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Il Quantitative Easing? In Italia funziona poco: colpa delle sofferenze bancarie

Il Quantitative Easing? In Italia funziona poco: colpa delle sofferenze bancarie

di Paolo Ermano*

Torniamo in apnea?

È presto per dire se le nuove misure messe in campo da Mario Draghi, che allargano gli spazi delle operazioni che vanno sotto il cappello di Quantitative Easing (QE), porteranno nuovo ossigeno nell’economia europea e in particolare nell’economia italiana. È certo che la situazione degli operatori finanziari nel Bel Paese è di difficile comprensione: da un lato abbiamo alcuni scandali che interessano banche più o meno grandi e più o meno legate al territorio (ad esempio, dalla Popolare di Vicenza alle quattro banche fallite del centro Italia), dall’altro processi di aggregazioni di alcuni istituti stanno modificando non solo la sensibilità degli italiani rispetto all’organizzazione dei servizi bancari, ma influiranno in maniera decisiva sugli assetti societari e sulla capacità del sistema di affrontare le cogenti sfide.

Le sfide che il sistema bancario deve e dovrà affrontare sono molte, a partire dalla riattivazione della circolazione del denaro, che sembra vivere un periodo non certo florido. Se partiamo con l’osservare l’andamento dei prestiti verso le famiglie e le società non finanziarie, quello che potremmo definire con un espressione un po’ forzata “economia reale”, la situazione è problematica: da giugno 2014 registriamo aumenti nei prestiti alle famiglie e contrazioni nei prestiti alle imprese (grafico 1, 2 e tabella 1 e 2).

QE_G1

QE_G2

QE_T1

QE_T2

Mentre i prestiti alle famiglie, stabili fino ai primi mesi del 2015, hanno visto una crescita più sostenuta soprattutto durante l’autunno, in corrispondenza dell’aumento dell’indice di fiducia dei consumatori, i prestiti verso il mondo delle imprese continuano a vivere una contrazione che si sviluppa ad ondate, che riflette la complessità dell’indice di fiducia delle imprese, positivo per servizi, commercio e le costruzioni, stabile per la manifattura (Istat, Nota Mensile 3/2016).

In aggregato, l’ammontare dei prestiti elargiti a famiglie e imprese si è contratto dell’1% da giugno 2014, mentre le cartolarizzazione dei crediti sono cresciute nello stesso periodo di più del 5%.

Le sofferenze

Per spiegare come mai il canale del credito, che oggi ancor prima che nel processo di circolazione del denaro trova nella BCE una sponda forte, continui a rimanere sterile, si sono spesso chiamate in causa le sofferenze bancarie, quei crediti deteriorati al punto da diventare difficilmente esigibili dalla banche.

Un primo problema, che è da un po’ di tempo al centro dell’attenzione mediatica, riguarda l’andamento delle sofferenze. Il totale complessivo dei prestiti in sofferenza presso il sistema bancario italiano ha raggiunto quota 202 miliardi: di questi, €181,5 sono ascrivibili a famiglie e imprese. In particolare, le sofferenze appartengono principalmente al mondo delle imprese visto che da sole queste coprono circa il 71% del loro ammontare complessivo.

Come si può vedere nel grafico 3, sommando le sofferenze delle società non finanziarie (le imprese comunemente chiamate) con quelle delle famiglie, se ne ricava una crescita netta del 18% dal giugno 2014 al gennaio 2016.

QE_G3

Questa è una vera spina nel fianco per la stabilità del sistema bancario italiano che prima o poi dovrà smaltire questi titoli. Non sembra che le operazioni della BCE per ora abbiamo aiutato il sistema bancario a gestire questa massa di prestiti in sofferenza.

La circolazione del denaro

Che le sofferenze giochino un ruolo cruciale quando cerchiamo di comprendere le ragioni per cui il sistema dei prestiti si sia relativamente arrestato è un dato di fatto. Tuttavia le sofferenze sono il sintomo di un sistema del credito nazionale troppo banco-centrico, soprattutto per quanto riguarda le imprese. La ricchezza privata per finanziare le aziende in Italia non manca, è solo che questa fluisce verso le imprese grazie alla dinamica del deposito-prestito che passa quasi esclusivamente per il canale bancario.

Da questo punto di vista è interessante osservare l’andamento dei depositi di famiglie e società non finanziarie. In entrambi i casi, partendo dal giungo 2014, si osserva un aumento dello stock di deposito (+4,3% per le famiglie, +12,8% per le imprese), un aumento però non sufficiente a sostenere la richiesta di prestiti avanzata: il saldo fra depositi e prestiti è negativo (i depositi di questi due gruppi non coprono l’esposizione creditizia, ovvero gli impieghi superano le fonti). Da giugno 2014 il gap fra depositi e prestiti si è ridotto del 30% (-78% da settembre 2008!), un risultato davvero notevole: le banche raccolgono un ammontare sempre maggiore di depositi, centellinando la richiesta di nuovi prestiti. Limitano, quindi, la circolazione del denaro.

Un aumento dei depositi può essere giustificato dalla ripresa economica: modesto l’aumento dei depositi, modesta la ripresa; un aumento meno che proporzionale dei prestiti segnala sia una maggior richiesta di credito da parte delle imprese, sia un’incapacità del sistema bancario di fornire credito, per ragioni che possono variare dalla possibilità dei richiedenti di fornire adeguate garanzie, fino alla difficoltà dell’istituto di rispettare i parametri di solidità bancaria atti a veicolare con facilità la massa depositata verso la platea dei richiedenti. Se i dati sulle sofferenze portano a supporre che il problema sia oramai più nel sistema bancario che nei soggetti privati richiedenti credito, il gap fra deposito e credito porta a immaginare la necessità da parte del sistema di un riordino per evitare eccessive asimmetrie fra soggetti che prestano e soggetti che depositano.

Conclusioni

Dall’analisi dei dati di Banca d’Italia, emerge come le politiche di espansione del credito messe in atto dalla BCE attraverso il TLTRO e l’APP non abbiano ancora dato i risultati sperati. Dal 1 aprile sono diventate attive le nuove e più incisive misure di QE: valuteremo a breve i risultati, per quanto le borse hanno reagito tiepidamente finora.

Se da un lato è evidente come il costo del debito pubblico sia calato grazie all’operato della BCE, dall’altro non appare altrettanto evidente come l’aver ridotto la convenienza a investire nei titoli di Stato abbia spostato l’operatività delle banche verso il settore privato, famiglie e imprese innanzitutto.

Questo perché, come spiega un recente studio della BCE, la politica messa in piedi da Mario Draghi ha portato più risultati nel settore privato del nord Europa, dove il sistema finanziario era meno vulnerabile, rispetto al Sud dell’Europa (ECB: Economic bulletin, 7/2015, pp. 36). Ricordare ora l’opposizione dei paesi nordici alle operazioni di Mario Draghi dovrebbe far riflettere molto sulla distanza che passa fra gli annunci pubblici e la realtà delle cose. A noi interessano però le ragioni che lo studio della BCE avanza per giustificare questa diversità di risultati: proprio l’eccessiva presenza di crediti deteriorati nelle economie del Sud dell’Europa, Italia compresa, spiega la minor efficacia del QE in questi Paesi.

Occorre trovare un rimedio alla gestione delle sofferenze del sistema bancario nazionale, prima possibile, per almeno due ragioni. La prima, per poter maggiormente beneficiare della politica monetaria espansiva messa in piedi dalla BCE che durerà almeno fino a marzo 2017. La seconda ragione, collegata alla prima, ha a che fare con la timida ripresa in corso nel nostro Paese: rischiare di soffocarla per inefficienza del sistema bancario sarebbe davvero imperdonabile, soprattutto ora che le possibilità finanziarie offerte dall’euro-sistema sono così ampie e generose.

Non culliamoci sull’euro e sul petrolio

Non culliamoci sull’euro e sul petrolio

Massimo Blasoni – Panorama

Lo spiraglio di ripresa che si intravede nella crescita della produzione industriale dipende da fattori evidenti. Il basso prezzo del petrolio e l’euro svalutato rispetto al dollaro sono alla base di quel 5,4 per cento in più che le nostre esportazioni hanno fatto registrare a fine 2014, rispetto all’anno precedente. Inoltre iniziano a farsi sentire anche gli effetti del «quantitative easing» (l’acquisto sul mercato di titoli pubblici e privati) varato dalla Banca centrale europea, garanzia di un credito più generoso.
A questi fattori di stimolo esterni non si somma tuttavia l’incisiva azione del governo. Occorre agire per stimolare la domanda interna ma soprattutto rafforzare il nostro sistema produttivo che si trova spesso a sopportare una concorrenza estera che beneficia di costo del lavoro, valori di cambio e fiscalità più favorevoli. Tranne che per il Jobs act che, pur perfettibile, introduce importanti elementi di novità nel mercato del lavoro, non vi sono stati interventi significativi in tema di fiscalità, liberalizzazioni e sburocratizzazione.
La contrazione dell’Irap dispiegherà i suoi effetti solo nel 2016 e gli indicatori internazionali continuano a collocare il nostro tra i peggiori e più onerosi sistemi fiscali al mondo. Per la Banca mondiale (rapporto «Doing business») l’insieme complessivo delle imposte più i contributi sociali pagati da un imprenditore italiano, raggiunge il 65,4 per cento del reddito d’impresa, 16 punti in più della Germania e 31 in più dell’Inghilterra. Quanto agli investimenti, l’andamento della spesa pubblica certificata da Eurostat dimostra che il governo ha applicato la spending review dal lato sbagliato, tagliando gli investimenti e non la spesa corrente. Rispetto al 2009 l’Italia ha ridotto del 30 per cento la spesa pubblica per investimenti, passata così dai 54,2 miliardi del 2009 ai 38,3 miliardi del 2013, riportandoci in termini reali indietro di dieci anni. Nello stesso periodo la spesa pubblica complessiva è, però, cresciuta di 12,8 miliardi: la causa, ovviamente, è da ricercarsi in una spesa corrente che nessun governo, nonostante gli annunci, è riuscito a comprimere.
A tralasciare la burocrazia oppressiva, la carenza delle infrastrutture fisiche ed informatiche, resta infine da ricordare il tema dei debiti della pubblica amministrazione verso le imprese. Il problema non si è affatto risolto, malgrado gli annunci del premier in tv. Il debito nel corso del 2014 si è riformato e ammonta oggi a oltre 75 miliardi (dati Eurostat e Intrum Justitia) con tempi medi di pagamento vicini ai 130 giorni che obbligano le imprese ad anticipare i crediti presso il sistema bancario. Un’operazione costosa e che pesa sui bilanci delle imprese fornitrici dello Stato per sei miliardi di euro ogni anno, cifra che non ha eguali in Europa. Larga parte di questo cahier de doléances può trovare almeno parziale soluzione agendo tempestivamente. La timida ripresa va sostenuta, pena un’immediata ricaduta.
QE, passata la sbornia dell’annuncio restano i problemi

QE, passata la sbornia dell’annuncio restano i problemi

Davide Giacalone – Libero

Dopo un crescendo rossiniano di effetti positivi e preventivi, il Quantitative easing della Banca centrale europea ha debuttato vedendo scendere le Borse e salire gli spread. La spiegazione si trova passando dalla musica alla poesia, perché abbiamo assistito a un leopardiano “sabato dei mercati”: l’attesa della festa rallegrava i cuori, mentre al suo giungere la mente torna al “lavoro usato”, in questo caso al debito e alla crescita. È la Grecia a innescare il fenomeno, ma sarebbe successo comunque, perché quella (benedetta) operazione affronta il problema della crescita continentale, senza risolvere quello degli squilibri nazionali.

I mitici “mercati”, quell’insieme di operatori sempre pronti a evitare i rischi e cogliere le opportunità, curando il proprio conto economico e fregandosene del resto (come è naturale che sia), sanno bene che la Grecia rappresenta la mancata soluzione della eccessiva disomogeneità interna all’eurozona. Se cedi sovranità monetaria, ma fingi di conservare sovranità politica, prima o dopo le contraddizioni scoppiano. Il governo greco sbaglia, perché crede che sia importante rispettare le promesse (impossibili) fatte agli elettori, laddove, invece, conta il risultato finale, la sicurezza del Paese. Sbagliando incorre nella totale illogicità, pensando di sottoporre a referendum le misure necessarie a fronteggiare la crisi (escludendo un referendum sull’euro). Il giorno in cui si votasse quel referendum non si saprebbe più perché s’è eletto un Parlamento.

La piaga greca si chiuderà. Hanno urgente bisogno di soldi, quindi devono correre a stabilire se accettare le condizioni di chi li presta o suicidarsi nell’uscita dall’eurozona. In entrambi i casi (meglio il primo, per quanto amaro) la mattina dopo i mercati rivolgeranno l’attenzione ad altri  dati.

Ecco quello che ci riguarda: quanto cresce ciascun Paese, investito dall’ondata di liquidità? Se sale più della marea allora è in grado di stabilizzare gli effetti positivi ed erodere il debito. Se sale meno, o solo pari, non appena la marea scenderà sarà nuovamente arenato. La Bce non aiuta chi è in difficoltà, ma tutti gli stati membri. Non può fare diversamente. Aiuta noi e gli spagnoli quanto i tedeschi. Anzi, di più i tedeschi, perché detengono una quota maggiore di capitale Bce.

Ciascuna banca centrale nazionale è autorizzata ad acquistare titoli. In Italia arrivano 140 miliardi, ma solo l’8% è garantito dalla Bce. Il problema non è il rischio default, che non corriamo, ma quello dell’anemia, della reattività solo apparente. Se con quei soldi la Germania crescerà più degli altri, alla fine della cura la distanza sarà aumentata. Ecco perché è da incoscienti festeggiare il ritorno del segno positivo, davanti al prodotto interno lordo, facendo finta di non sapere che siamo a meno della metà dell’ eurozona. E quando i greci avranno finito d’essere la principale attrazione della festa, ci si occuperà di cosa la cura ha portato a ciascuno. Da qui a quel giorno tocca a noi fare quel che non stiamo facendo.

Molla il tesoretto

Molla il tesoretto

Davide Giacalone – Libero

Debito e tesoretto, disastro perfetto. La Banca centrale europea vara il Quantitative easing con stile e tempistica eccellenti. Sarà un successo, perché è già un successo. Ma mentre l’operazione s’appresta a partire, avendo già dispiegato parte dei suoi benefici effetti, il presidente del Consiglio parla di “tesoretto”, ovvero di una provvidenziale quantità d’imprevista ricchezza, sulla quale potere contare. Basta ciò per passare dal trionfo al tonfo.

Mario Draghi ha detto e ridetto che le politiche espansive della Bce, da sole, non bastano. Che servono riforme profonde, sia sui fronti nazionali che sul comune fronte europeo. Che la ripresa sarà illusoria, se quelle riforme non incideranno nel profondo degli equilibri istituzionali, monetari e produttivi. Più è grande il successo della Bce più si deve essere veloci e precisi nell’operare i cambiamenti che l’accompagnino, moltiplichino e stabilizzino. Se, invece, si pensa al tesoretto, se si crede che bastino quei 60 miliardi al mese per risparmiarci dolori e fatiche, allora vuol dire che non s’è capito nulla, ma proprio nulla di come stanno le cose.

A novembre le stime di crescita dell’eurozona, elaborate dalla Commissione europea, vedevano un +1% del pil nel 2015. A gennaio è diventato 1,3. All’inizio di marzo è stimato 1,5. Per l’Italia era +0,6 a novembre. È rimasto 0,6 a gennaio, Ora Matteo Renzi dice che il governo ha fatto i conti prevedendo 0,5. Talché il di più è tesoretto. Ma è una ragionamento sconclusionato: il dato rilevante è la distanza dalla crescita dell’eurozona. Il nostro svantaggio è tale da mettere nelle vele solo una parte del vento Bce, quindi ogni sforzo deve essere fatto per dispiegarle al meglio e per liberarsi il più possibile della zavorra del debito. Invece qui s’avverte la ciurma che, galleggiando la barca, ci si potrà dividere il frutto della bravura e delle politiche altrui.

Capisco tutto, nella polemica politica. Ma tanto è demenziale supporre che siano colpe del governo Renzi le lentezze inquietanti con cui l’Italia prende coscienza e reagisce alla condizione in cui si trova, quanto lo è abbandonarsi a questo giochino della crescita, dicendo: prima colavamo a picco, ora c’è il segno più, prima lo spread era alto, ora e basso. Lo dobbiamo alle scelte europee e a quegli italiani, imprenditori e lavoratori, che massacriamo di tasse e martirizziamo con la burocrazia. Le cose andranno meglio, grazie a loro, ma la circostanza fortunata deve essere sfruttata per riassorbire disoccupazione e rilanciare la produttività. Il che comporta non politiche di redistribuzione, magari con il tesoretto dirottato a pagare il costo di 120mila insegnanti da assumere, condannando la scuola a restare identica, quindi inadatta, ma comporta politiche di alleggerimento fiscale.

Non c’è nessun tesoretto, perché il migliorare dei conti pubblici, derivato da meno interessi sul debito e maggior gettito indotto dalla ripresa, è estraneo alle scelte politiche interne. Se lo scrivano sulla testa, le persone responsabili. Che siano al governo o all’opposizione, a destra o a sinistra, sopra o sotto. Perché se prevale l’eterno partito unico della spesa pubblica, a questo giro ci condanniamo a subire una botta micidiale, quando gli antidolorifici e gli stimolanti Bce saranno finiti. Se Draghi continua a dire che non bastano non è perché vuol fare il modesto, ma perché si rende conto di quanto modesta sia la caratura di certi interlocutori.

Doccia fredda sulla crescita 2015, Italia bloccata dalle tasse locali

Doccia fredda sulla crescita 2015, Italia bloccata dalle tasse locali

Oscar Giannino – Il Mattino

Le stime economiche sul 2015 diramate ieri sono una bella secchiata di ghiaccio sui recenti entusiasmi italiani. In sintesi, nel 2014 nell’euroarea solo Cipro, col suo Pil che ha segnato -2,8%, ha fatto peggio dell’Italia che ha chiuso a -0,5%. Nel 2015 l’Italia e Cipro restano i fanalini di coda, con previsioni di crescita ferme a +0,6% nel nostro caso e a +0,4% per i ciprioti. E nel 2016 Cipro ci spera, con un +1,6% rispetto al nostro +1,3%. La nostra disoccupazione non scende dal 12,8% nel 2015 e scende solo al 12,6% nel 2016. Certo, il 12,6% dell’Italia non è paragonabile al 26,6% della Grecia o al 24% della Spagna, ma in due anni in questi paesi è previsto che scenda di 4 punti. Se volete, consolatevi con fatto che la Commissione crede che il deficit italiano resterà al 2,6% del Pil, sotto il livello di guardia del 3%.

Perché restiamo in coda?
La scheda riservata all’Italia spiega esaurientemente perché Bruxelles non sia affatto convinta delle stime di crescita 2015 fino al 2% recentemente rilasciate nel nostro paese (ma attenti che Bankitalia prudentemente non si è ancora discostata dal +0,4% che risale a novembre scorso). Quel misero +0,6% attribuitoci nel 2015 dipende da consumi interni che non possono contribuire per più dello 0,3%, e per un traino dell’export che vale +0,4%, mentre le scorte hanno un effetto negativo del -0, 1%. La propensione al risparmio dovrebbe salire invece dal 12,2% del reddito disponibile al 13,1%, continuando a far arrabbiare il presidente del Consiglio e i suoi consiglieri che la considerano un «arricchimento» degli italiani. Non è cosi. Trovandosi ad aver perso il 10% del valore reale della loro ricchezza netta e con un reddito reale procapite diminuito per effetto della disoccupazione e dell’innalzamento di tasse locali e tariffe pubbliche, gli italiani mettono da parte e non consumano, perché non si fidano di aumenti ancora maggiori fiscali – previsti in legge di stabilità per decine di miliardi negli anni 2016-2018 – contributivi – scattati da inizio gennaio per artigiani, commercianti e iscritti alla gestione separata Inps – e di tariffe delle municipalizzate.

Ma il Jobs Act e gli incentivi all’assunzione?
In effetti, Bruxelles non dà il peso a questi due fattori che molti stimano invece come considerevole in Italia. L’occupazione totale dovrebbe salire solo dello 0,4% nel 2015, per la Commissione. L’impressione in Italia è che soprattutto i rilevanti incentivi monetari all’assunzione votato in legge di stabilità, a fronte di imprese che da 10 mesi tenevano il piede sul fre- no aspettando che venissero deliberati, dovrebbe portare a molti più occupati. I 94 mila aggiuntivi a sorpresa dello scorso dicembre – senza incentivi – compensavano a mala pena i 106 mila persi tra ottobre e novembre ma hanno fatto ben sperare. Vedremo. L’intera scommessa di Renzi si gioca su questo tavolo.

E il bonus petrolifero?
È vero, il barile è sceso dai 114 dollari di giugno 2014 ai 51-53 attuali. Ma primo nessuno si sente di scommettere che resti davvero a questa soglia (nelle ultime 2 settimane è salito da 41 a 50). E secondo l’Italia può prendersela solo con se stessa: nel nostro caso si trasferisce solo una minima parte del minor costo industriale alla tasca di famiglie e imprese, perché lo Stato si piglia per se più del 60% del costo finale tra accisa e Iva.

E il Qe della Bce?
Anche il minor costo del credito per effetto degli acquisti di titoli – per 1,1 trilioni di euro tra marzo 2015 e autunno 2016 – decisi dalla Bce si trasferirà in minima parte ad aziende nostrane e italiani, se non si risolve in qualche modo l’ostacolo di 180 miliardi di sofferenze e 150 miliardi di incagli in pancia alle banche italiane. Dopo 3 anni di ritardo, finalmente il governo Renzi sta pensando a una bad bank di sistema per sgravarne le banche almeno di una metà a condizioni vantaggiose. Ma siamo ancora a caro amico, perché i problemi tecnici da risolvere sono tanti, per evitare l’accusa di aiuti di Stato e tentare di coinvolgere capitali privati oltre alla garanzia di Cdp. Siccome i tempi sono lunghi, per il momento l’unico a beneficare di Francoforte sarà sempre lui, lo Stato italiano che risparmierà interessi sul debito pubblico.

Ma se il deficil risale?
Questo è l’unico aspetto da non temere più. Non solo Bruxelles stima molto generosamente un deficit pubblico italiano in discesa, mentre molti osservatori italiani – vista la legge di stabilità approvata dal Parlamento sforbiciando i tagli di spesa inizialmente previsti – sono disposti a scommettere che anche nel 2015 rischiamo di sforare il 3%. In realtà, con i recenti nuovi criteri di interpretazione del Patto di stabilità e crescita europeo diramati dalla Commissione, non rischiamo certo anche nel caso di sforamento del 3% niente di particolarmente grave, si aggiusterebbe tutto con 4 miliardi di aggiustamento da decidere a dicembre.

Conclusione
Sono tutte previsioni che non tengono in considerazione né un trauma sistemico all’eurozona se la situazione greca sfugge di mano, né una fiammata d’instabilità internazionale dovuta alla drammatica guerra alla svalutazione delle valute in atto in tre quarti del mondo, che espone molti paesi non più velocemente emergenti a trovarsi impiccati a debiti in dollari che salgono di valore. Ma detto questo, inutile illudersi. Se cresciamo così poco, è perché un paese impiccato ad alte tasse, a credito asfittico per la condizione delle sue banche, e a così forte disomogeneità tra Sud desertificato e Nord quasi-europeo, ha dentro di sé, nei propri errori e nel proprio modello distorto, le ragioni e le colpe dei propri guai.

Imprese e fisco, così proprio non va

Imprese e fisco, così proprio non va

Massimo Blasoni – Metro

Dopo il QE (Quantitative Easing) un nuovo acronimo si aggira per l’Europa: TTR, ovvero Total Tax Rate. Si tratta in soldoni (letteralmente) della percentuale sul fatturato che ciascuna impresa devolve ogni anno allo Stato sotto forma di tasse. Non illudetevi: che in questo settore l’Italia resti purtroppo la matrigna d’Europa lo dimostrano le recenti elaborazioni che abbiamo svolto sui dati riferiti al 2014 contenuti nel rapporto “Doing Business 2015” della Banca Mondiale.
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Ma da solo il QE non può bastare

Ma da solo il QE non può bastare

Massimo Blasoni – Metro

Molte imprese non trovano credito perché spesso le banche non le ritengono in grado di restituire gli eventuali prestiti accordati. Un atteggiamento in parte comprensibile ma che tra il 2001 e il 2014 ha però comportato una riduzione del credito pari a circa 70 miliardi di euro. Il Quantitative Easing (QE) deciso dalla BCE potrà cambiare radicalmente questo stato di cose? Difficile.
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C’è qualcosa di nuovo

C’è qualcosa di nuovo

Giuliano Cazzola – La Nazione

«C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole». Dalle statistiche ufficiali, di solito molto severe, arrivano primi segnali positivi per quanto riguarda il lavoro. A dicembre è diminuito il tasso di disoccupazione e sono aumentati gli occupati (di quasi centomila su novembre) e nello stesso tempo sono molti di più gli italiani che cercano lavoro (perché sperano di trovarlo), Per parlare di svolta occorrerebbero dati più stabili. L’aspetto incoraggiante viene, però, dal versante dell’economia.

Secondo l’autorevole Centro studi di Confindustria, il 2015 si annuncia come l’anno dello spartiacque, perché dovrebbe terminare la lunga crisi dando corso a incrementi del Pil e dell’occupazione che si riveleranno migliori delle previsioni correnti, «persino di quelle più recenti». Determinare la svolta a lungo attesa sono essenzialmente fattori esterni (la ripresa del commercio mondiale, il crollo del prezzo del petrolio, il cambio dell’euro). Si guarda. poi, con fiducia alle conseguenze dei nuovi criteri di flessibilità dei bilanci e delle misure della Bce sul Quantitative Easing (ma si sottovaluta l’effetto-contagio della Grecia), tra i fattori positivi c’è anche, per l’Italia il drastico ridimensionamento dei tassi di interesse sui titoli di nuova emissione. Bisognerà pur ammettere, allora, che le politiche condotte fino a oggi all’interno della Ue, sono state le sole che (se ne saremo capaci) consentiranno all’Italia di afferrare il ciclo della ripresa. Un posto di riguardo va riservato alle politiche del lavoro (lo ha riconosciuto anche il governatore Ignazio Visco), a partire dalla riforma del contratto a termine, mediante l’eliminazione della causale nell’ambito dei 36 mesi consentiti e con la possibilità di avvalersi di ben 5 proroghe.

Del Jobs Act Poletti 2.0 sono in corso le procedure per i decreti attuativi. Forte è l’interesse che le nuove norme stanno suscitando nelle imprese e negli investitori esteri. Se il testo dello schema non subirà delle modifiche sostanziali è doveroso riconoscere che vi saranno dei cambiamenti consistenti per quanto riguarda sia il licenziamento economico che quello disciplinare. Al contratto di nuovo conio (con tutele più sostenibili in tema di recesso) si accompagna un regime di robusti incentivi che, in pratica, consentirà alle imprese di accollare allo Stato la retribuzione di un intero anno (sui tre previsti), per gli assunti nel 2015.