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Rai: privatizzare è buono, giusto e semplice

Rai: privatizzare è buono, giusto e semplice

di Giuseppe Pennisi

Dopo le notizie dei compensi pagati all’ex Ministro delle Finanze greco Varoufakis per una comparsata in Rai, la grande maggioranza degli italiani si chiede perché pagare il canone Rai e se occorra mantenere in vita l’azienda. Si profila una rivolta contro il pagamento del canone nella bolletta elettrica, sempre che la misura sia fattibile dato che comporta convenzione con un centinaio di aziende, costrette ad addossarsi un compito , ed un costo, non di loro pertinenza.

Una Spa di Stato per la tv era comprensibile come monopolio tecnico sino all’inizio degli anni Cinquanta. Da allora non lo è più. Tanto meno lo è da quando il digitale terrestre rende possibile centinaia di canali per svolgere “servizio pubblico” in linea con le esigenze dei territori. Non solo per finanziare la Rai si utilizza l’imposta di scopo ­ il canone ­ più odiata dagli italiani ma, voltate le spalle a una funzione sociale e culturale, alla stessa funzione di intrattenimento gli italiani hanno risposto voltando le spalle, come dimostrato dagli ascolti all’ultimo (costosissimo) Festival di Sanremo. La stesse liti tra dirigenti Rai non interessano più nessuno, come mostrato dal poco spazio dedicato all’ultima dalla stampa nazionale. Quindi, privatizzare ciò che resta della Rai pare cosa buona e giusta.

Ed è anche semplice, se si riprende un’idea che con Steve H. Hanke di Johns Hopkins University (grande consulente in privatizzazioni) lanciai senza grande successo alcuni anni fa. Visto il tracollodei conti e degli ascolti, ora ha forse maggiori chance. Nella situazione attuale la Rai avrebbe difficoltà a trovare altri acquirenti che non fossero la Croce Rossa, la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas o simili. Sempre che l’avessero a prezzo zero e con mani libere nel rimettere in sesto ciò che resta di un’azienda per decenni in monopolio e desiderosa di tornare a essere la sola del settore in Italia, in Europa e ­ perché no?­ nell’universo mondo. Occorre utilizzare immaginazione, esperienza e fegato. È una prova seria per il Presidente del Consiglio.

Il primo passo può sembrare bizzarro: collegare la privatizzazione della Rai alla nascita di una vera previdenza complementare per gli italiani, le cui pensioni Inps sembrano essere sempre più striminzite. Si coglierebbero così due piccioni con una fava. Il secondo consiste nel renderla una vera public company. Dovrebbe esserne lieto per primo il Partito democratico, che tanto si è speso per il secondo pilastro previdenziale e per le public company. Il precedente importante è il modo in cui sono state realizzate le privatizzazioni e i fondi pensioni in vaste aree dell’America Latina, dell’Europa Centro Orientale e dell’Asia. In pratica, significa dare azioni Rai a tutti gli italiani.

Seguendo quale metodo? L’età anagrafica. Quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Bonolis, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo dunque titolo a un risarcimento con titoli da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo ­ ad esempio, cinque anni ­ a non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale però manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riuscisse sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, la liquidazione diventerebbe obbligatoria se l’indebitamento superasse certi parametri. E il “servizio pubblico”? Nell’età della Rete delle reti ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro­informazione pullulano ­ tanto generalisti quanto specializzati.

Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il Partito Rai vorrebbe tornare a tempi staraciani o leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In secondo luogo, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti televisivi culturali ­ come avviene con successo nel settore del cinema.

È un miraggio? No, è la modernizzazione, bellezza! Quella che farebbe fare un vero scatto al Pil. E i dirigenti e gli autori Rai che perderebbero lavoro? Per loro si apre una strada tramite l’Agenzia per la Cooperazione Internazionale che sta per essere creata. Potrebbero essere inviati, sino all’età della pensione, in Paesi in via di sviluppo – meglio se a partito unico ­ per aiutarli a metter su le loro televisioni di Stato.

Giuseppe Pennisi
Presidente Comitato scientifico del Centro studi ImpresaLavoro

Canone Tv, scempio in bolletta

Canone Tv, scempio in bolletta

di Massimo Blasoni – Metro

Lo scorso anno la Rai ha avuto ricavi per 2.556 milioni, parte derivanti da introiti pubblicitari e parte dal canone. Un bilancio sostanzialmente in pari che però evidenza enormi inefficienze compensate da quella tassa ineludibile che è il canone, obbligatorio anche per chi ­ acquistata la televisione ­ non voglia guardare i canali della tv pubblica. La Rai lo pubblicizza come fosse un abbonamento, addirittura promuove giochi a premi per incentivarlo. In realtà è una tassa di possesso che, come ha stabilito la Cassazione, va pagata anche da chi voglia limitarsi a guardare centinaia di altri canali privati. Se il televisore è un apparecchio adatto a ricevere trasmissioni di chiunque (pubblico o privato che sia) abbia titolo a metterle in onda, allora quell’imposta concettualmente dovrebbe essere divisa tra tutti soggetti abilitati. Così non è, e l’opinione diffusa che la controprestazione del canone non sia un servizio (pubblico) diverso da quello erogato dagli altri operatori privati rende questa imposta anacronistica tanto invisa quanto evasa. Il governo Renzi ha però annunciato di voler imporre il suo pagamento nella bolletta elettrica, prefigurando uno scempio fiscale: l’inserimento di una tassa nella contabilità di una tariffa.
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Il premier rifà la Rai di Fanfani, gli mancano solo le Kessler

Il premier rifà la Rai di Fanfani, gli mancano solo le Kessler

Davide Giacalone – Libero

Back to Mammì. Che sarebbe anche una buona cosa, se non fosse fuori tempo massimo e fuori dalla realtà. In verità il film che Matteo Renzi vorrebbe far trasmettere alla Rai, a reti unificate, è: Back to Fanfani.

Quella che a Renzi sembra una novità è la proposta che il ministro Mammì (il mio amico Oscar, con cui ho lavorato, in una stagione di cui conservo un orgoglioso ricordo) fece nel 1987: sottrarre la Rai all’«ossessione dell’audience» (così la definì) e far sì che una delle tre reti fosse senza pubblicità. Fininvest, che era il nome di allora di Mediaset, avrebbe dovuto rinunciare a una delle sue tre reti. Tale proposta venne bocciata subito. Non dai sostenitori di Fininvest, ma da quelli della Rai. Non dagli amici di Silvio Berlusconi, ma da quelli di Biagio Agnes. In prima fila c’era lui, Uolter Veltroni, che disse: una televisione senza pubblicità non è una televisione. Sì, è lo stesso Uolter che poi sostenne non dovesse «interrompersi un’emozione», cioè non dovesse esserci la pubblicità nei film. Ma che volete, della coerenza ha sempre coltivato la variante africana.

Fu bocciata, dicevo. Poi fu approvata un’elaborazione successiva, che lasciava ai duopolisti tre reti (aprendo il mercato ad altri, però), tutte con pubblicità. E fu approvata con il consenso anche della sinistra democristiana e del Partito comunista (senza offesa, si chiamava così). Quando Mammì fece la sua prima mossa, comunque, la cosa aveva un senso. Intanto perché la Rai aveva tre reti, mentre oggi ne ha quindici. Poi perché non esistevano ancora né Tele+ né Stream, successivamente confluite in Sky. Soprattutto perché eravamo in epoca analogica, mentre oggi c’è il digitale. La domanda è: allora perché, oggi, il grande innovatore recupera un reperto archeologico? Risposta: perché punta ancora più indietro, alla Rai di Amintore Fanfani ed Ettore Bernabei. Alla Rai di governo. Si preparino le gemelle Kessler.

Renzi conta di arrivare al monocolore Rai cambiando il meccanismo di nomina dei consiglieri d’amministrazione. L’idea è che i consiglieri restino sette, come oggi, ma quattro siano eletti dal Parlamento, in seduta congiunta, due dal governo e uno dai dipendenti della Rai. Peccato che: a. le occasioni per le sedute congiunte sono regolate dalla Costituzione, sicché si dovrebbe modificarla (anche in questo), o scimmiottarla puerilmente; b. il Parlamento di cui parla Renzi è quello che stanno riformando, quindi al Senato ci sarebbero i rappresentanti delle Regioni, ma pochi, mentre la Camera sarebbe abitata da tanti di un solo partito, che è anche lo stesso al governo. Detta in modo più chiaro: chi vince le elezioni elegge sei consiglieri su sette. In più il governo nomina il direttore generale (mentre oggi lo elegge il consiglio d’amministrazione). Il potere assoluto. Manco Fanfani ci aveva pensato. Con un tocco di cogestione jugoslava, incarnata dal consigliere delle maestranze, in larga parte reclutate mediante accurata selezione partitica, quindi a vasta presenza di nostalgici a pugno chiuso e bocca aperta. Il maresciallo Tito ne sarebbe compiaciuto.

Renzi è una volpe. Conosce i suoi polli e per questo se li pappa. Infatti veste la sua proposta in questo modo: basta con la Rai dei partiti. Evviva, applausi, tripudio. Peccato che la lottizzazione (copyright Alberto Ronchey) nasce nel 1975, con la riforma che segnò la nascita della sinistra catodica, nonché la fine dell’era censoria e democristianocentrica. In quella in cui i figliuoli di Amintore guidano la sinistra si arriva a tali forme di simpatico sincretismo.

E che si deve fare, allora, conservare la lottizzazione come strumento di pluralismo? Il cielo me ne guardi. Il fatto è che siamo nel mondo digitale, quello che alla Leopolda si ricordava agli altri, salvo scordarsene in proprio. In questo mondo l’offerta è infinita. Il palinsesto te lo costruisci da solo. I più giovani neanche sanno cos’è il consumo televisivo dei propri avi. Dirigere la Rai, quindi, vuol dire controllare quel pezzo di opinione pubblica che s’è assopito davanti alle televisioni generaliste e commerciali, quali la Rai è. Significa puntare alla manipolazione del consenso di quel pezzo arretrato. Lo schermo, e torno a citare il piccolo grande Oscar, concepito come «balcone di piazza Venezia». La soluzione c’è, per non finire a quel modo: venderli. La Rai e il balcone.

La (non) riforma della Rai targata Renzi

La (non) riforma della Rai targata Renzi

Carlo Lottieri

C’è qualcosa di ingenuo, ipocrita e – sotto certi aspetti – anche di ridicolo nel riformismo renziano in tema di televisioni. Come ha annunciato la rivoluzione nel campo della televisione pubblica l’attuale premier? La retorica è simil-grillina, perché in definitiva il messaggio che si vuole far passare è che, finalmente, i partiti saranno messi alla porta. Non quindi la lottizzazione “hard” di alcuni decenni fa (con Rai Uno alla Dc, Rai Due al Psi e Rai Tre al Pci) e neppure quella più “soft” dei tempi recenti, caratterizzati da un intreccio più complesso di ruoli e poteri. Tutto questo sarebbe accantonato per veder nascere una nuova Rai con solo sette consiglieri di amministrazione invece che nove, uno dei quali eletti addirittura dai dipendenti.
Una rivoluzione? Macché. Se guardiamo nel dettaglio il governo si riserva la scelta di tre consiglieri e altri tre sono eletti dalle Camere in seduta comune. Il risultato è che governo e maggioranza sono più che sicuri di poter controllare la Rai (esattamente come adesso), lasciando uno spazio pure alla minoranza. Il che non guasta mai. Per giunta si è strutturata la riforma immaginando un peso rilevante – da leader assoluto e vera mente di tutta l’azienda – per un amministratore delegato dotato di ampi poteri in ogni direzione: programmi, scelta degli uomini, gestione del bilancio.
Renzi sa che se, grazie al (facile) controllo della maggioranza del Cda, egli riesce a mettere un uomo di sua assoluta fiducia alla testa della Rai questi gli può assicurare una linea editoriale, e non solo, del tutto schierata dalla sua parte. Il resto è aria fritta. Infatti il progetto parla di una Rai Uno generalista, di una Rai Due dedicata all’innovazione (qualsiasi cosa ciò voglia dire) e di Rai Tre una culturale. Ma il cuore della questione è che la politica non si ritrae affatto e anzi, sotto certi punti di vista, il governo rafforza il proprio controllo sul colosso televisivo pubblico. Un controllo importante per il numero dei dipendenti e per il ruolo propagandistico che la Rai ha sempre svolto e continuerà a svolgere a favore di questo o quello.
Una vera riforma, ovviamente, consisterebbe nel vendere la Rai e nell’aprire a chiunque, italiano o no, il mercato delle televisioni. Ovviamente tutto ciò l’attuale governo non vuole farlo per una serie di ragioni che illustrano assai bene i limiti del preteso “riformismo” renziano.
In primo luogo, l’ex-sindaco della città di Machiavelli non intende assolutamente ridurre la presa sulle risorse (anche umane) e sulla potenza di fuoco della televisione di Stato. Renzi è un politico a tutto tondo, che negli anni passati a Firenze – inizialmente alla guida della Provincia e poi alla testa dei Comune – ha imparato assai bene a gestire il nesso tra risorse finanziarie, voti e controllo sociale. Il suo realismo gli impedisce di essere davvero un riformatore, perché per farlo dovrebbe rinunciare a una parte rilevante dell’artiglieria di cui dispone.
In secondo luogo, manca la minima consapevolezza culturale di cosa voglia dire indirizzarsi verso una società libera. I toni liberali che talvolta possono affiorare nella retorica del premier sono funzionali a obiettivi politici di piccolo cabotaggio – come nel caso delle polemiche con la Cgil – oppure a costruire una retorica in grado di attrarre gli elettori moderati. Ma nulla è più lontano dalla sua cultura che l’idea di un’informazione davvero aperta, senza interferenze statali, senza una programmazione e senza regolazione di Stato.
La riforma della Rai immaginata da Renzi è insomma all’insegna del gattopardismo. E in questo modo stiamo sprecando un’altra opportunità.
Rai Way, comunicazioni arretrate

Rai Way, comunicazioni arretrate

Davide Giacalone – Libero

Rispondere all’offerta di acquisto dicendo che il governo aveva stabilito di tenersi il 51% non ha alcun senso, né legittimità. Ciò non vuol certo dire che la sola risposta legittima e sensata sia positiva, ma anche in caso di rifiuto si deve affrontare il tema che presiede all’offerta pubblica di acquisto e scambio, con cui Ei Towers chiede di acquisire il controllo di Rai Way. Cosa fare degli impianti e come valorizzarli. Il governo ci pensi bene, prima di rispondere. Il resto, a base di nazareni morti o risorti e pro o anti­berlusconismi, è reazione tipica degli orecchianti: non sapendo di che si parla, la buttano in caciara.

La prima cosa da capire è che il pluralismo televisivo e la libertà d’informazione non c’entrano niente. Non si confonda il postino con il contenuto del pacco. Le regole di funzionamento dei fornitori di rete, di quei soggetti che non fanno televisione, ma trasportano il segnale televisivo, sono fissate per legge. Il fatto che Rai e Mediaset abbiano entrambe due società delle reti (cosa che si riproduce anche per alcuni più piccoli) ha a che vedere con la storia, con il modo in cui il mercato s’è formato, non con le regole del suo funzionamento.

La seconda cosa è il 51%, che taluni credono sia stato deciso resti in mano pubblica. Non è così. Nel novembre 2014 la Rai portò in Borsa il 35% di Rai Way. Lo fece per compensare la riduzione del trasferimento del canone (nel senso che il governo ne trattenne una parte per altre spese). Prima di quel passo la Rai doveva essere autorizzata dall’azionista, che è il ministero dell’economia, vale a dire il governo. Il governo autorizzò una vendita non superiore al 49%. Tutto qui, mica è una legge. Ora c’è un operatore privato che offre di comprare almeno il 66,67% delle azioni. Non ha senso rispondere: avevamo detto di no, perché nessuno aveva offerto nulla e quell’indicazione si riferiva alla quotazione per far cassa e avere soldi per spesa corrente. Chi cita quel decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm), quindi, ha le idee confuse.

Andando in Borsa, però, Rai Way non si limita a foraggiare il vorace ruminante di quattrini, ovvero la Rai, ma entra ufficialmente nel mercato. Il che comporta qualche conseguenza. Una di queste è che taluno offra di comprare. E ci siamo. Ma se non ha a che vedere con le televisioni e si lavora in un mercato regolamentato, perché chiede di acquistare quel che già ha? Ei Towers e Rai Way, infatti, fanno lo stesso mestiere. Risposta: a. nel caso minimo, perché gestendo più impianti, per più clienti, si creano sinergie che possono far diminuire i costi e crescere i profitti; b. nel caso massimo, il più interessante, perché le sinergie si allargano al settore delle telecomunicazioni.

Questo è il tema che il governo non può eludere: l’Italia delle comunicazioni è arretrata; eravamo all’avanguardia e abbiamo smesso, per lustri, di investire nelle reti di telecomunicazione; invece si è investito in quelle televisive; se pensiamo di recuperare gli squilibri digitali interni (digital divide) mediante gli investimenti degli operatori telefonici (con Telecom distrutta da politicanti e corsari), magari in fibra ottica, ci rivediamo fra dieci anni; se, invece, utilizzassimo le radiofrequenze digitali potremmo tagliare costi e tempi, offrendo in fretta soluzioni accettabili a imprese, scuole, sanità, cittadini. In ciò consiste la più ghiotta sinergia.

Anche in questo caso non ha senso che il governo risponda: ho deciso di tenermi il 51%. Vor­rebbe dire che non hanno capito la domanda. Possono rispondere: 1. no, lo facciamo da soli (poi, però, spiegano dove trovano i soldi e perché buttano via un premio del 52,7% rispetto al prezzo di quotazione, di soli tre mesi fa); 2. no, lo facciamo fare a un altro (poi raccontano scelto come e da chi finanziato); 3. no, perché c’è chi offre di più (nel qual caso il 51% si conferma la risposta sbagliata). La terza ipotesi è la sola ragionevole, ma ce n’è una migliore: 4. sì, ma se ti prendi tutto devi anche sottoscrivere impegni relativi a quantità e tempi degli investimenti, perché non ci serve trasferire una rendita, ma è bene che sia un privato a far rinascere l’Italia digitale.

Nel frattempo, giusto per non lasciare infezioni in giro, meglio chiudere l’assegnazione delle frequenze per televisioni e radio, in grave ritardo. Questo è il tema. Il governo ci pensi, mentre gli altri, in cortile, giocano con il pallone sbagliato.

RilottizzeRai

RilottizzeRai

Davide Giacalone – Libero

Anziché ascoltare i consiglieri si ascoltino gli elettori. Se Matteo Renzi sta cercando idee per la Rai, un suggerimento lo avrei: dia retta agli italiani. E’ più facile di quel che si crede. Pare sia intenzionato a liberare la Rai dalla lottizzazione e dalle presenze, oltre tutto sempre più dequalificate, dei partiti politici. Bravissimo. Applaudo. Ma come? Semplice: l’11 giugno del 1995, or sono vent’anni, gli italiani furono chiamati a votare, fra gli altri, tre referendum. Due erano proposti dal Pds, il Pd di allora, e chiedevano di cancellare la legge esistente sia per quel che riguardava le concentrazioni che per la raccolta pubblicitaria. Gli italiani risposero di no, bocciando l’iniziativa. Uno, però, proposto dai radicali, proponeva di cancellare la legge che obbligava a mantenere pubblica la Rai, aprendo la via alla privatizzazione. Gli italiani votarono a favore (57% dei partecipanti e 54,90% dei consensi). Quella è la soluzione. Ci si libererebbe anche del canone, e scusate se è poco.

Non lo è, invece, come si dice il governo voglia fare, trasferire al proprietà a una fondazione, cui spetterebbe anche il compito di nominare i consiglieri d’amministrazione. Qualcuno s’incarichi di ricordare ai più giovani che la proprietà della Rai è già stata trasferita, ma finché resta in mani pubbliche è ovvio che la nomina dei vertici resta politica. Si può cancellare la lottizzazione, ovvero la spartizione, facendo in modo che prenda tutto uno. Ma in questo modo non vengono meno le mani politiche sulla Rai, semplicemente la mano diventa una. Che è peggio, non meglio.

Si dirà: ma la fondazione sarebbe di alto valore culturale e indipendente. In quel caso va messo l’antitrust alle scemenze, perché non ho mai visto nascere nulla con l’intento che sia di livello triviale e con vocazione alla sudditanza. Ma lì finisce. Se non è zuppa è pan bagnato. Allora, come si può procedere? Intanto evitando di discutere come se fossimo nello scorso secolo, analogico. Con il digitale tutte le imprese televisive si sono dotate di numerosi canali (altro che tre!). La soglia d’accesso a quel mercato s’è abbassata al punto che anche chi non era editore televisivo (le radio e i giornali, ad esempio) lo è diventato. Ciò comporta che non c’è alcun pericolo venga meno il pluralismo, a presidiare il quale bastano le leggi regolanti il mercato. Ciò non garantisce certo il venir meno del conformismo, ma neanche il cosiddetto (e inesistente) “servizio pubblico” ne è capace. Anzi: ne è uno dei più fantastici contenitori.

La Rai è ricca di impianti e sistemi produttivi. Si vendano, all’asta e prevenendo le concentrazioni. Ci si fanno bei soldi (da destinare al calo del debito) e si rende migliore il mercato. Segnalo, però, che con la quotazione di RaiWay il governo Renzi ha fatto il contrario, finanziando la lottizzazione. Il patrimonio culturale, che è degli italiani, non consiste nella produzione Rai, ma nel suo magazzino, nella sua storia, che è storia d’Italia. Se ne apra l’utilizzo a chi lo chiede. Naturalmente a pagamento.

Può, un Paese, fare a meno del servizio pubblico, esercitato da una società pubblica? Sì, nel mondo digitale può. Eccome. Perché il video non sia precluso alle minoranze basterà regolare quegli accessi e obbligare le emittenti a rendere disponibili gli spazi. Senza remunerazione specifica, perché si tratterebbe di un obbligo derivante da un titolo pubblico (l’autorizzazione a trasmettere). Senza canone, quindi. E senza l’idea bislacca di metterlo nella bolletta elettrica, o di dimezzarlo per poi raddoppiarne o triplicarne i pagamenti dovuti (tutta roma anticipata e poi ritirata dal governo). Il consiglio d’amministrazione in carica, di cui non si ricorda un solo atto degno di nota, scade ad aprile. Se si volesse intervenire sul meccanismo di rinnovo lo si dovrebbe fare per decreto legge. Obbrobrio. Orrido precedente. Al punto che Palazzo Chigi ha smentito d’averlo in mente. E ci mancava solo quello. Più facile e onesto avviare le procedure di vendita, considerando ininfluente chi amministrerà solo per pochi mesi.

Ha detto Renzi: “Vogliamo fare della televisione di Stato la più innovativa azienda di produzione culturale”. Quella era la Rai di Ettore Bernabei, governante Amintore Fanfani. Non starò a ricordare che era la sinistra a ritenerla uno sfregio alla libertà e alla democrazia, mi limiterò ad osservare che cercare in quel passato l’innovazione significa essersi dimenticati con quale sistema si ovviò al monocolore televisivo, a gran richiesta e con il plauso della sinistra: con la lottizzazione.

Istruttivo e distruttivo

Istruttivo e distruttivo

Davide Giacalone – Libero

Istruttivo e distruttivo, lo scontro sui contributi che le emittenti televisive devono pagare per l’uso delle frequenze digitali. È istruttivo che tutti si concentrino su quanto dovranno scucire la Rai e Mediaset (e chi se ne importa), o su quanto questo incremento sia frutto di una ritorsione politica (che neanche nella Chicago del vecchio Al). È distruttivo, invece, che nessuno faccia caso a cosa comporta una simile decisione governativa: la fine delle autorità indipendenti, la demolizione dell’Agcom (autorità per le comunicazioni). Che forse se lo merita pure, ma sarà il caso di concentrarsi sull’elefante entrato in cristalleria, non sulla scimmia sghignazzante che ha sul groppone e finge di guidarlo.

Partiamo dal conoscere, prima di giudicare e deliberare. L’autorità indipendente fu introdotta all’inizio degli anni novanta (con la legge Mammì, che, come tutti ripetono, contribuii a scrivere, ma dato che quanti dicono sono refrattari a studio e lettura, non sanno che i difetti li misi nero su bianco durante la discussione e subito dopo, perché le leggi si scrivono in Parlamento, dove si producono robe da ridere e da piangere). Fu una moda, quella delle autorità, che, anche grazie a Uolter Veltroni, furono da subito chiamate all’americana: Authority (che poi non è manco americano, perché colà al plurale fa: Authorities). A me sembrava che non potessero funzionare, in un sistema di diritto in cui esistono sedi di ricorso amministrativo. Così è stato. Ma ora siamo al salto (in basso) di qualità: è il governo a intervenire sulle decisioni dell’autorità indipendente, che così cessa di essere sia indipendente che autorità.

Nell’aprile del 2012, governante Mario Monti, con una maggioranza di governo che comprendeva le componenti politiche dell’attuale, un decreto legge stabilì che sarebbe stata l’Agcom a fissare criteri e quantificazione dei contributi annuali da versare per l’uso delle frequenze digitali. Nell’ottobre del 2014 (con calma), l’Agcom provvede. Nel decreto legge milleproroghe, il cui nome è un milleprogrammi, il governo Renzi incorpora quella decisione. Non pago di avere decretato d’urgenza, quindi dando vita a un atto che è già vigente e operativo, urgentemente, ma posticipatamente, decide di cambiarlo, presentando un emendamento che attribuisce al governo quella funzione. Tutti si mettono a strillare per le due ragioni sopra ricordate, ma nessuno vede lo scempio del diritto. Altro che semplificazioni e trasparenza dei testi, qui siamo all’azzeccagarbuglismo che genera un kamasutra legislativo, inducente contorsionismo regolamentare.

C’è una sola cosa da farsi, per metterci una pezza: chiudere l’Agcom. Perché se non la chiudono resta evidente che è commissariata, il che, per una supposta indipendenza, è troppo. Avvertendovi di ciò, vi metto sull’avviso di quel che si sta preparando e già praticando. Ricordate il vecchio mercato delle frequenze? Un suk inverecondo, che la legge Mammì stoppava, introducendo, dopo anni, la pianificazione e le concessioni. Peccato che provvidero a disapplicarla, dando poi le concessioni senza le frequenze, sicché il suk raggiunse ritmi e quotazioni stellari. È finito per estinzione, giacché si è passati al digitale. Bene. Peccato che ora si sia aperto il suk Lcn: vale a dire, per capirsi, della posizione di ciascuna emittente sul telecomando. Teoricamente non dovrebbe esistere, perché ad ogni autorizzazione corrisponde una collocazione. Ma praticamente è già attivo e fiorente, con soggetti che si fanno pagare milioni null’altro che il riflesso del valore di un atto amministrativo e governativo. In un Paese mezzo serio tutto questo verrebbe stroncato sul nascere, salvo il fatto che nessuno se ne occupa. Né il governo né la (non) autorità (non) indipendente. Quando qualcuno, fra qualche tempo o anno, ve lo racconterà come uno scandalo, sapete dove indirizzarlo.

Le false vittorie del governo

Le false vittorie del governo

Davide Giacalone – Libero

44 miliardi escono oggi dalle tasche degli italiani e si lanciano nel dirupo delle casse erariali. A salutare il loro precipitare hanno trovato la fanfara di due annunci: nel 2015 non aumenteranno né le tasse sulla casa né il canone Rai. Ma non basta, perché ad accompagnare il volo c’è anche un fatto: solo il 15% della delega fiscale ha fin qui trovato attuazione, scadendo il prossimo 27 marzo. E fra le cose che si dicono imminenti c’è 1’ennesima ridefinizione dell’abuso di diritto. Che è uno strazio del diritto.

Andiamo con ordine. Le imposte legate alla casa non aumenteranno. Che bello. La verità è più prosaica: il governo aveva annunciato che il 2015 sarebbe stato l’anno della “local tax”, sicché una sola tassa che le avrebbe ricomprese tutte, e invece s’è arreso, lasciando tutto com’è. Questa è la notizia. E veniamo al canone Rai: non aumenterà. Evviva. Scusate, ma non doveva dimezzarsi? L’annuncio era: si pagherà la metà e lo si farà con la bolletta elettrica. La notizia è che l’operazione governativa è abortita. Tutto il capitolo della semplificazione fiscale, del resto, dovrebbe essere compitato entro la fine di marzo, dando attuazione alla delega fiscale. Fin qui siamo a carissimo amico.

Dicono in arrivo la parte relativa all’abuso di diritto. Leggo le anticipazioni e inorridisco. Dunque: non sarebbe più reato, ma il fisco può continuare a contestare non violazioni della legge, non evasioni fiscali, ma elusioni fondate sull’applicazione della legge. Non ha alcun senso supporre che il rispetto di una legge possa essere un abuso. Se lo è, ciò discende dal fatto che la legge è scritta male. La riscrivano. Comunque: equiparato all’elusione, l’abuso continuerà ad essere contestato. A quel punto il contribuente dovrà dimostrare di avere agito con finalità non malevole. Quindi: il fisco contesta e il contribuente deve dimostrare di non essere in peccato. Manco il tribunale dell’inquisizione. Il contribuente, però, può prevenire il problema: quando dovrà applicare una legge, potendo scegliere fra quella e un’altra, potrà evitare d’incorrere in tentazione chiedendo prima al fisco cosa sua signoria suggerisce di fare. Appena oltre il confine, se scegli con attenzione, si paga meno ed è tutto più semplice. Se vai in Lussemburgo al funzionario non chiedi quale leggi applicare, ma tratti quale aliquota ti applica, se vai a fargli compagnia. Ecco, se siete di buon carattere, diciamo che tali notizie potrebbero allietarvi le feste, strappando un sorriso. Se già malmostosi, c’è solo da sperare che vi distraiate.