della congiuntura si siano materializzate, come confermano i principali istituti di ricerca italiani e internazionali. Ma la fragilità dell’Eurozona ha radici profonde, e senza nuovi sviluppi istituzionali e una diversa rotta delle politiche comunitarie, le prospettive economiche sono tuttora esposte a molte incertezze che possono minare la fiducia degli operatori.

Dati non dati

Dati non dati

Davide Giacalone – Libero

Cresciamo meno della metà dell’eurozona, non riuscendo a riassorbire la disoccupazione. Ciò dovrebbe imporre, a tutti, il tema di cosa fare per rimediare. Invece si cerca su chi scaricare la colpa, agevolati dal fatto che al governo hanno appena provato a prendersi il merito di dati e previsioni di pura fantasia. Nelle scorse settimane abbiamo letto di previsioni di crescita del prodotto interno lordo, per l’anno in corso, del 2,1%. Alcuni, più prudenti, supponevano un +1,6. Domandavamo: da dove arriva questa manna? Rispondevano: dal calo del petrolio e dalle politiche espansive della Banca centrale europea. Più le meravigliose riforme già fatte e che solo chi si picca di leggere i documenti non riesce a vedere.

Ora arriva la previsione della Commissione europea: 1’Italia dovrebbe crescere dello 0,6%. Dopo tre anni di recessione. L’intera zona dell’euro, noi compresi, è data in crescita dell’1,3%. Considerato che in quella media ci siamo noi, ed è già più del doppio della nostra, risulta evidente che gli altri crescono allargando il distacco. Le cose non andranno meglio nel 2016, perché è vero che noi dovremmo crescere dell’1,3, ma l’area e previsto che faccia +1,9. Lo svantaggio relativo diminuisce solo dello 0,1, mentre quello assoluto cresce. Tale crescita, inoltre, non è il frutto delle riforme che facciamo all’interno, ma del trascinamento che subiamo dall’esterno, tanto è vero che un’eventuale flessione della domanda globale è segnalata come possibile causa di problemi nei nostri conti. Sono le esportazioni a funzionare, prevedendosi un saldo attivo del 2,6 fra importazioni ed esportazioni. Ciò vuol dire che a tirare la carretta ci sono le aziende che esportano, agevolate da null’altro che dal deprezzamento dell’euro. Cioè da quel che non dipende da scelte politiche compiute all’interno dei nostri confini. Occhio a quel che segue.

Nelle stime fatte a novembre si prevedeva una crescita del nostro pil dello 0,6. Esattamente quella che si prevede ancora oggi. Ma si pensava che quella crescita avrebbe portato al 12,6% la disoccupazione, nel corso del 2015. Posto che il 2014 si era chiuso con la disoccupazione al 12,9. Ora, invece, si corregge la previsione, peggiorandola: dovremmo chiudere l’anno con il 12,8% dei disoccupati. Ovvero quelli che abbiamo oggi. Ma non ci era stato raccontato che solo a gennaio si erano creati 100mila posti di lavoro? Peccato fossero 94mila e compensassero a malapena gli occupati persi da ottobre. Nel 2016 dovremmo trovarci con il 12,6% di disoccupati, quindi con un calo dello 0,2. Nessuno, intellettualmente onesto, può sostenere che sia colpa di questo governo, visto che scontiamo una lunga e devastante perdita di competitività e crescita dei costi interni. Però nessuno, intellettualmente onesto, può continuare a vendere la balla che le riforme denominate all’inglese sono in grado di mettere al lavoro i disoccupati in vernacolo. L’Italia arranca e scivola anche perché al gran clamore delle polemiche seguono risultati striminziti e contraddittori.

E veniamo ai conti pubblici, dove si trova la polpetta avvelenata, fin qui nascosta agli italiani. Qui la Commissione si fa prudente, perché i conti italiani devono ancora essere rivisti. Fin qui siamo alla fede rispetto a quel che dice il nostro governo. E sentite che dice: nel 2014 il deficit è stato al 3% (che il cielo ci assista e che non si trovi nulla a farlo crescere); nel 2015 sarà del 2,6; nel 2016 del 2. Come si ottiene questo risultato? Mediante l’aumento del gettito fiscale. Avete letto bene. E io lo leggo nelle carte europee: perché aumenta la pressione fiscale. Laddove ci era stato detto che sarebbe diminuita nell’anno in corso. La verità è che rispetto ai conti a sua volta fatti dal governo italiano c’è una imponente novità, ovvero la Bce che fa scendere significatívamente il costo del debito pubblico. Bravissimi, ma com’è, allora, che tale meravigliosa cosa non produce da sola, senza tasse, la discesa del deficit? Risposta: perché non sono capaci d’imbrigliare la spesa pubblica. Vedi al capitolo Collarelli e secretazione dei suoi lavori. Saldo finale: debito pubblico che cresce al 133% del pil quest’anno e si spera scenda (si fa per dire) al 131,9 il prossimo.

Torno da dove sono partito: dobbiamo chiederci cosa fare per disincagliare l’Italia, posto che il motore produttivo funziona, come dimostrano le esportazioni. Rispondiamo: abbattimento del debito, mediante dismissioni; tagli della spesa corrente; tagli alla pressione fiscale; smantellamento della pressione burocratica. I dettagli illustrati molte volte. Ma, prima di tutto, piantiamola di prenderci per i fondelli fa soli. Operazione impossibile per la fisica, ma praticata dai parolai.

Doccia fredda sulla crescita 2015, Italia bloccata dalle tasse locali

Doccia fredda sulla crescita 2015, Italia bloccata dalle tasse locali

Oscar Giannino – Il Mattino

Le stime economiche sul 2015 diramate ieri sono una bella secchiata di ghiaccio sui recenti entusiasmi italiani. In sintesi, nel 2014 nell’euroarea solo Cipro, col suo Pil che ha segnato -2,8%, ha fatto peggio dell’Italia che ha chiuso a -0,5%. Nel 2015 l’Italia e Cipro restano i fanalini di coda, con previsioni di crescita ferme a +0,6% nel nostro caso e a +0,4% per i ciprioti. E nel 2016 Cipro ci spera, con un +1,6% rispetto al nostro +1,3%. La nostra disoccupazione non scende dal 12,8% nel 2015 e scende solo al 12,6% nel 2016. Certo, il 12,6% dell’Italia non è paragonabile al 26,6% della Grecia o al 24% della Spagna, ma in due anni in questi paesi è previsto che scenda di 4 punti. Se volete, consolatevi con fatto che la Commissione crede che il deficit italiano resterà al 2,6% del Pil, sotto il livello di guardia del 3%.

Perché restiamo in coda?
La scheda riservata all’Italia spiega esaurientemente perché Bruxelles non sia affatto convinta delle stime di crescita 2015 fino al 2% recentemente rilasciate nel nostro paese (ma attenti che Bankitalia prudentemente non si è ancora discostata dal +0,4% che risale a novembre scorso). Quel misero +0,6% attribuitoci nel 2015 dipende da consumi interni che non possono contribuire per più dello 0,3%, e per un traino dell’export che vale +0,4%, mentre le scorte hanno un effetto negativo del -0, 1%. La propensione al risparmio dovrebbe salire invece dal 12,2% del reddito disponibile al 13,1%, continuando a far arrabbiare il presidente del Consiglio e i suoi consiglieri che la considerano un «arricchimento» degli italiani. Non è cosi. Trovandosi ad aver perso il 10% del valore reale della loro ricchezza netta e con un reddito reale procapite diminuito per effetto della disoccupazione e dell’innalzamento di tasse locali e tariffe pubbliche, gli italiani mettono da parte e non consumano, perché non si fidano di aumenti ancora maggiori fiscali – previsti in legge di stabilità per decine di miliardi negli anni 2016-2018 – contributivi – scattati da inizio gennaio per artigiani, commercianti e iscritti alla gestione separata Inps – e di tariffe delle municipalizzate.

Ma il Jobs Act e gli incentivi all’assunzione?
In effetti, Bruxelles non dà il peso a questi due fattori che molti stimano invece come considerevole in Italia. L’occupazione totale dovrebbe salire solo dello 0,4% nel 2015, per la Commissione. L’impressione in Italia è che soprattutto i rilevanti incentivi monetari all’assunzione votato in legge di stabilità, a fronte di imprese che da 10 mesi tenevano il piede sul fre- no aspettando che venissero deliberati, dovrebbe portare a molti più occupati. I 94 mila aggiuntivi a sorpresa dello scorso dicembre – senza incentivi – compensavano a mala pena i 106 mila persi tra ottobre e novembre ma hanno fatto ben sperare. Vedremo. L’intera scommessa di Renzi si gioca su questo tavolo.

E il bonus petrolifero?
È vero, il barile è sceso dai 114 dollari di giugno 2014 ai 51-53 attuali. Ma primo nessuno si sente di scommettere che resti davvero a questa soglia (nelle ultime 2 settimane è salito da 41 a 50). E secondo l’Italia può prendersela solo con se stessa: nel nostro caso si trasferisce solo una minima parte del minor costo industriale alla tasca di famiglie e imprese, perché lo Stato si piglia per se più del 60% del costo finale tra accisa e Iva.

E il Qe della Bce?
Anche il minor costo del credito per effetto degli acquisti di titoli – per 1,1 trilioni di euro tra marzo 2015 e autunno 2016 – decisi dalla Bce si trasferirà in minima parte ad aziende nostrane e italiani, se non si risolve in qualche modo l’ostacolo di 180 miliardi di sofferenze e 150 miliardi di incagli in pancia alle banche italiane. Dopo 3 anni di ritardo, finalmente il governo Renzi sta pensando a una bad bank di sistema per sgravarne le banche almeno di una metà a condizioni vantaggiose. Ma siamo ancora a caro amico, perché i problemi tecnici da risolvere sono tanti, per evitare l’accusa di aiuti di Stato e tentare di coinvolgere capitali privati oltre alla garanzia di Cdp. Siccome i tempi sono lunghi, per il momento l’unico a beneficare di Francoforte sarà sempre lui, lo Stato italiano che risparmierà interessi sul debito pubblico.

Ma se il deficil risale?
Questo è l’unico aspetto da non temere più. Non solo Bruxelles stima molto generosamente un deficit pubblico italiano in discesa, mentre molti osservatori italiani – vista la legge di stabilità approvata dal Parlamento sforbiciando i tagli di spesa inizialmente previsti – sono disposti a scommettere che anche nel 2015 rischiamo di sforare il 3%. In realtà, con i recenti nuovi criteri di interpretazione del Patto di stabilità e crescita europeo diramati dalla Commissione, non rischiamo certo anche nel caso di sforamento del 3% niente di particolarmente grave, si aggiusterebbe tutto con 4 miliardi di aggiustamento da decidere a dicembre.

Conclusione
Sono tutte previsioni che non tengono in considerazione né un trauma sistemico all’eurozona se la situazione greca sfugge di mano, né una fiammata d’instabilità internazionale dovuta alla drammatica guerra alla svalutazione delle valute in atto in tre quarti del mondo, che espone molti paesi non più velocemente emergenti a trovarsi impiccati a debiti in dollari che salgono di valore. Ma detto questo, inutile illudersi. Se cresciamo così poco, è perché un paese impiccato ad alte tasse, a credito asfittico per la condizione delle sue banche, e a così forte disomogeneità tra Sud desertificato e Nord quasi-europeo, ha dentro di sé, nei propri errori e nel proprio modello distorto, le ragioni e le colpe dei propri guai.

Il clima è tornato positivo ma serve una politica industriale

Il clima è tornato positivo ma serve una politica industriale

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Per credere alla moltiplicazione dei pani e dei pesci serve un atto di fede, e io ho sempre preferito i numeri al «credo». Così, quando ho visto che la Confindustria ha sparato al rialzo le previsioni di crescita del pil 2015 dallo 0,5 per cento al 2,1% (e per il 2016 dall’1,1% al 2,5%), rispetto a quelle che aveva diffuso a dicembre, sono saltato sulla sedia. Magari, mi sono detto. Ma queste ipotesi non trovano riscontro in nessuna delle altre stime uscite in questi giorni: né di Bankitalia (+0,4% nel 2015 e +1,2% nel 2016), né di S&P (rispettivamente +0,2% e +0,8%); la più ottimista, Prometeia, non va oltre +0,7% e +1,4%. Allora? Certo, alcuni fattori positivi non mancano. Il commercio mondiale è in crescita e la discesa dell’euro sul dollaro (quasi il 10% negli ultimi 45 giorni. il 16% in sei mesi) spinge il nostro export, che già copre un terzo del pil. Inoltre, se il prezzo del petrolio restasse agli attuali 45 dollari al barile per tutto il 2015 (rispetto ai quasi 100 di inizio ottobre) l’Italia risparmierebbe 24 miliardi, ovvero l’1,5% del pil (occhio, però, perché Claudio Descalzi, numero uno dell’Eni, già prevede che nel secondo semestre le quotazioni tenderanno ai 60 dollari). I tassi d’interesse, poi, sono stracciati. Ma si tratta di positività in atto da tempo, gia ampiamente scontate nelle stime di fine 2014.

E allora. come mai Confindustria ha moltiplicato per quattro? Si dice: le politiche monetarie appena varate dalla Bce sono «manna dal cielo», dovrebbe valere 1,8 punti di pil aggiuntivi. Ma, a parte che nessun altro attribuisce al QE gli stessi effetti taumaturgici, è oggettivamente difficile credere che, da solo, possa generare 30 miliardi di valore aggiunto. Sia chiaro, l’operazione di Draghi è benefica. Ma, intanto, potrebbe saltare per l’Italia se il rating del nostro debito dovesse scendere di un solo gradino (dall’attuale BBB- a C, livello spazzatura). E poi, il permanere della recessione, fin qui, non è certo dovuto a mancanza di liquidità. Se il denaro non affluisce all’economia reale e per la somma di tre ragioni: perché le banche sono costrette a rispettare requisiti patrimoniali sempre più stringenti; perché latitano le imprese con progetti industriali solidi, che non chiedano prestiti solo per tappare vecchi buchi; perché il clima di sconforto e rassegnazione ostacola la spinta agli investimenti, vero motore della crescita.

Ma se la psicologia può anche invertirsi in modo repentino – per l’Istat la fiducia delle imprese a gennaio ha segnato il massimo da settembre 2011 – è difficile che il nostro capitalismo possa liberarsi dei suoi atavici problemi in qualche settimana. Dopo sette anni di crisi un rimbalzo positivo è fisiologico, ma non basta a fermare il declino. Il motore della nostra economia produttiva ha sì bisogno di benzina, ma anche e soprattutto di un’accurata revisione. Serve, dunque, una politica industriale che metta in campo risorse e strategie di lungo termine, che lasci perire le aziende decotte e che spinga su manifatture ad alto valore aggiunto in grado di competere sui mercati internazionali e recuperare quel 35% di competitività tecnologica perduta negli ultimi 15 anni. Le risorse umane ci sono, il vento economico è favorevole. Più che con l’ottimismo di maniera, gli atti di fede o la corsa a prendersi il merito di una ripresa che ancora non c’è, bisognerebbe cogliere l’occasione nei fatti.

La ripresa rischia di spaccare l’Italia

La ripresa rischia di spaccare l’Italia

Carlo Pelanda – Libero

Nel secondo trimestre 2015 è prevista l’inversione della crescita del Pil da negativa a positiva. La ripresa avrà effetti omogenei o differenziati per settori economici e territori? Saranno differenziati perché la stimolazione sarà incompleta: monetaria, ma non fiscale. Per capirci, se il governo decidesse di tagliare 100 miliardi di spesa pubblica (in tre o quattro anni) e di 70 miliardi le tasse, lasciando un margine di 30 per gestire l’equilibrio di bilancio statale, il capitale così liberato, via più investimenti e consumi privati, darebbe un impulso fortissimo e diffuso a tutta l’economia nazionale. Nel simulatore, una tale mossa, combinata con la megastimolazione monetaria attuata dalla Bce, porterebbe la crescita del Pil nel 2015 ad oltre il 4%, vicino al 6% nel 2016, per poi stabilizzarsi al 3% negli anni successivi (a condizione di una media stabilità globale). Per inciso, va considerato che un euro intermediato dallo Stato, in un modello politico socialistoide che alloca il più dei denari fiscali per finanziare apparati invece di investimenti modernizzanti, produce circa 0,90 euro per anno, cioè perde valore, mentre un euro lasciato nel mercato ne genera almeno 2. Da questo cenno si può intuire l’importanza stimolativa, nonché la diffusività sociale, di una defiscalizzazione massiva.

Vi sarebbero alcuni punti delicati: la minor spesa pubblica colpirebbe nel breve termine le aree meridionali, comporterebbe lo spostamento di una parte dei dipendenti pubblici al mercato privato, ecc. Da un lato, tali problemi sarebbero risolvibili in un momento di allentamento monetario che, rendendo possibili crescite forti e rapide, permetterebbe di assorbire velocemente più trasferiti dal pubblico al privato nonché di sostituire con capitale di investimento (incentivato) il minor denaro pubblico nelle aree meno sviluppate (se bonificate dalla criminalità). Dall’altro, non avverrà perché è impensabile che una maggioranza di sinistra voglia farlo e che il governo abbia la tecnicità per attuarlo in modo liscio, pur azione fattibile. Pertanto bisogna assumere la continuità del modello socialistoide e contare solo sull’effetto di maggiore liquidità e svalutazione competitiva.

Il punto: proprio l’inerzia riformatrice del governo produrrà un effetto selettivo sulle unità economiche, basato sulla maggiore vicinanza o lontananza dai settori-territori stimolati dalla Bce. La svalutazione dell’euro favorirà l’export delle aziende internazionalizzate ed il loro indotto nei territori dove queste sono più dense, cioè il Nord e parte della costa adriatica. L’effetto sarà maggiore o minore in relazione all’intensità e durata della svalutazione competitiva e, al riguardo dell’indotto, in base alla quantità di investimenti. L’effetto complessivo sarà espansivo, ma non così propulsivo e rapido per le reazioni contrarie del dollaro e di altre valute all’eurosvalutazione e perché prima di fare nuovi investimenti ed assunzioni le imprese useranno la capacità inutilizzata, questa rilevante. Un effetto positivo e spalmato è atteso dall’importazione di turismo da aree non-euro, moltiplicato dalla fortunata coincidenza dell’Expo. Ma la crescita in questi due settori non riuscirà a smuovere la stagnazione dei consumi e del settore delle costruzioni, lasciando milioni di piccole imprese industriali, artigianali e commerciali nei guai, complicati da una restrizione del credito che, pur di meno, continuerà.

In conclusione, la stimolazione solo monetaria e non fiscale causerà una ripresa incompleta che spaccherà l’Italia in tre settori: a) più ricchi, i territori ad alta densità di aziende internazionalizzate (Lombardia, Veneto, Piemonte e, meno, Emilia); b) galleggianti, ma senza vera ripresa, quelli con minore densità di imprese esportatrici, ma con certa capacità turistica (Centro italia); c) più poveri i territori meridionali nonostante un incremento del turismo stagionale. Come è sempre stato? Attenzione: la differenziazione per ricchezza tra persone e territori diventerà più marcata e ciò si trasformerà in un grave problema di governabilità della nazione. L’assenza della stimolazione fiscale (detassazione) in presenza di quella monetaria, oltre a ridurre i potenziali di ripresa, potrebbe disgregare l’Italia. Va segnalata a Mattarella la relazione tra integrità nazionale, di cui è tutore, e cambiamento di un modello economico inadeguato, esercitando la dovuta pressione su un governo orbo e/ o non ostacolando la sua sostituzione quando una destra inevitabilmente rinnovata ritroverà consistenza.

Il governo e la psicosi da decimale: basta poco per sballare

Il governo e la psicosi da decimale: basta poco per sballare

Franco Mostacci – Il Fatto Quotidiano

Molto si è detto sull’opportunità di fissare un valore massimo di indebitamento rispetto al Pil. Se l’Italia sfora il tetto del 3 per cento, la Commissione europea avvia la procedura per deficit eccessivi e si rischia di perdere i possibili benefici derivanti dalle nuove regole sulla flessibilità negli investimenti. Nella Nota di aggiornamento al Def il governo ha previsto per il 2014 un indebitamento netto della pubblica amministrazione di 49,212 miliardi di euro e un Pil nominale di 1.626,516 miliardi di euro (+0,5% sul 2013). Il rapporto tra le due grandezze è 3,03%, arrotondato a 3%. Con questi numeri il vincolo imposto dal Patto di stabilità e crescita sarebbe rispettato. La stima del Pil nominale appare, però, troppo ottimistica. Alla luce di una flessione del Pil reale (-0,4%) e di un’inflazione al consumo di 0,2%, è plausibile ritenere che il Pil nominale rimanga sugli stessi livelli dello scorso anno e non superi i 1.620 miliardi. Il rapporto deficit/Pil ne risentirebbe ben poco: perfino una leggera diminuzione non sarebbe comunque sufficiente a far scattare il fatidico decimale in più.

Diverso è il discorso se è l’indebitamento ad essere peggiore del previsto. Il margine a numeratore è, infatti, di appena 200 milioni. Le entrate per il 2014 dovrebbero essere di 786,1 miliardi (+0,5% rispetto al 2013), per il 90% dovute a imposte e contributi. I dati disponibili, aggiornati a novembre, evidenziano 600 milioni in meno di tasse e 900 milioni in meno di contributi rispetto all’obiettivo. A meno di un recupero nel mese di dicembre, mancheranno all’appello 1,5 miliardi di gettito. Le uscite, invece, ammonterebbero a 835,3 miliardi (+1% rispetto al 2013),di cui quasi il 7O% senza margini di manovra: 163 miliardi di stipendi dei pubblici dipendenti, 332 miliardi per il pagamento di prestazioni sociali e 76,7 miliardi di interessi passivi sul debito pubblico. Se le entrate dovessero essere inferiori al previsto, sarà necessario conseguire una corrispondente contrazione delle spese, per non peggiorare il saldo. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha garantito che il deficit del 2014 non supererà il 3% del Pil e – anche se i margini sono ristretti – non ci sono motivi per mettere in dubbio le sue affermazioni. Non resta che attendere il verdetto finale dell’Istat il 2 marzo.