quantitative easing

Il QE è una pistola puntata alla tempia del governo italiano

Il QE è una pistola puntata alla tempia del governo italiano

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Tra circa un mese partirà il quantitative easing della Banca centrale europea. Senza limiti predefiniti, inizia con acquisti di 60 miliardi di titoli di stato al mese e dovrebbe durare fino a settembre 2016, ma tutto dipende dall’andamento dell’inflazione: se rimane troppo lontana dal valore target del 2% la Bce andrà avanti con il Qe. Con un limite molto importante, però. La banca presieduta da Mario Draghi potrà comprare solo titoli di paesi membri che abbiano almeno un rating «investment grade». Non, quindi, le obbligazioni classificate come spazzatura dalle agenzie di rating. Il merito di credito della repubblica italiana, com’è noto, è solo un gradino al di sopra della soglia dei junk bond. BBB- è l’ultimo rating del Btp, un notch di distanza dal livello dei junk bond che li renderebbe inacquistabili dalla Bce.

L’Italia, dunque, balla sul ciglio del quantitative easing: senza riforme e senza ripresa economica rischia un nuovo downgrade e con esso l’esclusione dai benefici della manovra varata da Francoforte. Significa che le agenzie di rating hanno ora un vero cannone a disposizione per forzare la mano dei governi della periferia mediterranea dell’Eurozona e costringerli a fare vere riforme dei singoli mercati e le eventuali necessarie privatizzazioni. Per una ragione semplicissima: il ribasso alla categoria C del rating dei Btp si tradurrebbe, automaticamente nei fatti, nell’attivazione del cosiddetto scudo antispread, cioè nella richiesta da parte dell’Italia del programma Omt che permette alla Bce di comprare anche i titoli spazzatura dei paesi che hanno già concordato con Bruxelles e Francoforte un piano di interventi e di riforme. In pratica a Roma sbarcherebbe la Troika.

L’allentamento monetario di Francoforte rappresenta l’ultimo giro di campo per i paesi europei a basso rating ed elevato spread. Devono viverlo come l’ultima spiaggia, l’ultima occasione offerta dalla Bce per aiutare e rendere fattibile un programma di ambiziose riforme, accompagnate da tagli strutturali della spesa corrente, la cosiddetta spending review della burocrazia, e da sensibili cali nella pressione fiscale. Solo così il pil si rimetterà in moto e il rating uscirà dall’area rischiosa del giudizio «spazzatura». Non c’è più possibilità di comprare altro tempo: o Roma fa le riforme oppure perde la sovranità. E farsi distrarre dalla demagogia inconcludente di Alexis Tsipras non serve a nulla per raggiungere l’obiettivo che interessa all’Italia. Roma non è Atene, perché ha una vera manifattura e una vera economia da difendere.

Perché dopo la scossa di Draghi serve privatizzare in Italia

Perché dopo la scossa di Draghi serve privatizzare in Italia

Giuseppe Pennisi – Formiche

Nei giorni in cui tutti azzardano stime sugli effetti del Quantitative Easing (Q.E.), volgiamo lo sguardo a cosa fare per rendere efficaci le “misure monetarie non convenzionali” varate il 22 gennaio dalla Banca centrale europee. Non solo mi concentro sulle materie strettamente nel nostro campo: ciò che possono (e che debbono) fare Parlamento e Governo della Repubblica Italiana mentre gli altri 18 membri dell’eurozona molto probabilmente si accapiglieranno su questa o quella virgola del compromesso raggiunto.

A mio avviso, il tema più urgente è quello delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni. Il Q.E. può darci lo spazio di manovra per farlo anche se i suoi effetti saranno inferiori a un tasso di crescita complessivo dell’1,8 % sui prossimi due anni (ossia, mediamente, 0,75% l’anno) come stimato dal Centro Studi Confindustria. La crescita sarà probabilmente – è la media delle proiezioni dei 20 maggiori istituti econometrici internazioni, tutti privati, nessuno italiano – sullo 0,4% nel 2015 e sul 0,6% nel 2016, pur sempre un’inversione di tendenza dopo tre lustri in cui alla stagnazione hanno fatto seguito una recessione ed una deflazione.

Le privatizzazioni (e la chiusura di enti inutili) sono particolarmente urgenti sia per contribuire a ridurre lo stock di debito (sarebbe illusorio, ove non puerile, fare conto, a questo scopo solo o principalmente sul Q.E.) sia per rendere più snello quello che un tempo si chiamava (grazie ad una definizione molto appropriata di Franco Reviglio) “settore pubblico allargato” sia per contribuire, in tal modo, ad aumentare la produttività dei settori di produzione (da quindici anni rasoterra). È un campo particolarmente ostico: basti pensare che l’unica privatizzazione portata a termine nel 2014 è quella dell’Unione Nazionale degli Ufficiali in Congedo e che dal 2011 il Ministero dell’Economia e delle Finanze non mette in rete la Relazione Annuale al Parlamento sulle Privatizzazioni (forse perché non riuscirebbe a riempire neanche una pagina). Anzi, stiamo andando verso la nazionalizzazione (tramite una SpA contenitore) per le aziende in crisi. Non solo ma la nostra proposta è di cominciare non con operazioni relativamente facili (cessioni di quote dell’Enel, dell’Eni, delle Poste), e neanche da quella giudicata come la “madre di tutte le privatizzazioni” dall’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa (la RAI, per cui si potrebbe stilare un programma tecnico dettagliato) ma dal terreno più difficile: quello del capitalismo (o socialismo) regionale e municipale.

Il campo è tanto ispido che il documento stilato dal buon, e caro, Carlo Cottarelli (chiamato a rimettere ordine e presto rispedito, dal Presidente del Consiglio, oltre-oceano, dove non potesse sapere troppo su ciò che avviene in Italia) è stato “segretato” come se svelasse segreti di Stato sul terrorismo mondiale. Interpolando dalle informazioni apparse sulla stampa a proposito del documento segretato, analisi apparse sulla bella rivista Amministrazione Civile del Ministero dell’Interno (ha cessato le pubblicazioni subito dopo avere toccato l’argomento), studi dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma e un saggio recente pubblicato dal Chief Economist della Cassa Depositi e Prestiti Edoardo Reviglio sulla rivista Economia Italiana, si giunge ad una base conoscitiva essenziale per trarre direttive operative.

In breve le “partecipate” a livello locale sono circa 25.000 mila (Cottarelli ne ha censite 8000), di un centinaio partecipate totalitarie, un migliaio aziende in cui la mano pubblica ha la maggioranza , 22.000 partecipate in cui gli enti pubblici hanno una quota inferiore al 49%, e ben 16.000 con una quota inferiore al 4%. Numerosissime sono mere scatole cinesi in cui sovente il numero dei dipendenti è inferiore a quello dei componenti degli organi di indirizzo di gestione. Secondo Giovanni Montemartini, che in età giolittiana teorizzò le municipalizzate, avrebbero dovuto generare reddito da utilizzare a fini sociali a beneficio degli ‘incapienti’, i più poveri dei poveri’. Molte di esse, invece, sono macchine per fare debiti (si parla di circa 120 miliardi l’anno).

Occorre dire che all’interno del Governo era stato proposto di fare pulizia, portando a non più di mille (nell’arco di tre anni) il numero delle partecipate e di dismettere quelle con disavanzi per due anni consecutivi, nonché un drastico dimagrimento degli organi di indirizzo e di gestione e chiusura delle ‘scatole cinesi’. Alcune norme erano stato nelle legge di stabilità. Tuttavia, con un emendamento all’articolo 15 della legge di stabilità al Senato, il Governo cancella con un colpo di spugna i tentativi di razionalizzazione delle società partecipate messi in campo negli ultimi anni. Niente vendite obbligatorie per le aziende dei Comuni fino a 50mila abitanti, previste dal 2010 e poi rinviate da una serie di proroghe, e niente privatizzazione delle società strumentali, cioè quelle che lavorano quasi solo con le amministrazioni controllanti, e che la spending review varata nel 2012 dal Governo Monti chiedeva di vendere o chiudere entro il prossimo 31 dicembre. Tutto abrogato: il panorama attuale delle società di enti locali, Regioni e ministeri può tranquillamente rimanere quello attuale.

Al posto delle sforbiciate, sempre rimaste sulla carta, il governo tenta la strada del controllo dei bilanci, imponendo agli enti che posseggono società in perdita di accantonare riserve e prevedendo, ma solo dal 2017, la chiusura obbligatoria delle aziende che chiudono bilanci in rosso per quattro anni consecutivi. Confermata, ma solo a partire dal 2015, la possibilità di “licenziare” gli amministratori delle partecipate che chiudono in perdita per due anni consecutivi. Sempre dal 2015, arriva un taglio del 30% ai compensi dei manager delle società controllate e titolari di affidamento in house che chiudono in perdita per tre anni consecutivi.

Dal 2015 è previsto che anche società partecipate, aziende speciali e istituzioni, anche di regioni e camere di commercio, debbano dare una mano nel «conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica». Come? In primo luogo, la norma promette di individuare “parametri standard” dei costi e dei rendimenti dei servizi, traducendo in termini societari il percorso dei fabbisogni standard degli enti locali che però al momento si mantiene lontano dal traguardo. Più immediato è invece l’obbligo per gli enti proprietari di accantonare in bilancio fondi di riserva, a garanzia delle perdite accumulate dalle società. Le regole di questi fondi procederanno in due tempi: nel 2014, ogni ente dovrà accantonare una somma pari alla perdita registrata dalla sua società nel 2013. Nel 2015-2017, invece, le regole dividono le società in due gruppi, a seconda del risultato medio del 2011-2013: se è positivo, l’accantonamento sarà pari a una quota della perdita conseguita nell’ultimo anno, altrimenti si calcolerà sulla media degli ultimi tre. Troppo poco e troppo tardi.

Potere dell’immaginazione

Potere dell’immaginazione

Davide Giacalone – Libero

Evitiamo di passare dal rigorismo immaginario all’altrettanto immaginario espansionismo. Gli accademici del sentito dire hanno già maledetto qualche milione di volte la dottrina eurorigorista. Peccato che la spesa pubblica continui a crescere (ottime le considerazioni di Alberto Mingardi). Hanno invocato un maggiore deficit, con l’impareggiabile festival della “flessibilità”. Peccato che assieme al deficit, mai mancatoci, cresce il debito, assieme al debito il suo costo, il che porta in alto le tasse. Hanno predicato che l’Unione europea sia la landa della lesina. Peccato che nel frattempo si siano sviluppati stimoli enormi e che l’operazione Ltro abbia ristretto la suicida divaricazione degli spread. Ora, però, si rischia il ribaltamento dell’immaginazione.

Leggo che secondo il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, dopo il varo del Quantitative easing, è bene che le famiglie spendano di più e le imprese maggiormente investano. No, non funziona così. Non basta la pioggia, che cade dal cielo, per passare al raccolto. Dopo anni d’impoverimento non basta dire: sentitevi ricchi e scialate.

Sul lato delle famiglie i dati ci dicono che la forbice s’è allargata. C’è una parte del ceto medio che ha contratto i consumi per potere aumentare il risparmio. Condotta suggerita non solo dalla paura, ma dalla razionale e contabilizzata constatazione che il governo continua a togliere ricchezza tassando il patrimonio più diffuso: la casa. E tassa senza neanche avvertire per tempo. Quindi meglio essere pronti. E c’è un’altra parte del ceto medio che è smottato nella precarietà, trasformando la paura in terrore della povertà. A tutti loro non basta dire: spendete. Perché c’è chi non può e chi non si fida. Si devono prendere i proventi del QE, che porta minore spesa per il debito, unirli a politiche di contenimento e riqualificazione della spesa e tradurli in sgravi fiscali sicuri e permanenti. Altrimenti son chiacchiere.

Sul lato imprese sarà bene ricordare che non veniamo mica da anni in cui sia scarseggiata la liquidità, nei mercati. Anzi, era ed è abbondante. Qui scarseggia il mercato interno (vedi sopra, circa i consumatori) e scarseggia il credito. L’altro programma espansionista, sempre di marca Bce, è il Tltro, finalizzato a fornire liquidi da trasferire alle imprese. Ma da noi rischiano di fermarsi in banca, per debolezza sia delle banche (dal punto di vista patrimoniale) che dei clienti (dal punto di vista dell’affidabilità). Scarseggia anche la certezza del diritto e, tanto per dirne una, dopo mesi di discussioni sulla legislazione del lavoro, ancora oggi un imprenditore non sa in quale regime fiscale e regolamentare assumere. Quindi aspetta. Abbondano, invece, la pressione fiscale e la perversione burocratica. Se non si mette mano a queste cose gli investimenti non ci saranno, o non nella quantità e diffusione tali da lasciare intendere che la ripresa è una realtà, non uno slogan.

Ergo, evitiamo di prenderci in giro da soli. L’operazione della Bce è ottima, per giunta senza limiti di tempo e quantità. Chi si ferma all’80% delle garanzie nazionali non coglie la portata rivoluzionaria del 20% federato. Un passaggio storico. Ma, oltre a essere tutto bancario, che già non è bello, è escluso che provochi quel che si vorrebbe far credere. La saggezza popolare diceva: aiutati che dio ti aiuta. E qui, comunque, non c’è alcun dio intento ad aiutare.

QE della Bce, quel bivio tra euforia e depressione nera

QE della Bce, quel bivio tra euforia e depressione nera

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Sotto una pressione politica e mediatica priva di precedenti, Mario Draghi è riuscito a far approvare a larga maggioranza dal consiglio della Bce un’operazione di allentamento monetario di dimensioni almeno doppie rispetto alle attese. Il sistema europeo delle banche centrali acquisterà titoli sovrani, di agenzie e di istituzioni europee per 60 miliardi al mese fino a settembre 2016 o anche oltre fino a che l’inflazione non sarà su un «sentiero sostenuto» verso il 2%. Il potenziale positivo è molto elevato: sostituendo i titoli pubblici con la nuova liquidità, le banche sono incentivate a finanziarie le imprese nei paesi le cui politiche garantiscano prospettive di crescita; inoltre con un’inflazione più alta calerà il valore reale dei debiti pubblici; infine il mercato dei titoli pubblici sarà meno instabile. La politica monetaria da sola forse non può rilanciare consumi e investimenti la cui mancanza affligge l’economia europea, ma può attenuare la sfiducia ormai radicata che è la prima causa del vuoto di domanda.

Dopo la delusione del piano Juncker per gli investimenti, la Bce offre dunque l’ultimo incentivo ai governi per approvare le riforme, e a banche e imprese per sfruttare il calo dell’euro e del prezzo del petrolio. Le condizioni favorevoli non dureranno in eterno. La data del 2016 assume quindi un significato per la politica e non solo per l’economia. La pressione politica attorno a Draghi era inaudita. Politici di vari paesi avevano aizzato un clima di ostilità che ha finito per far breccia perfino all’interno della Bce. Draghi ha fatto leva sullo statuto della banca, e quindi sui trattati, per far valere l’obiettivo primario della difesa della stabilità dei prezzi. Il principio secondo cui la politica monetaria deve dominare gli obiettivi fiscali, caro alla Bundesbank, è il cilindro da cui Draghi ha potuto estrarre una politica espansiva intesa a modificare le aspettative di deflazione senza eccessivo riguardo alle conseguenze fiscali.

Non è un colpo di magia, ma un esercizio di leadership sovranazionale in un quadro politico sfilacciato in cui governi e opinioni pubbliche si stanno allontanando dal progetto europeo. Non a caso la Bce è diventata il primo bersaglio delle polemiche politiche nazionali. Ieri sera il titolo della “Bild” era «Draghi distrugge i nostri soldi?», il commento della FAZ è «Così Draghi distrugge la fiducia». Non a caso, per mesi l’unico tema dell’allentamento quantitativo è sembrato quello della condivisione dei rischi fiscali tra centro e periferia dell’euro. Due giorni fa, il parlamento olandese ha espresso il parere che i contribuenti dovessero essere tenuti al riparo dal debito italiano. Alla stessa paura rispondono le “stringhe tedesche”, come questo giornale ha battezzato l’opposizione di Berlino alla condivisione dei rischi attraverso gli acquisti di titoli pubblici.

La condivisione formale dei rischi è stata fissata al minimo e avrà come giudice finale il mercato. La Bce acquisterà solo l’8% dei titoli sovrani (un altro 12% di titoli di istituzioni europee), il resto finirà nei bilanci delle banche centrali nazionali. Si accetta quindi il rischio che prosegua la frammentazione dei sistemi finanziari in corso da tre anni, con tassi d’interesse nei paesi deboli più alti che negli altri. Inoltre in caso di crisi fiscale, ogni paese si troverebbe più facilmente isolato. Ma l’eventualità di insolvenza si allontana (benché non sia esclusa dall’annesso tecnico diffuso da Francoforte) ora che la spirale debito-deflazione viene contrastata credibilmente attraverso un intervento che tutti i governatori hanno giudicato al riparo da contestazioni giudiziali.

Il giudizio sul grado di condivisione o di segmentazione degli acquisti di titoli pubblici si capirà meglio a marzo, dopo il completamento della preparazione tecnica e legale. A Francoforte spetta infatti il coordinamento degli acquisti delle banche centrali nazionali secondo proporzioni in linea con le quote di ogni paese nel capitale della Bce. Non è affatto detto che ogni banca centrale acquisti solo titoli del proprio paese, né che la proporzione dei titoli sia fissa (potrebbe essere impossibile nel caso di paesi piccoli e con poco debito). A quanto è possibile capire, viene sancita la centralità dell’organo direttivo della Bce nel decidere le modalità degli acquisti anche modificandole nel corso del tempo. In teoria, come in passato, la Bce potrebbe modificare il programma qualora i governi abusassero del credito facile per non rispettare gli impegni, un’ipotesi che avrà una verifica con il caso greco.

In ultima istanza, se l’intervento della Bce condurrà a un miglioramento dell’economia e a un ricompattamento anche politico dell’euro area, o se invece allargherà la porta d’uscita per i paesi deboli, non dipende dalla banca centrale. Come si ripete di solito, l’intervento della Bce toglie alibi alle responsabilità politiche nazionali. Una volta ribadita l’unicità della politica del sistema di banche centrali, la condivisione dei rischi resta comunque in via indiretta attraverso il sistema dei pagamenti, il potenziale di conflitto politico tra paesi resta dunque elevato. Tutti i governi devono capire la natura “bipolare” della manovra di ieri: darà euforia se le cose andranno bene, o depressione nera se la sfida sarà mancata.

La sconfitta dei privilegi

La sconfitta dei privilegi

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

«Alle banche popolari quotate servono regole per un controllo più efficace dell’operato degli amministratori, un maggiore coinvolgimento degli azionisti in assemblea anche mediante deleghe. Come ho già osservato in passato, un intervento legislativo è necessario». «le modifiche statutarie, che pure abbiamo sollecitato, non possono essere risolutive». Era il 31 maggio 2011, e a dirlo era Mario Draghi, allora Governatore della Banca d’Italia. Il “necessario” intervento legislativo adesso è arrivato, indotto, se non “sollecitato”, dal Single Supervisionary Mechanism della BCE. Sette banche popolari di rilevanza sistemica, pur superando tutte lo stress test e l’asset quality review, hanno però dovuto usare il margine di tempo consentito per mettersi a posto: sono per così dire borderline. Per rafforzarsi le banche ricorrono perlopiù alle fusioni: ma se i loro statuti prevedono il voto capitario, solo con delle acrobazie di governance e di poltrone possono ricorrere a quello strumento, anche se sono quotate in Borsa. Il prezzo delle azioni non riflette il valore potenziale della banca, tant’è che basta l’annuncio dell’eliminazione del voto capitario perché i listini prendano il volo. La conseguenza è che abbiamo banche sistemicamente importanti, perlopiù efficienti, con buon radicamento sul territorio, che però risultano borderline nel nuovo panorama della Banking Union.

Il Governo ha deciso di eliminare gli ostacoli al superamento di questa situazione: entro 18 mesi 10 banche popolari, di cui 7 quotate, ma tutte sistematicamente importanti, dovranno diventare società per azioni. E lo ha fatto, perdipiù, con lo strumento del decreto, evidentemente, e a mio avviso giustamente, ravvisando la “necessità ed urgenza” di evitare che possano nascere problemi in quella parte del nostro sistema creditizio ( e magari sperando che in questo modo se ne possano risolvere alcuni, tanto per intenderci tra Siena e Genova). Evidentemente per Francoforte, e quindi per Roma, l’obbligo di trasparenza richiesto a una banca che per dimensione è sistematicamente rilevante, può essere soddisfatto solo con la governance di società per azioni, e non con quella a voto capitario.

C’è la retorica della cooperazione: le banche popolari – scriveva Raffaele Bonanni a proposito delle vicende BPM che mi indussero a dare le dimissioni da consigliere di quella banca– sono “la forma più compiuta di partecipazione al governo dell’impresa, la forma più avanzata di democrazia economica”. E c’è la realtà degli interessi, quelli di associazioni di soci, magari dipendenti e loro famigli, che organizzando e selezionando l’affluenza in assemblea, riescono a controllare il voto. Nel 2011 in BPM il 73% del capitale era in mano di non soci, il 27% in mano di 53.000 soci, di cui il 4% degli 8700 dipendenti organizzati nell’Associazione Amici. Questi controllano il voto in assemblea, hanno un improprio coinvolgimento nelle scelte gestionali, in particolare in quelle su avanzamenti e promozioni, senza nessuna responsabilità o rischio di sanzioni. Il problema di agenzia c’è anche nelle società per azioni, c’è, moltiplicato, nelle piramidi societarie, ma c’è perlopiù la possibilità di conquistare una maggioranza sufficiente a sostituire il management: una possibilità che invece non esiste in caso di voto capitario. Fin quando possono esistere isole felici in cui risparmiatori coscienti di non contare nulla corrono a dare i loro soldi a dipendenti perché la banca sia gestita in modo da dare a loro vantaggi sicuri, ovviamente a scapito della redditività? È nelle realtà di media dimensione che la cooperazione può non essere retorica, dove anzi si può supporre che si sia ancora capaci di assegnare correttamente il merito di credito alle imprese e ai loro progetti: che sono quindi fuori da quanto dispone il decreto del Governo.

Giuste le ragioni dell’intervento, a lasciar sorpresi è il momento scelto: perché non è che siano mancate le occasioni, nei 4 anni dopo il discorso del Draghi italiano e nei 4 mesi dopo il responso del Draghi europeo. Le banche popolari, proprio per le ragioni implicite al voto capitario, possono contare su sostenitori tra tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento. Se a suggerire l’intervento del Governo non c’è qualche brutta notizia di cui non si sia ancora a conoscenza, bisogna riconoscere che Matteo Renzi ha dato dimostrazione di grande determinazione prendendo un provvedimento che gli potrebbe alienare consensi proprio mentre in Parlamento hanno e avranno luogo votazioni di decisiva importanza per il futuro del Paese e suo. Consideriamola allora come una dimostrazione di forza, e attendiamo con fiducia la conversione del decreto.

Giungerebbe proprio a tempo. Infatti uno degli scopi del QE che oggi verrà annunciato dalla BCE è di consentire alle banche di erogare maggiori finanziamenti alle industrie. Ma se l’economia non cresce, gli investimenti diventano più rischiosi, più difficile diventa assegnare il merito di credito. Se è vero che molte banche popolari, anche alcune delle grandi, grazie a una maggiore prossimità alla clientela, hanno (ancora) conoscenze e competenze per saperlo fare, è questo il momento per loro di concentrarsi interamente a valorizzarle: libere dai conflitti di interesse tipici delle governance a voto capitario.