renato brunetta

Il governo gioca d’azzardo sul disastro dei conti

Il governo gioca d’azzardo sul disastro dei conti

Renato Brunetta – Il Giornale

Prima presa d’atto di un disastro da tempo annunciato e per troppo tempo esorcizzato nella speranza di un improbabile miracolo. È il quadro che emerge dalla nota di aggiornamento del DEF, nei suoi dati essenziali. Per le ulteriori specifiche, che hanno comunque un valore rilevante, dovremo aspettare il varo definitivo del documento. Al momento top secret. Ma quello che è stato approvato dal Consiglio dei ministri di ieri è sufficiente per tracciare un quadro a tinte fosche dell’economia – e della società – italiana. Che fa naufragare ogni ottimismo di maniera.

Cominciamo dal dato della crescita, anzi della de-crescita. All’inizio della sua avventura (aprile 2014) Matteo Renzi aveva previsto, per l’anno in corso, un aumento del PIL dello 0,8%. Se le nuove previsioni saranno confermate, chiuderemo con una caduta dello 0,3%. E quindi una differenza rispetto al dato iniziale dell’1,1%. Dobbiamo dare atto a Pier Carlo Padoan, ministro dell’economia, di aver resistito alla tentazione di giocare con le cifre. Almeno per il 2014, dove il rischio di un’immediata smentita era molto più forte. La nuova previsione approssima quella dell’OCSE, che indicava per il 2014 una caduta dello 0,4%.

Con la stessa franchezza, tuttavia, diciamo che non ci convince l’ipotesi che per il prossimo anno, il 2015, l’economia italiana, in assenza di un forte cambiamento della politica economica, possa crescere dello 0,6%. Bene che vada, il semplice abbrivio porterà ad un valore che è pari alla metà, con la conseguenza di spingere il deficit, che nelle previsioni già balla pericolosamente sul baratro del 2,9%, oltre la soglia canonica prevista dalle regole di Maastricht. Risultato poco invidiabile: visto che è dal 2012 (Governo Monti) che non riusciamo ad abbassare quella febbre. Sintomo vistoso delle contraddizioni strutturali – soprattutto la bassa produttività – dell’economia italiana. Finora ci ha salvato la rivalutazione contabile del PIL che ha ridotto di 0,2 punti di PIL quel valore. Ma si tratta di un evento irripetibile.

La dimostrazione di quest’assunto è nelle previsioni circa l’andamento del debito, che in rapporto al PIL è previsto scendere da un’iniziale 134,9% del PIL al 131,6%. Con una flessione di oltre 3 punti. Un’evidente stonatura, che ha solo una giustificazione contabile. In percentuale il debito scende, ma solo come effetto della revisione statistica del PIL. Non per merito della politica economica del governo. Tutt’altro. Le nuove regole europee (Sec 2010) hanno regalato a tutti i Paesi una rivalutazione dei precedenti valori, includendo nei nuovi calcoli tra l’altro le attività illegali (dalla prostituzione al traffico di droga), che per l’Italia è stata pari al 3,8%. In valore assoluto qualcosa come 58 miliardi. C’è poi da aggiungere che con riferimento al debito pubblico, pur nel quadro ottimistico appena tracciato, è previsto l’ennesimo aumento: dal 131,6% nel 2014 al 133,4% nel 2015.

Qualche settimana fa Wolfgang Munchau, dalle colonne del Financial Times, prospettava l’ipotesi di una inevitabile crescita del rapporto debito/PIL italiano al 150%: l’anticamera del suo default, con conseguenze drammatiche sulla stessa tenuta dell’euro. Le proiezioni realistiche di quel rapporto indicano che quel rischio non è da sottovalutare. Dovrebbero spingere il Governo ad accelerare sul fronte delle privatizzazioni, secondo quanto previsto dalla legge di stabilità varata dal Governo Letta, in cui si prevedevano interventi per 10 miliardi all’anno, per l’intero triennio. Di quel programma è stato realizzato solo una minima parte: più o meno un decimo. Alla fine dell’anno mancano pochi mesi e forse qualcosa si può ancora fare. Ma occorre recuperare, rapidamente, il tempo perduto.

Perché è così importante soffermarsi sul problema del debito? Le regole europee impongono ai Paesi, condizionati dal peso eccessivo di quel fardello, procedure di rientro, che sono misurate dall’andamento del deficit strutturale di bilancio. Quest’ultimo dovrebbe essere compreso tra lo zero e meno 0,5. Per il 2014 il DEF aveva previsto una soglia dello 0,6, contestata dalla Commissione europea, secondo la quale quel valore era pari allo 0,8 per cento. Ancora maggiore lo scarto nelle previsioni per il 2015: 0,1 da parte del Governo e 0,9 da parte della Commissione. In simili circostanze, i Trattati prevedono un aggiustamento pari allo 0,5 % del PIL (circa 8 miliardi di manovra).

Il Consiglio dei Ministri ha invece fatto orecchie da mercante, prevedendo esplicitamente un “rallentamento nel percorso di avvicinamento”. L’aggiustamento sarà solo dello 0,1 per cento. Ipotizzando (i conti senza l’oste), altresì, l’ulteriore rinvio di un anno (non più il 2016 come originariamente previsto, ma il 2017) nel conseguimento dell’obiettivo di medio termine. Una nuova scommessa, all’insegna del moral hazard. Profezia fin troppo facile, almeno a giudicare dalle reazioni immediate del portavoce del Commissario agli affari economici dell’Ue, Jyrki Katainen, il grande falco che vigila sugli adempimenti dei trattati. Che l’Italia rispetti le raccomandazioni della Commissione, dove non c’era traccia dell’assenso al rinvio del pareggio del bilancio per il 2016. Figuriamoci se il “rallentamento del percorso di avvicinamento all’obiettivo di medio termine” al 2017 (un anno ancora dopo) – come recita pudicamente il comunicato di Palazzo Chigi – potrà fargli cambiare idea.

Euro più debole e inflazione: le mosse per tornare a crescere

Euro più debole e inflazione: le mosse per tornare a crescere

Renato Brunetta – Il Giornale

La scorsa settimana si è caratterizzata non tanto per il viaggio del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, negli Stati Uniti; non tanto per il dibattito, sempre più duro, sulla riforma del mercato del lavoro e, in particolare, sul superamento dell’articolo 18, ma soprattutto, sul fronte economico-finanziario-Europa-mercati, per la svalutazione dell’euro sul dollaro. Del tutto in secondo piano è passato il tema della Nota di aggiornamento al Def, che il governo avrebbe già dovuto presentare al Parlamento (il termine previsto dal semestre europeo è il 20 settembre di ogni anno), ma che probabilmente solo oggi vedrà la luce. Probabilmente. Nella settimana che si è appena chiusa, dicevamo, il rapporto di cambio euro/dollaro ha raggiunto il suo livello minimo da 14 mesi: sotto quota 1,28. Il dato non può e non deve passare inosservato, per l’importanza dei motivi che lo hanno determinato e per gli effetti che esso ha, e avrà, sulle maggiori economie mondiali.

Il valore della moneta unica europea è in diminuzione in quanto, da un lato, è in aumento la domanda di attività finanziarie denominate in dollari, che promettono rendimenti superiori, a seguito dell’annuncio della banca centrale americana, la Federal Reserve, di una imminente stretta monetaria: la fine del Quantitative easing (Taper off) dal prossimo mese di ottobre e l’aumento dei tassi di interesse tra marzo e giugno 2015. Dall’altro lato, al contrario, la Banca centrale europea manterrà bassi ancora a lungo i tassi d’interesse dell’area euro, e si appresta a varare nuove e straordinarie misure espansive di politica monetaria nei prossimi mesi. Ne deriva un ampliamento del differenziale atteso dei tassi d’interesse tra Europa e Usa a favore degli Stati Uniti. Inoltre, gli ultimi dati disponibili rilevano un peggioramento della bilancia commerciale dell’area euro, determinato in generale dalla cattiva performance economica, in termini di crescita, dei paesi europei, e, più in particolare, dal calo dell’export della Germania nei confronti dei paesi extra-Ue. Questo crea un ulteriore aumento della domanda di dollari (per acquistare beni e servizi americani) e una diminuzione di quella di euro. Il combinato disposto di questi due fattori ha determinato la rivalutazione del dollaro e la conseguente svalutazione dell’euro cui abbiamo assistito nell’ultima settimana. Mercati in movimento, quindi. Incerti, ma vigili. Fare attenzione. Ottobre è arrivato.

Come abbiamo anticipato, la presidente della Federal Reserve americana, Janet Yellen, la scorsa settimana ha confermato che con il prossimo acquisto, in ottobre, di asset per 15 miliardi di dollari finirà la politica di Quantitative easing che fino ad oggi ha assicurato bassi tassi di interesse a sostegno dell’economia. In realtà, il cosiddetto “Tapering”, cioè la riduzione progressiva, di 10 miliardi al mese, della terza tranche di QE, iniziata a settembre 2012 con acquisti mensili di asset per 85 miliardi di dollari, era attesa da oltre un anno.

L’interazione tra le politiche monetarie della Bce e della Fed, che continueranno a essere di segno contrario, seppur in posizioni invertite, consentirà un riequilibrio in termini di crescita tra Europa e Stati Uniti? Ciò dipenderà dai tempi con i quali il mutamento della politica della Fed si trasmetterà sull’aumento dei tassi d’interesse nell’area dollaro, soprattutto sui tassi a lungo termine, da come la Federal Reserve riuscirà a orientare e/o controllare la progressività dell’aumento e soprattutto da come la Fed reagirà a possibili scostamenti dei tassi di crescita dell’economia e di disoccupazione americani da quelli previsti e sui quali essa ha basato le proprie decisioni di normalizzazione monetaria. Ma ciò dipenderà ovviamente anche da quel che accadrà in Europa.

L’obiettivo principale che deve porsi oggi la Banca centrale europea è duplice: ottenere una consistente riduzione del tasso di cambio dell’euro e alzare il tasso d’inflazione, per evitare l’emergenza di una spirale deflazionistica già iniziata in vari paesi europei. I due obiettivi sono strettamente connessi, perché la svalutazione dell’euro sembra ormai a molti commentatori l’ultimo strumento per ottenere nel breve periodo, al tempo stesso, un aumento dell’inflazione importata e un aumento della domanda, sia estera sia domestica, di prodotti europei. Questo appare, dunque, l’unico modo per riavviare la crescita, in attesa che l’Europa riacquisti un dinamismo competitivo endogeno. Il deprezzamento dell’euro sul dollaro dell’ultima settimana sembra dare una risposta al possibile effetto congiunto dell’espansione monetaria inseguita dal presidente della Bce, Mario Draghi e l’annuncio della fine della stessa politica negli Stati Uniti.

Qui si pone, tuttavia, una questione di non poco conto per i paesi europei più indebitati come l’Italia. L’afflusso di capitali in Europa ha avuto un effetto benefico sulla sostenibilità dei debiti, determinando un costo del debito ai minimi, e sui valori azionari che sono saliti nonostante la stagnazione/recessione, ma ha avuto come prezzo un ostacolo alla crescita determinato dal valore alto dell’euro. Il desiderato deprezzamento dell’euro, e, soprattutto, l’attesa di deprezzamento, implica una possibile inversione di tendenza anche dal lato della remunerazione richiesta per il finanziamento dei debiti che, quindi, aumenterebbe, con conseguenti guai per molti paesi europei e per l’Europa nel suo complesso. Per questo crediamo che la Bce debba prepararsi a un necessario intervento non convenzionale che possa estendersi all’acquisto di debito pubblico (leggi: Quantitative easing europeo).

Rimane anche un dubbio complessivo legato al passaggio, annunciato dalla Fed, dall’approccio “Forward guidance”, fino ad oggi adottato, all’approccio del “Data-driven stance”. Il primo approccio è quello seguito dal predecessore di Janet Yellen alla guida della Federal Reserve, Ben Bernanke, negli ultimi anni, in base al quale la banca centrale comunica con largo anticipo agli operatori le decisioni di politica monetaria che intende prendere. Altro approccio è quello di stare a vedere cosa accade all’economia, fare piccole correzioni nei tassi di interesse, o altre azioni di intervento, e annunciare che ulteriori decisioni verranno prese se gli stimoli non si dimostrano sufficienti a far ripartire la spesa in consumi e investimenti (Data-driven stance). Questo approccio sembra guidare sostanzialmente anche gli ultimi interventi della Bce e i suoi annunci di ulteriore e crescente ricorso a strumenti di politica monetaria non convenzionali. Gli stimoli monetari messi in campo fino ad oggi dalla Bce non hanno avuto gli effetti sperati. Ha dunque ragione Draghi quando afferma che la politica monetaria da sola è inefficace se non aiutata dalla politica economica, quindi dalle riforme strutturali, degli Stati, e anche che entrambe le politiche possono poco se non si sbloccano i mercati e le istituzioni.

La conclusione è che, con la svolta della politica monetaria americana, per l’Italia la strada rischia di complicarsi ulteriormente, e diviene sempre più cruciale la necessità di grandi capacità di governance e di decisioni non solo rapide, ma anche forti e condivise. Se fino ad oggi i tassi di interesse sul nostro debito pubblico sono rimasti bassi, per esempio rispetto ai picchi del 2012, grazie alle “magie” della politica monetaria, non solo e non tanto della Bce, ma soprattutto della Federal Reserve, adesso lo scenario sta cambiando e il ruolo dei governi torna centrale. Se si vuole evitare una nuova tempesta finanziaria, le banche centrali non bastano più: la palla è in mano ai governi. Solo ai governi. Purché facciano le cose giuste.

L’ottobre nero dei nostri conti, su fisco e lavoro tempo scaduto

L’ottobre nero dei nostri conti, su fisco e lavoro tempo scaduto

Renato Brunetta – Il Giornale

Fino a che punto i mercati avranno fiducia nell’Italia, dopo il taglio delle previsioni di crescita del Pil da parte dell’Ocse e del Fondo Monetario Internazionale? Fino ad oggi i gestori (soprattutto grandi banche d’affari e hedge funds americani) hanno avuto un eccesso di liquidità da investire, per effetto delle politiche di allentamento monetario, ancorché in diminuzione, della Federal Reserve. Siccome «non sanno più dove mettere i soldi», l’acquisto di titoli di Stato italiani ha rappresentato ancora una strategia ragionevole: sono comunque titoli meno rischiosi di quelli dei paesi emergenti e garantiscono un rendimento conveniente.

La situazione cambierà invece con la fine del Quantitative Easing della Fed (Taper off già previsto per ottobre) e la conseguente riduzione di liquidità a livello internazionale. A quel punto, con meno soldi in circolazione, le scelte di portafoglio dei gestori dovranno essere più selettive e i primi titoli di cui si disferanno saranno proprio quelli italiani se, per quella data, ben più vicina dei mille giorni di Matteo Renzi, il nostro paese non avrà dimostrato di aver fatto le riforme necessarie. Ai mercati basterà poco per cambiare atteggiamento. E, in assenza di decisioni concrete da parte del governo o, peggio, di crisi all’interno del più grande partito della maggioranza che governa il paese, tutto potrebbe precipitare di nuovo, con un rapporto debito/Pil fuori controllo, oltre il 140% nel 2015.

E l’allarme crescita, in Italia e in Europa, è stato al centro anche degli incontri dei ministri dell’Economia e delle finanze e dei banchieri centrali dei paesi del G20 riuniti a Cairns, in Australia. Proprio nei giorni in cui un altro quotidiano inglese, il Financial Times, pubblicava l’indiscrezione secondo cui il membro belga del Consiglio direttivo della Bce, Benoït Cœuré, e Jörg Asmussen, ex Bce, ora vice-ministro del Lavoro tedesco, hanno chiesto al governo di Angela Merkel di ridurre le tasse sul lavoro e aumentare gli investimenti pubblici, fino a 18 miliardi nel 2015 e 10 miliardi nel 2016 (rimanendo, quindi, ampiamente nel rispetto dei parametri europei in termini di rapporto deficit/ Pil) per fare da traino alla crescita in Europa. In altri termini: reflazione. Lo scriviamo da 3 anni. Significa aumento della domanda interna tedesca, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita, per la Germania e per l’intera area dell’euro.

Rispetto alla situazione interna ed europea/internazionale descritta fino ad ora, il Partito democratico spaccato sulla riforma del mercato del lavoro introduce un ulteriore elemento di instabilità, di cui l’Italia proprio non aveva bisogno. Il presidente del Consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi, deve, pertanto, fare chiarezza subito. Deve fare delle scelte. E non solo sul lavoro, ma anche sul fisco, sulla burocrazia, sulla politica economica, sulla giustizia, sull’Europa. Da che parte sta? Ce lo dica. O di là, o di qua. Di là c’è il corpaccione del Pd parlamentare, della Cgil, dei poteri forti finanziari e delle Coop. Di qua c’è la maggioranza del paese, ci siamo noi, c’è il centrodestra: brutto, sporco e cattivo, ma dalla parte giusta. Dalla parte degli italiani.

Se qualche dubbio resta, basta considerare le diagnosi avanzate dai principali Organismi internazionali. Dopo l’Ocse della scorsa settimana, che ha bruciato gli ottimismi di Matteo Renzi, proprio il giorno prima di recarsi in Parlamento per spiegare il suo programma dei mille giorni, è stata la volta del Fondo monetario internazionale. Anche per Washington previsioni al ribasso. Da un iniziale 0,6% di crescita per il 2014, si passa a un meno 0,1%. Ma non è questa la cosa, almeno per noi, sorprendente. Ciò che non quadra è che il Fondo Monetario ha lasciato inalterate le previsioni di crescita per gli anni successivi. Come se il 2014 fosse una semplice parentesi e non avesse un impatto negativo almeno per il 2015.

Per il resto la previsione è nera. Un debito che sale fino al 136,4%, ma che rischia, in caso di choc esterni, di raggiungere il 150%: l’anticamera del default. Un deficit nominale che difficilmente riuscirà ad allontanarsi dal tetto del 3%, trascinando con sé un deficit strutturale, corretto, cioè, per l’andamento del ciclo, troppo alto per lasciare intravvedere una possibile correzione della traiettoria del debito. Mentre il tasso di disoccupazione resterà inchiodato a quel 12,6% che toglie il respiro.

Il possibile miglioramento è affidato a ricette discutibili per le loro contraddizioni in termini. Una manovra per il 2015 di circa 27,2 miliardi di euro al fine di riportare il deficit strutturale dallo 0,8 allo 0,3% del Pil (8 miliardi), di ridurre il cuneo fiscale (14,4 miliardi), di aumentare le spese per le scuole (4,8 miliardi). Con forme di copertura a carico soprattutto dei contribuenti: riducendo le agevolazioni fiscali (12,8 miliardi), introducendo una nuova tassa sulla ricchezza (4,8 miliardi) e sulle rendite finanziarie (i Bot?), con un introito di 3,2 miliardi. Mentre dalla Spending review, altro che i 13 miliardi previsti nell’ultimo Def, o i 20 miliardi sbandierati da Renzi: si avrebbero risparmi pari a solo 4,8 miliardi.

Morale della favola: un aumento netto della pressione fiscale di 6,4 miliardi. Nuovo capitolo della saga dell’austerity. L’insistere sulle vecchie pratiche del passato (manovre correttive) dimostra che quegli insegnamenti non sono serviti. L’Italia conserva il triste primato della maggiore lontananza dai valori antecedenti la crisi del 2007. Mentre la maggior parte dei Paesi europei è riuscita a recuperare quel gap, il nostro scarto supererà alla fine dell’anno i 9,5 punti di Pil. Su questo dato di fondo dovrebbe concentrarsi l’attenzione per acquisire una consapevolezza nuova.

Gli interventi di tipo macroeconomico (leggi manovre a ripetizione) sono ormai più un vincolo che non una risorsa. I margini si sono progressivamente prosciugati, senza che vi sia stato un reale beneficio in termini di sviluppo o di benessere collettivo. Lo dimostrano gli scarsi successi conseguiti nel campo della politica monetaria. Nonostante i lodevoli sforzi di Mario Draghi e le difficoltà incontrate nel vincere le resistenze (soprattutto) tedesche, i risultati, almeno, finora sono stati deludenti. Il cavallo – le richieste solvibili delle aziende – continua a non bere. Forse è ancora troppo presto; sta comunque il fatto che le erogazioni della Bce, per mancanza di domanda, sono state di gran lunga inferiori alle aspettative.

Sono queste le considerazioni che ci fanno insistere in modo particolare sull’importanza di due riforme: mercato del lavoro e fisco. Almeno in questo siamo d’accordo con il giudizio dell’FMI. Per quella cruna dell’ago passa la spinta ad una maggiore produttività aziendale, che non è una concessione a favore del padronato. Ma lo strumento attraverso il quale si crea maggiore ricchezza. Che, a sua volta, è presupposto di un benessere da ripartire seguendo criteri di equità. Da questo punto di vista la sopravvivenza dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, così come è ora, è un macigno insormontabile. Non solo non abbiamo nulla contro i lavoratori, ma vogliamo supportare il loro sforzo individuale per migliorare le proprie condizioni di vita, in una partecipazione attiva al processo produttivo.

Queste sono le implicazioni della battaglia di ottobre e dei prossimi 100 giorni. Contro le pigrizie, soprattutto, intellettuali. Il semplice quieto vivere in un mondo che cambia a ritmi impressionanti. Discorso che vale per il privato, ma soprattutto per il pubblico, dove quelle stesse tutele: il posto fisso sempre, si sono trasformate in un privilegio inaccettabile. Ed ecco allora la saldatura. Vogliamo ridurre il carico fiscale proprio per tagliare l’erba che alimenta il tran tran parassitario e sottrae risorse per completare una modernizzazione finora dimezzata, come il celebre visconte della trilogia di Italo Calvino. Impegno che richiede, indubbiamente, una gran fatica. O di qua o di là. O con la vecchia guardia dei conservatori (Pd in testa), o con chi vuole cambiare e salvare l’Italia. Non c’è più tempo.

New Deal da mille miliardi, vendiamo l’oro dell’Europa

New Deal da mille miliardi, vendiamo l’oro dell’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

È vero. Il problema della bassa crescita economica non è solo italiano, ma di tutta l’area dell’euro. Si crescerà, in media, nei prossimi dieci anni, non più dell’1% (se va bene). La metà, o meno della metà, di quanto cresceranno, invece, gli Stati Uniti. E questa bassa crescita deriva da due fattori fondamentali: il basso livello di investimenti in Europa (si pensi solo alla bassa dotazione infrastrutturale storica dell’intera area) e l’ulteriore caduta degli ultimi 7 anni, quelli della crisi: -20% (di un livello, abbiamo detto, già troppo basso in partenza).

Non è un caso se la Commissione europea e il Fondo Monetario Internazionale continuano a richiamare la Germania con riferimento al suo eccessivo surplus delle partite correnti, auspicando, per rientrare nei parametri europei, un aumento degli investimenti pubblici in infrastrutture e servizi. I benefici si allargherebbero a tutto il sistema economico europeo. Ma se ancora oggi la Germania non spende in casa propria, nonostante un rapporto deficit/Pil praticamente pari a zero, come potevamo pretendere che la politica economica europea degli anni della crisi, germanocentrica, fosse orientata agli investimenti? I risultati del dogma del rigore fine a se stesso e dell’austerità a tutti i costi, che si è tradotto in sangue, sudore e lacrime per gli Stati dell’eurozona, si sono visti. E il cambiamento di rotta è oggi più che mai necessario.

Il combinato disposto del basso livello infrastrutturale storico e l’ulteriore caduta degli anni della crisi ha ridotto la competitività dell’area euro. Per questo l’Europa deve uscire in maniera strutturale dalla crisi non solo con la politica monetaria, non solo con le riforme ma anche e soprattutto lanciando il suo New deal.

Obiezione scontata: dove si trovano le risorse per tutti gli investimenti necessari per colmare il gap infrastrutturale europeo? Risposta: attraverso l’emissione di Project bond garantiti dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei). Oppure facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Oppure ancora, attraverso una riconversione del Fondo salva-Stati, quell’orribile mastodonte che oggi, contrariamente alle ragioni per cui è stato creato, utilizza le risorse versate dai paesi dell’area euro (con conseguente aumento dei relativi debiti pubblici) per acquistare titoli del debito sovrano di Stati con rating AAA, come i Bund tedeschi, che hanno rendimento pari a zero.

Per non trovarsi isolato in Europa e per non fallire nel suo semestre di presidenza dell’Unione, Renzi rilanci. Vada oltre la proposta Juncker di 300 miliardi, e presenti un piano europeo di misure concrete che triplichi gli importi del presidente della Commissione europea, fino a 1.000 miliardi. Un piano finalizzato a una maggiore integrazione del mercato interno, in particolare nel settore dei servizi; a migliorare la regolazione e la normativa comunitaria; a costruire nuove infrastrutture; a migliorare I piani di approvvigionamento energetico; a dare impulso agli investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano.

Come fare? Innanzitutto si dovrebbe sfruttare meglio la Banca Europea per gli Investimenti (Bei) e la sua capacità di assunzione di rischio, mediante lo Strumento di Finanziamento Strutturato (Sfs), che eroga prestiti, e/o altri strumenti come la cartolarizzazione. Si potrebbe pensare anche a un moltiplicatore della capacità di intervento della Bei, prendendo come riferimento il modello previsto per le operazioni di finanziamento della stessa Banca Europea per gli Investimenti nei paesi extra-Ue: in concreto si tratta di un fondo di garanzia capitalizzato per una certa quota del totale degli impegni (circa il 9%) che genera un moltiplicatore di 11 a 1 sulle operazioni in questione.

La quota capitale da inserire nel fondo di garanzia varierebbe in relazione al rischio legato al settore d’intervento. In caso di operazioni a rischio limitato (es. infrastrutture ad alto potenziale di redditività), l’effetto moltiplicatore sarebbe ancora maggiore: con il 3% di capitalizzazione si può garantire il 100% dei finanziamenti. Capitalizzazione da attuare con una semplice redistribuzione interna nel bilancio dell’Unione o con fondi devoluti dagli Stati membri (da stabilirsi sulla base degli stessi parametri di contribuzione al bilancio Ue), che non rientrerebbero nel computo del 3% del rapporto deficit/Pil.

L’Unione potrebbe ricorrere essa stessa all’emissione di un debito mirato. Il servizio di questo debito, poi, verrebbe finanziato da appositi capitoli di spesa del bilancio Ue, e il suo status in qualche modo negoziato con le agenzie di rating, in modo da mantenere un solido rating AAA per le emissioni. Non è una cosa del tutto nuova: il cosiddetto “Sportello Ortoli”, della fine degli anni Settanta, prevedeva proprio la raccolta di fondi da parte dell’Unione, per destinarli a iniziative specifiche. In alternativa, il fondo di garanzia potrebbe anche essere capitalizzato facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Le quote dovrebbero essere considerate trasferimenti a fondo perduto, con la possibilità per la Bce (che sarebbe la custode delle quote trasferite) di vendere il metallo per finanziare le eventuali perdite sulle garanzie (le riserve auree sono infruttifere, mentre il sistema di garanzie del fondo può dover fare fronte a perdite). Last but not least: impiegare, per finanziare investimenti in infrastrutture, la liquidità di fatto ora bloccata nel Fondo salva-Stati. Quanto, infine, ai capitali privati, essi possono dare un impulso considerevole al potenziale di crescita dell’Europa. Ma la realizzazione di partenariati tra soggetti pubblici e privati (o di altre forme di cooperazione tra pubblico e privato) richiede un impegno finanziario certo da parte degli investitori istituzionali.

Il combinato disposto di tutti questi strumenti potrebbe consentire, in un quinquennio/decennio, 1.000 miliardi di investimenti freschi. Risorse nuove. Più di 3 volte l’ammontare del piano su cui sta lavorando il presidente Juncker, e che potrebbe rivelarsi l’ennesima delusione di istituzioni comunitarie poco coraggiose, in quanto mera ridestinazione di fondi già esistenti nel bilancio europeo. Mille miliardi che avrebbero un grande impatto non solo sul Pil dell’Unione, ma sulla competitività strutturale dell’Europa. Non si tratterebbe, infatti, di un moltiplicatore keynesiano di breve periodo, ma di un acceleratore di impatto sul medio-lungo termine. Ne deriva una miscela ottimale, se al New deal europeo da 1.000 miliardi di euro si unisce la politica espansiva della Banca centrale europea e un piano sorvegliato e coordinato di riforme strutturali in tutti i paesi dell’eurozona. Una grande strategia di lungo periodo (5-10 anni), finalizzata alla modernizzazione dell’Unione. Modernizzazione da fare attraverso le reti, materiali e immateriali: infrastrutture, telecomunicazioni, energia, sicurezza, ricerca scientifica, capitale umano.

È questa la proposta che l’Italia deve fare all’Europa. È questo che, probabilmente, l’Europa, delusa dai primi 200 giorni di governo, si aspetta da Matteo Renzi. Per il presidente del Consiglio italiano, una prova di sopravvivenza. Ma, se vorrà seguire i nostri consigli, una prova facile. L’Italia si è storicamente modernizzata grazie al vincolo esterno, come lo chiamava Guido Carli. Rispetto al dibattito attuale: altro che commissariamento. Meglio Juncker che Landini…

Basta con le riforme inutili che hanno affossato l’Italia

Basta con le riforme inutili che hanno affossato l’Italia

Renato Brunetta – Il Giornale

Sarebbe ora di finirla con la retorica delle riforme. Se ne sono fatte, da Monti in poi, più di 40, e l’Italia non è mai stata peggio di così. Quaranta riforme, dunque, che non sono servite a nulla. Quaranta riforme per obbedire all’Europa. Quaranta riforme sotto il ricatto dei mercati, sotto lo sguardo attento e interessato dei giornaloni, dei poteri forti, delle alte istituzioni benedicenti. Quaranta riforme inutili, se non dannose. Quasi sempre controriforme.

“Negli ultimi 18 anni (1996-2013) l’unico periodo in cui l’Italia ha fatto meglio della media Ue è stato il 2009-2010”: governo Berlusconi. Lo scrive, in uno studio di febbraio 2014, scenarieconomici.it, un sito di analisi politica ed economica fondato a marzo 2013 da un gruppo di

ricercatori indipendenti, che, con riferimento a 6 indicatori di finanza pubblica-economia reale (Pil, disoccupazione, produzione industriale, inflazione, deficit, debito), ha messo a confronto le performance dell’Italia rispetto alla media Ue. Quello del senatore a vita, professor Monti è risultato il peggior governo per l’Italia. Seguito subito dopo dall’esecutivo Letta. Anche se non è nuovo, in tutti questi mesi lo studio non è stato ripreso da nessun giornale; nessun opinion maker italiano ne ha mai parlato, tranne poche citazioni del sottoscritto. Allo stesso modo, lo studio non è stato confutato da nessuno. Proprio perché le analisi ivi contenute poggiano su basi solide. Ma in contrasto con i luoghi comuni della sinistra e dei giornaloni dei poteri forti. E per questo da ignorare. Allora perché citiamo questo studio, ancorché non nuovo? Perché ci serve per fare una considerazione.

Se quello di Berlusconi del 2008-2011 è stato il miglior governo dal 1996 a oggi, vuol dire che le riforme fatte in quegli anni erano buone, con impatto positivo sull’economia; mentre le riforme dei governi che si sono succeduti dopo sono state spesso inutili, oppure sbagliate, con effetti nulli, oppure dannose, oppure rimaste inattuate (si pensi a tutti i decreti attuativi arretrati che l’esecutivo non riesce a smaltire), oppure controriforme. Se quello di Monti è stato il peggior governo, quindi, le sue sono state o riforme sbagliate o, peggio ancora, controriforme. Da Monti in poi, l’elenco è lungo: i due provvedimenti Fornero su mercato del lavoro e pensioni, che hanno prodotto, rispettivamente, un milione di disoccupati in più e una spesa per esodati superiore ai risparmi derivanti dall’aumento dell’età pensionabile; il blocco delle riforme Sacconi sulla contrattazione decentrata; il blocco della detassazione dei salari di produttività; il pasticciaccio brutto di Imu prima e Tasi poi con riferimento alla tassazione degli immobili (triplicata tra prima del 2011 e oggi), con grave penalizzazione dei proprietari di case e crisi dell’intero settore edilizio, trainante per l’economia; la controriforma della Pubblica amministrazione; il blocco del processo di digitalizzazione, con la controriforma del “super ministro” Corrado Passera; il blocco dell’applicazione del merito nella Pa e nella scuola; il blocco del processo di privatizzazione e liberalizzazione delle Public utilities, come è avvenuto con il referendum contro la liberalizzazione del settore idrico, voluto e sostenuto dalla sinistra a giugno 2011; fino all’abolizione della norma che cancellava il reato di immigrazione clandestina, con tutto quello che ciò comporta, e che vediamo ogni giorno. E l’elenco potrebbe continuare. Tutte non riforme o controriforme.

Tutte controriforme rispetto a provvedimenti che, proprio grazie al governo Berlusconi, di cui scenarieconomici.it riconosce i meriti, avevano collocato il nostro paese nel mainstream europeo e rispetto ai quali negli anni successivi sono state fatte clamorose marce indietro, a danno dello sviluppo e della crescita dell’economia e della società italiane. Non riforme o controriforme volute da governi (Monti e Letta) non eletti, figli dei poteri forti e del conservatorismo sociale, con la benedizione dell’allora presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso, e della tuttora imperante cancelliera tedesca, Angela Merkel. Solo e sempre in chiave antiberlusconiana. Allo stesso modo, oggi Renzi governa senza aver ricevuto un diretto mandato democratico, e senza che il suo programma sia stato validato da una vittoria elettorale alle elezioni politiche. Non riforme o controriforme tutte approvate con decreto Legge, con il consenso plaudente del Colle più alto.

Che le riforme del governo Berlusconi fossero buone lo ha persino detto la Commissione europea quando, per esempio, il 24-25 giugno 2011 espresse il suo giudizio positivo sul Def e sul Piano nazionale delle riforme presentati dal governo Berlusconi, o quando espresse giudizio favorevole su tutti gli altri provvedimenti messi in campo per far fronte alla crisi nell’estate-autunno 2011, fino all’ottima valutazione anche della lettera di impegni che il governo italiano ha inviato ai presidenti di Consiglio e Commissione europea il 26 ottobre 2011, in occasione del Consiglio europeo di quel giorno, anche in risposta alla lettera che la Banca centrale europea aveva inviato al governo italiano il precedente 5 agosto.

Ma la stessa Europa che giudicava buone le riforme Berlusconi-Sacconi sul lavoro, Berlusconi-Gelmini sulla scuola, Berlusconi-Brunetta sulla Pa, Berlusconi-Romani sulle liberalizzazioni, Berlusconi-Matteoli sulle infrastrutture non poteva giudicare altrettanto buone riforme che, dopo pochi mesi, presentate via via da governi diversi, andavano nella direzione opposta. Non basta, dunque, dire riforme: occorre entrare nel merito delle stesse. Proprio per questo, Matteo Renzi dica che la sua riforma fiscale non sarà quella che vorrebbe l’ex ministro Vincenzo Visco, ma che deriverà, invece, dalla completa implementazione, nel più breve tempo possibile, noi abbiamo detto cento giorni, perché mille non li abbiamo, della delega fiscale, che porterà alla riduzione delle tasse, come fortemente voluto dal presidente della Commissione finanze della Camera, Daniele Capezzone. Renzi dica che per il mercato del lavoro non serve l’ennesima controriforma, come vorrebbe l’ex ministro Cesare Damiano, mentre occorre riprendere il processo di decentramento della contrattazione e della detassazione dei salari di produttività, come aveva cominciato a fare l’ex ministro Sacconi, i cui meriti sono stati riconosciuti anche dalla Banca centrale europea, con riferimento all’accordo del 28 giugno 2011 con le principali sigle sindacali e le associazioni industriali, che ha trovato poi la sua definitiva realizzazione nell’articolo 8 della manovra cosiddetta “di agosto” del 2011, nonché il superamento dello Statuto dei lavoratori, con particolare riferimento all’articolo 18, e la totale decontribuzione e detassazione delle nuove assunzioni.

Su questi due punti fondamentali per l’uscita dell’Italia dalla crisi deve finire l’ambiguità del presidente Renzi e le ipocrisie di Bruxelles, che saluta positivamente qualsiasi riforma venga proposta senza entrare nel merito, purché arrivi da governi proni e supini ai suoi diktat. Ma la via delle riforme deve essere tracciata dalla Germania in casa propria: l’enorme surplus delle partite correnti in quel paese fa male all’Europa intera e impedisce agli altri paesi di rispettare le regole. Per questo la reflazione in Germania, attraverso una grande riforma fiscale che aumenti la domanda interna, è il primo passo da compiere per riportare l’Eurozona a crescere. A ciò si aggiunga un grande piano di investimenti in reti tecnologiche, di telecomunicazione, infrastrutturali, di trasporto e di sicurezza. 300 miliardi di euro, quelli proposti dal presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, che possono aumentare fino a raddoppiarsi se nel programma sarà coinvolta la Banca europea degli investimenti o si utilizzerà, solo per garanzia, l’oro eccedentario delle banche centrali nazionali. Dati i tassi di interesse al minimo storico, decisi dalla Bce di Mario Draghi giovedì scorso, il momento è straordinariamente favorevole per tutti.

New deal europeo, quindi, reflazione in Germania, riforma fiscale e del mercato del lavoro in Italia, eurobond, project bond, joint-ventures pubblico-privato. E soprattutto, basta ipocrisia o ambiguità: Renzi ha continuato la linea Monti e Letta del «decretismo» forsennato, e ne è rimasto vittima. Cambi verso. Chieda alla Germania di reflazionare, chieda che l’impianto miope ed egoista della politica economica europea, che negli anni della crisi ha distrutto l’Europa, cambi, non solo sul piano economico, ma anche su quello geopolitico. La smetta con la retorica delle riforme, un tanto al chilo, e si concentri innanzitutto su 2, semplici: fisco e mercato del lavoro. Ma nella direzione giusta. E in Europa segua il piano Draghi-Juncker: politica monetaria espansiva, riforme, investimenti e flessibilità. Ne beneficerà l’Italia, ne beneficerà l’Europa, ne beneficerà il governo, ne beneficerà Renzi. Con buona pace dei gattopardi.  

Per far ripartire l’economia serve un “New Deal” europeo

Per far ripartire l’economia serve un “New Deal” europeo

Renato Brunetta  – Il Giornale

Dopo la riunione del Consiglio europeo di sabato, che ha in parte definito l’assetto della Commissione europea a guida Juncker, e dopo il pre-vertice all’Eliseo del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, con il presidente francese, Francois Hollande, sempre sabato, il prossimo appuntamento in cui i capi di Stato e di governo dell’Unione europea si troveranno a parlare di economia e di crescita sarà quello del 7 ottobre a Milano. Il governo italiano, cui spetta la presidenza di turno dell’Ue, oltre ad avere l’onore dell’ospitalità ha il dovere della verità e della

trasparenza, e in apertura di sessione dovrà fornire ai leader dei partner europei una ricostruzione sintetica, ma di grande chiarezza storico-scientifica, dell’origine della crisi che dall’estate-autunno 2011 ha travolto i paesi dell’eurozona. Come base da cui partire per le scelte da fare, avendo compreso la natura speculativa dell’ultima crisi, dovuta soprattutto alla mancanza di strumenti della Banca centrale europea, bloccata per Statuto ai Quantitative easing all’americana, nonché all’architettura asimmetrica dell’euro, incapace di risolvere gli squilibri strutturali che il suo stesso successo ha prodotto.

Senza un’analisi seria e approfondita che, a oggi, non è mai stata fatta, i governi, sull’onda degli eventi e delle emergenze, hanno sempre finito per adottare come risposta agli attacchi speculativi, in particolare tra il 2011 e il 2013, la ricetta tedesca del sangue, sudore e lacrime; in maniera acritica, senza mai valutare ipotesi alternative, come potevano essere i provvedimenti presi, in circostanze simili, in America o in Giappone. Risultato: recessione, deflazione, allargamento del divario tra paesi del nord (odiose formiche) e paesi del sud (irresponsabili cicale).

Secondo punto dell’operazione verità che il governo dovrà compiere in preparazione del vertice di ottobre: chiarezza sul ruolo della Banca centrale europea e sui limiti della politica monetaria. Nella banalità teutonica della Commissione europea negli anni della crisi, unico spiraglio di luce ha rappresentato l’assunzione, da parte di Mario Draghi, della presidenza della Bce, che fino ad agosto 2011 era apparsa del tutto impreparata alla crisi, brancolava nel buio e non aveva alcun piano che potesse porre un freno agli attacchi speculativi che i debiti sovrani dei paesi dell’eurozona stavano subendo. Inadeguatezza nella fase iniziale della crisi e impotenza della banca centrale che traspare dalla lettera che proprio ad agosto 2011 la Bce ha inviato all’Italia. Lettera dai contenuti senz’altro giusti, ma irrituale. Sicuramente non uno strumento di politica monetaria.

Solo dopo il parziale fallimento delle due aste di finanziamento agevolato a breve termine alle banche dell’eurozona, a dicembre 2011 e a febbraio 2012, per 1.000 miliardi (di cui da settembre dovrebbe partire una seconda edizione, opportunamente e inevitabilmente riveduta e corretta) e in risposta al susseguirsi di ondate speculative che a luglio 2012 interessavano in particolare la Grecia, con l’impegno a “fare di tutto per salvare l’euro” e il conseguente annuncio di un articolato piano di acquisto di titoli di Stato, la Bce ha finalmente avuto cognizione del proprio ruolo e ha cominciato a esercitarlo nel migliore dei modi. Debellando, in parte, la speculazione finanziaria che stava travolgendo l’Europa, fino a far temere l’implosione della moneta unica. È così che abbiamo tutti apprezzato le misure non convenzionali di politica monetaria adottate da Mario Draghi, ed è, parimenti, a questo punto che ci siamo resi conto che la politica monetaria da sola non basta a risolvere i problemi dell’eurozona. Anche i governi devono fare la propria parte, perché è attraverso la buona politica economica che la politica monetaria si trasmette all’economia reale. E le riforme strutturali che, ripetiamo, creano le condizioni per la buona riuscita delle decisioni di politica monetaria, devono essere simultanee e coordinate in tutti i paesi dell’area euro (ognuno secondo le proprie specificità e necessità), per far sì che ciascuno di essi possa beneficiare degli effetti positivi delle riforme messe in atto dai paesi limitrofi. Motivo per cui Mario Draghi, con l’onestà intellettuale che lo caratterizza, ha auspicato la creazione di una “governance europea delle riforme”.

Riforme strutturali sincroniche, da realizzare attraverso lo strumento dei Contractual arrangements, già in discussione presso la Commissione europea e per la definizione puntuale dei quali sarà decisiva proprio la riunione del Consiglio europeo di ottobre, come ha ricordato più volte l’ex ministro per gli Affari europei, Enzo Moavero Milanesi, che aveva avviato questo percorso nell’ambito del suo mandato di governo con gli esecutivi Monti e Letta. È così che si utilizzerà veramente quella flessibilità tanto agognata e sbandierata, ma in realtà già prevista dai Trattati. Si definisca secondo le specificità del singolo Paese l’incentivo da riconoscere, di natura finanziaria o non finanziaria, a chi attua le riforme strutturali, anche per scongiurare comportamenti opportunistici post-contrattuali (il famoso “azzardo morale”). Potremmo definirlo, pertanto: il piano Draghi-Moavero. E soprattutto l’Italia, nel semestre di presidenza dell’Unione, proponga questo modello a tutti gli Stati, per coordinare il processo riformatore nell’intera area dell’euro. Su questo punto anche il ministro dell’Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan, si è detto favorevole in numerose dichiarazioni pubbliche.

Presidente Renzi, inutile perdere tempo con noiose disquisizioni giuridiche sulla modifica dei Trattati, che richiede un processo troppo lungo e troppo costoso dal punto di vista politico. Non se ne caverà nulla di buono. Dopo l’analisi, che abbiamo auspicato in precedenza, sulle cause della crisi, fatti portatore in Europa di un’operazione non di modifica, bensì di interpretazione dei Trattati e dei regolamenti, nell’ambito della flessibilità che essi già implicano. Con i contenuti scritti nella risoluzione presentata da Forza Italia prima del Consiglio europeo dello scorso 28 giugno, che tu hai bocciato, ma che probabilmente non hai neanche letto. Soprattutto, parla chiaro alla testa e al cuore degli europei. Fa’ vedere loro una via d’uscita. Regala loro una visione strategica di lungo periodo. Cose possibili, fattibili, concrete, e non astratti ragionamenti, esoterici, su astrusi parametri: deficit strutturale, deficit nominale, avanzi, disavanzi, rinvii, che la gente non comprende.

E al piano Draghi-Moavero, esposto sopra, va in contemporanea aggiunta la novità proposta, sia pure nel silenzio di tutti, dal nuovo presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, vale a dire investimenti comunitari per 300 miliardi di euro. Presidente Renzi, riempiamo di contenuti, insieme, il piano Juncker, e presentiamo la nostra proposta ai partner europei che sotto la presidenza di turno italiana si riuniranno a ottobre a Milano. Mettiamo insieme da subito, contemporaneamente e con l’appoggio di tutti i paesi, la linea Draghi e la proposta Juncker. Chiamiamolo piano Draghi-Juncker, o New deal, purché riesca a combinare le riforme sincroniche nei singoli Stati, per consentire la trasmissione della politica monetaria, da un lato e gli investimenti dall’altro. Con riferimento a questi ultimi, facciamo qui qualche esempio di misure concrete, per una maggiore integrazione del mercato interno (in particolare nel settore dei servizi); per migliorare la regolazione e la normativa comunitaria; per costruire nuove infrastrutture; per migliorare i piani di approvvigionamento energetico; per dare impulso agli investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano. Chi ha una rete ha un tesoro. Come le reti infrastrutturali sono state i catalizzatori della nascita degli Stati nazionali nell’800, così le reti europee dovranno essere i catalizzatori della nuova Europa.

Con quali risorse fare tutto ciò? Attraverso l’emissione di Project bond garantiti dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei), per finanziare investimenti in infrastrutture, in ricerca e sviluppo, innovazione, capitale umano. La capacità di intervento della Bei verrebbe potenziata attraverso l’istituzione di un Fondo di garanzia ad hoc, la cui capitalizzazione sarebbe a carico dei singoli paesi secondo diverse formule, con un punto fisso: i fondi trasferiti dagli Stati membri alla Bei non rientrano nel computo del 3% del rapporto deficit/Pil. In alternativa, il Fondo di garanzia potrebbe anche essere capitalizzato facendo ricorso, con tutte le cautele del caso, a quella quota delle riserve auree delle banche centrali nazionali eccedente rispetto agli obblighi di copertura dell’euro. Questo pacchetto non comporta modifiche ai Trattati, mentre consente di utilizzare, rispettando le regole, la flessibilità già prevista. E soprattutto parla chiaro al popolo europeo, per uscire dalla crisi, dalla recessione, dalla deflazione, dalla disoccupazione. Riforme e reti europee, quindi, per una nuova idea di Europa, oltre l’egoismo tedesco. New deal, contro e dopo la grande depressione europea, come messaggio di pace e di coesione geopolitica. Crescita e sviluppo, come esito finale. Per dirla con Marchionne: non possiamo più sopportare gente con barchette e gelati.

Quel balletto sulle pensioni dà una mazzata alla ripresa

Quel balletto sulle pensioni dà una mazzata alla ripresa

Renato Brunetta – Il Giornale

Difficile dare torto a Enrico Morando, migliorista doc (la corrente del Pd di Giorgio Napolitano) quando dice che ritornare sul tema delle pensioni è «estremamente negativo, perché la riforma della previdenza pubblica già è stata fatta». Ne avrebbe tuttavia dovuto parlare prima con Pier Paolo Baretta, ex Cisl, ben più possibilista, disposto a salvare solo le pensioni minori: 2.000 euro al mese.

Lordi o netti? Si tratta di autorevoli esponenti della maggioranza parlamentare. Fanno parte non solo dello stesso governo, ma dello stesso Ministero: quello dell’economia. Il primo: vice ministro; il secondo: sottosegretario. Forse era opportuno, prima di procedere ad ulteriori esternazioni, invocare il coordinamento del ministro Pier Carlo Padoan. Che, a sua volta, andando a ritroso nella catena di comando, avrebbe dovuto interessare della questione il premier, Matteo Renzi, che avrebbe, a sua volta, dovuto frenare il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, prima dell’intervista che ha determinato una nuova piccola tempesta estiva.

Se abbiamo rievocato la vicenda è solo per dimostrare lo stato di confusione in cui versa il governo in una materia così delicata, come la previdenza, che interessa circa 16 milioni di persone. Se aggiungiamo che la maggior parte di loro sono capifamiglia, possiamo ben dire che l’argomento è universale. Riguarda tutti gli italiani. Dalla singola pensione non deriva solo il sostentamento del singolo, ma quell’economia familiare – il welfare naturale – che è uno degli antidoti più potenti ai morsi della crisi. Sono sempre più spesso i padri che aiutano i figli disoccupati o con un reddito insufficiente. I nonni che si sobbarcano dell’onere di far quadrare il magro bilancio familiare. Turbare, in modo intermittente, quel delicato equilibrio non è solo un atto inutile di crudeltà. Genera la più generale incertezza. E con essa un’ulteriore contrazione dei consumi – quelli che possono – nel timore di tempi più neri. Risultato: un ulteriore avviluppo della crisi, nella spirale della deflazione.

Ai tanti smemorati della maggioranza, ricordiamo che il contributo di solidarietà sulle pensioni più alte esiste già. Lo ha previsto la legge 486 del 2013: gentile lascito del governo Letta. Colpisce tutte le pensioni superiori a circa 5mila euro netti al mese. Con una progressione che va dal 6 al 18 per cento per quelle superiori a 195mila euro lordi l’anno (circa 10mila netti al mese). In quest’ultimo caso la somma delle due aliquote (quella erariale ed il contributo) porta ad un prelievo marginale di circa il 65 per cento. Siamo al limite dell’esproprio. La rilevanza di questi argomenti spiega il diluvio di prese di posizione che questi propositi hanno alimentato. La ferma opposizione di parti consistenti della stessa maggioranza. Le preoccupazioni dei sindacati e di tutti coloro che operano nel sociale. La nostra stessa dura reazione per porre fine ad un gioco stupido e dannoso. Non sono mancate, naturalmente, le voci dissonanti. Gli economisti della voce.info hanno quasi brindato. Chi condanna senza appello il metodo retributivo non tiene conto del fatto che quand’esso era operante la «speranza di vita» degli italiani – la base di ogni discorso serio sulla previdenza – era di gran lunga minore di quella attuale.

Può sembrare pura necrologia, ma non è così. La logica del pro-rata, vale a dire della sola applicazione «de futuro» delle riforme, aveva quell’origine statistica. Il sistema venne progressivamente modificato – l’ultima volta con la legge Fornero – proprio a seguito dell’allungamento della vita media. L’alterazione del parametro demografico rendeva progressivamente insostenibile, cosa che invece era nel t-n, come direbbero gli economisti della Voce . Ossia nel tempo precedente. Può sembrare fin troppo sofisticato. Ma questa è stata la base materiale di decine di sentenze, sia della Corte Costituzionale (sentenza 116/2013) che della Cassazione (sentenza n. 17892/2014), nel ribadire la non retroattività di quelle disposizioni di legge o atti amministrativi a danno delle pensioni già in essere.

Considerazioni che dovrebbero bastare. Sennonché la logica espropriativa che è alla base delle argomentazioni di chi vorrebbe colpire il presunto privilegio rappresentato da una pensione non di semplice povertà è ancora più devastante. Il parametro numerico è solo uno degli elementi che caratterizzano la relativa equazione. Le altre incognite – altrettanto essenziali – sono date dall’entità dei contributi versati e dal numero degli anni che hanno caratterizzato quel prelievo. Ma di questo non si parla. È semplicemente scomparso dal radar dei nuovi «livellatori». La cosa è paradossale. Se si accettasse la tesi del ricalcolo delle pensioni – passaggio dal «retributivo» al «contributivo» ad essere principalmente colpiti non sarebbero i «ricchi», ma i poveracci. Di fronte a quest’obiezione, le risposte sono state sempre sconcertanti. Il ricalcolo – è stato detto – va applicato solo ai benestanti. Vale dire a quella classe media, considerata la forte progressione delle aliquote Irpef , già massacrata da una pressione fiscale senza precedenti. Si avrebbero, in questo modo, due diversi sistemi di calcolo: vantaggioso per i meno abbienti, punitivo per gli altri. Il tutto, naturalmente, in barba al principio d’eguaglianza – articolo 3 della Costituzione – e della progressività del carico fiscale – articolo 53 della stessa.

Le polemiche di questi ultimi giorni non hanno senso. O meglio hanno un senso traslato, com’è nella migliore tradizione del politicismo italiano. L’indizio è stato fornito da la Repubblica : non solo giornale bene informato, ma molto spesso il vero suggeritore occulto delle posizioni di alcuni esponenti del governo. La polemica è legata all’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Proposta condivisa da tutto il centrodestra. Piuttosto che impegnarsi in una discussione seria su questo argomento, ecco la mossa del cavallo. Alimentiamo un nuovo tormentone sulle pensioni, per arrivare all’inevitabile compromesso: voi la piantate di agitare il tema e noi facciamo lo stesso per le pensioni. Risultato finale? Niente di niente.

È accettabile questo baratto? Lo sarebbe se non avessimo a cuore il destino degli italiani. Insistere sulla maggiore flessibilità del mercato del lavoro, non è un totem: come ama ripetere Matteo Renzi. Ma quel che più conta è che quel freno (non certo l’unico) ha progressivamente azzoppato l’economia italiana, impedendo la crescita della produttività che è il vero ed unico volano dello sviluppo. Ha infatti reso impossibile politiche attive per il lavoro, che sono il volto nascosto che alimenta il denominatore. E se il Pil non si muove – checché ne dicano i cultori della «decrescita felice» – si fermano tutte le altre componenti dell’economia.

Questa politica, che è il sale dello sviluppo economico moderno, può essere sostituita dalla pura redistribuzione del reddito, come traspare dal libro di Gutgeld, il consigliere di Matteo Renzi («Più eguali, più ricchi»)? Che il mercato vada addomesticato è fuori dubbio. Ma da qui a sopprimerne, con politiche cervellotiche, l’intimo dinamismo ce ne corre. Vale un vecchio principio, tratto dalla saggezza contadina. Le pecore vanno tosate, non ammazzate. La loro eventuale macellazione può servire per un grande banchetto, ma il giorno dopo, se non si hanno altre risorse, è lo spettro della fame a prendere il sopravvento.

P.S. Nei giorni scorsi il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, con il suo «Le pensioni non si toccano» ha messo fine al disastroso dibattito agostano sulle pensioni. Bene, anche se la frittata è difficilmente rimediabile. I 16 milioni di pensionati non si fidano più. Con tutto quel che ne conseguirà in termini di incertezza. Come farsi del male inutilmente. E lo diciamo con amarezza e grande preoccupazione.

La ricetta liberale anticrisi: meno tasse, più lavoro, crescita

La ricetta liberale anticrisi: meno tasse, più lavoro, crescita

Renato Brunetta – Il Giornale

Meno tasse; più consumi; più investimenti; più crescita; più lavoro; più gettito; più welfare; più benessere per tutti. È questa l’equazione del benessere: la ricetta liberale che l’agenda Berlusconi intende realizzare nel nostro paese. Agenda Berlusconi che, guarda caso, coincide con l’agenda Draghi, con le raccomandazioni della Commissione europea al governo Renzi e con quello che, da quando il debito pubblico italiano, cui fa da sfondo la lunga recessione, ha raggiunto livelli non più sostenibili, commentatori, economisti e opinion leader, da Alesina-Giavazzi a Guido Tabellini a Eugenio Scalfari, consigliano al governo: riforma del lavoro, da cui derivererebbe recupero di competitività per il sistema-paese; e riforma fiscale, per ridurre il peso della tassazione su famiglie e imprese, che blocca lo sviluppo e la conseguente ripresa dell’occupazione.

C’è, poi, un terzo grande tema: l’Europa e la Banca centrale europea. La politica monetaria espansiva della Bce deve essere accompagnata da riforme strutturali in tutti gli Stati dell’area euro. In particolare, riforme fiscali sincroniche che, via riduzione del carico tributario, portino all’auspicato indebolimento della moneta unica. E per fare questo, deve essere proprio la locomotiva d’Europa, se ancora vuole essere tale, a cominciare. La Germania deve mettere più soldi nelle tasche dei tedeschi e far crescere la propria domanda interna, con il giusto e buon livello di inflazione che ne deriverà. Per dirla con termini tecnici: la Germania deve reflazionare. E l’impatto sarebbe immediato sulle economie di tutti i paesi dell’eurozona. Lo dice anche la rigorosissima Bundesbank, nonché il presidente del consiglio economico della Cdu tedesca, Kurt Lauk. Entrambi evidentemente inascoltati da Angela Merkel e dal suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaüble.

Il compito di Matteo Renzi, se vuole riempire di significato questo semestre di presidenza italiana dell’Unione europea, così ricco di aspettative, ma ad oggi deludente nei risultati, è proprio quello di spiegare alla cancelliera Merkel l’importanza del ruolo della Germania e della reflazione tedesca in Europa. Ma non è solo di questo che si tratta: la Germania deve reflazionare anche per non incorrere nella procedura di infrazione per avanzo eccessivo della sua bilancia dei pagamenti, che tanti problemi ha creato a tutta l’eurozona. Squilibrio derivante da un euro tedesco sottovalutato rispetto ai fondamentali dell’economia tedesca, che ha reso le esportazioni di quel paese più competitive rispetto a quelle degli altri Stati dell’eurozona, senza alcun meccanismo redistributivo. La Germania colmi, quindi, questo gap di solidarietà rispetto agli altri partner europei, che significa anche rispetto dei Trattati, e tornerà a crescere a ritmi elevati e a trainare l’economia dell’intera area euro. Se davvero vuole che la moneta unica continui ad esistere.

Su questo tema, è stato il Fondo Monetario Internazionale il primo a lanciare la sfida alla Germania: lì il rapporto deficit/Pil oggi è pari a 0,1%. Se il governo tedesco aumentasse la spesa di mezzo punto di Pil, sarebbero 14 miliardi di euro all’anno in più in circolazione. E gli effetti si vedrebbero a cascata sull’intera area dell’euro. Ma si potrebbe andare anche ben oltre lo 0,5%. Prima che in Germania il deficit raggiunga il limite massimo del 3% ci sarebbe un margine fino a 75 miliardi. È questa la vera flessibilità di cui parlare. Piuttosto che chiedere sconti per l’Italia, Matteo Renzi, come abbiamo già detto, deve convincere la cancelliera Merkel a reflazionare l’economia tedesca, non solo a proprio vantaggio, ma anche, e soprattutto, per le ricadute positive su tutti i paesi dell’area euro.

In questa sfida, il presidente del Consiglio italiano avrebbe con sé non solo il Fondo Monetario Internazionale, che ha fatto i conti, ma anche la Commissione europea, e la fortissima sponda del dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America.

L’euro tedesco, di fatto, contro ogni volontà e sogno, ha distrutto l’Europa, creando squilibri crescenti, appunto, nelle bilance dei pagamenti; e tassi di rendimento sui debiti sovrani divergenti, senza alcun meccanismo di redistribuzione e di riequilibrio. È questa la malattia mortale che ci affligge. Perché gli squilibri nei rapporti tra esportazioni e importazioni e nei flussi di capitali si riflettono sul deficit e sul debito pubblico degli Stati.

La soluzione, dunque, al di là di tutto quanto fatto (inutilmente) finora è una sola: i paesi che registrano un surplus nella bilancia dei pagamenti (che include sia i movimenti delle merci sia i flussi di capitali) hanno il dovere economico e morale non di prestare i soldi, non di “salvare” gli altri paesi, ma di reflazionare. Cioè aumentare la loro domanda interna.

A questo punto serve a poco il meccanismo di multe, elaborato ad hoc dalla Commissione europea e che fino ad oggi non ha funzionato, per i paesi che superano la soglia, troppo alta, quindi inefficiente, del 6% nel rapporto tra esportazioni e importazioni (alla Germania, che ha un surplus superiore al 7%, è stato fatto solo un semplice richiamo). La via da seguire è un’altra e più efficiente.

Le altre sfide del governo Renzi in campo economico sono, abbiamo detto, il mercato del lavoro (e se ne parliamo ancora vuol dire che il decreto Poletti, come avevamo previsto, è risultato insufficiente) e il fisco. Sul primo il dibattito è più che aperto e sembra andare nella direzione giusta se l’intenzione del governo è quella, auspicata tanto da Forza Italia quanto dal Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano, di una sospensione per 3 anni dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A cui aggiungere un maggiore spazio alla contrattazione aziendale rispetto alla contrattazione collettiva. Come chiesto all’Italia, tra l’altro, dalla Banca centrale europea nella famosa lettera del 5 agosto 2011, ove, tuttavia, si riconosceva l’importanza dell’accordo del 28 giugno 2011 tra l’allora ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, e le principali sigle sindacali e le associazioni industriali in tema di riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva.

Per quanto riguarda la riforma del fisco, infine, il governo ha la strada segnata: basta solo procedere con i decreti legislativi di attuazione della delega fiscale, approvata in via definitiva dal Parlamento già a febbraio, che non possono più aspettare. Meno tasse dunque in Italia, finanziate dalla riduzione della spesa corrente, ma anche in Europa. In totale e piena sincronia, per avere un New deal e più consumi, più investimenti produttivi e infrastrutturali, più competitività e più crescita.

Sono queste le cose da fare: tre (mercato del lavoro, fisco, Europa), semplici e definite, onde evitare quell’affanno operativo e quella caotica inconcludenza temuti dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e che Commissione europea e mercati finanziari non ci perdonerebbero. Tre scelte che sono da sempre nell’agenda Berlusconi oggi, come già erano anche nel programma della coalizione di centrodestra con cui sono state quasi vinte le elezioni di febbraio 2013, grazie ai voti di dieci milioni di italiani. E come erano nell’agenda liberale del 1994. È questo il programma da realizzare per porre rimedio ai troppi errori che negli anni della crisi sono stati fatti dall’Europa a trazione tedesca. E su questo il governo sarà chiamato a confrontarsi, dopo la pausa estiva, con il Parlamento e con il paese. Non servono all’Italia redistribuzioni furbesche del reddito per comprare consenso, come è avvenuto nel caso degli 80 euro, che tanti guasti e squilibri hanno creato nei conti pubblici italiani (se n’è accorto perfino il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio), ma di una limpida visione. Meno tasse, più lavoro, più crescita, più Europa.

L’agenda di fuoco del governo tra fisco, lavoro e italicum

L’agenda di fuoco del governo tra fisco, lavoro e italicum

Renato Brunetta – Il Giornale

Recessione, spread su, borse giù. Autunno nero. Berlusconi non farà come la sinistra, che di fronte all’attacco speculativo contro il nostro debito sovrano del 2011 giocò al tanto peggio tanto meglio, imputando al governo in carica quello che, invece, dipendeva dalla crisi mondiale e dalla risposta inadeguata dell’Europa e della Banca centrale europea.

Le parole di Mario Draghi di giovedì scorso sono sacrosante. Sulle indicazioni del presidente della Bce dovrebbe confrontarsi il Parlamento, per definire finalmente una strategia seria e condivisa che porti l’Italia fuori dalla crisi. Ma questo non sembra. Per capire il paradosso, facciamo quattro passi indietro.

Dopo il Nazareno, il programma di Renzi era costituito da 3 grandi linee guida: 1) la legge elettorale, da realizzarsi nel più breve tempo possibile, in ragione della sentenza della Corte costituzionale; 2) la riforma del Senato, che nei giorni del Nazareno sembrava la meno urgente e la meno concordata e definita; 3) le riforme strutturali, per cambiare l’assetto economico, sociale e produttivo italiano, su cui Renzi aveva costruito la sua vittoria alle primarie. Jobs Act in primis.

Il presidente del Consiglio parte con la legge elettorale. Ma il dibattito alla Camera – ove, nonostante dovesse esserci una maggioranza blindata, si susseguono votazioni da brivido – finisce con la dimostrazione amara che proseguire con l’approvazione definitiva della legge elettorale al Senato è impossibile. Ecco che, allora, Renzi cambia la sua agenda, d’accordo con Berlusconi; insabbia l’Italicum e si inventa la priorità del superamento del bicameralismo paritario. Ottima mossa di realismo e opportunismo, che, però, finisce con la polvere sotto il tappeto.

Nel frattempo vengono messe in cantiere e approvate alcune delle cosiddette e tanto pubblicizzate riforme strutturali. Quelle, per intendersi, del #cambiaverso #lasvoltabuona . Anche in questo caso, le difficoltà che Renzi incontra alla Camera sul decreto Poletti lo portano alla cautela, e a rifugiarsi su argomenti, contenuti, provvedimenti meno divisivi, nella speranza che la congiuntura migliori. Proprio per questo, dopo il decreto Poletti, finito malamente e per approvare il quale il governo ha dovuto fare ricorso a ben 3 voti di fiducia, il premier rallenta sulla riforma del lavoro, il tanto sbandierato Jobs act , possibile fonte di conflitti interni. E proprio per questo non accelera neanche sulla riforma fiscale che, invece, vista l’approvazione in via definitiva della delega da parte del Parlamento già a febbraio, avrebbe potuto realizzare in poche settimane.

Insomma, pragmaticamente e opportunisticamente Renzi si trova a rinviare sulle riforme divisive, mentre si concentra sull’unica scelta su cui nel suo partito tutti sono d’accordo: il «bonus 80 euro», che serviva a vincere le elezioni europee. Poco importa se quel provvedimento ha poi scassato i conti pubblici, in quanto finanziato in deficit.

Fino al 25 maggio, dunque, le cose vanno esattamente come voleva l’intelligenza opportunistica del presidente del Consiglio: tutto il dibattito politico-istituzionale concentrato, da un lato, al Senato, sul superamento del bicameralismo paritario, di fatto innocuo, nonostante le fronde, dal punto di vista della tenuta (anzi, grazie al patto del Nazareno, di rafforzamento) della maggioranza di governo; dall’altro, sulla mancia elettoralistica degli 80 euro, forte collante politico per il suo partito, in vista delle elezioni.

Grazie poi agli errori e agli eccessi del Movimento 5 stelle, le elezioni europee segnano il trionfo del presidente del Consiglio. Gli danno quella legittimazione democratica che non aveva avuto ai tempi di #enricostaisereno e lo convincono, e qui sta l’errore, a proseguire nella politica del rinvio delle scelte difficili e potenzialmente divisive. Anche sul fronte europeo, Renzi sceglie la strada più semplice, vale a dire quella della richiesta di una non ben precisata flessibilità e indulgenza nei confronti dei conti pubblici italiani.

Questo è stato il grande errore di Matteo Renzi: non aver cambiato strada dopo la legittimazione elettorale. Ma si capisce anche perché lo ha fatto: nonostante le elezioni europee, infatti, i numeri in Parlamento non sono cambiati. Quindi il presidente del Consiglio sa benissimo di non avere una maggioranza sull’Italicum. Come non ce l’ha sulla riforma del mercato del lavoro e sulla riforma fiscale. E, dunque, su questi temi, è costretto a rinviare. A questo punto, su questo errore si abbatte poi la doccia fredda della recessione. Dato congiunturale, in gran parte esogeno, vale a dire fuori dalle responsabilità del presidente del Consiglio, che, però, gli scopre il gioco: quello di non aver affrontato le scelte difficili per la tenuta della sua maggioranza e per il suo partito, ma fondamentali per il Paese. E qui la critica non è solo di Draghi, ma di tutti gli osservatori internazionali.

Proprio per questo, in autunno l’agenda parlamentare di Renzi sarà infernale. Ci saranno in contemporanea la riforma costituzionale in discussione alla Camera e la legge elettorale al Senato. E le due cose, visto che viaggiano di pari passo, non potranno non influenzarsi a vicenda, in un gioco perverso: la tensione di un ramo del Parlamento non potrà non riflettersi sull’altro. In più, tra settembre (nota di aggiornamento al Def) e ottobre (legge di Stabilità) si aprirà la sessione di bilancio, che vuol dire la verità sui conti pubblici: manovra, tagli, tasse. Con il ritorno inevitabile delle riforme divisive, ma non più rinviabili: Jobs act e decreti legislativi di attuazione della delega fiscale, che non possono più aspettare.

Troveranno, il governo e il Partito democratico, la quadra sul mercato del lavoro, per esempio sulla moratoria per 3 anni dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori? Troveranno la quadra sull’Italicum, con modifiche in grado di accontentare simultaneamente Alfano e Berlusconi? Sulla manovra inevitabile da 25-30 miliardi nel 2014 e sulla legge di Stabilità per il 2015-2017? Tutto quello che nei primi 6 mesi di governo Renzi era stato opportunisticamente rinviato, in autunno non solo torna al centro del dibattito, ma diventa esplosivo.

Un’agenda infernale. Ha, il premier, dentro il Pd, una maggioranza che lo segua su tutti questi terreni minati? Mentre l’autunno rischia di essere un Vietnam per Renzi, per il centrodestra potrebbe diventare l’occasione per la rinascita, ritrovando l’unità, con la guida di Berlusconi e di Forza Italia. Lasciando per un momento da parte il patto del Nazareno, al contrario del centrosinistra, su lavoro, attacco al debito, taglio delle spese, taglio delle tasse, fisco, pubblica amministrazione, crescita, il centrodestra italiano è unito. Il programma, con gli opportuni aggiornamenti, è quello con cui nel 2013 la coalizione quasi vinse le elezioni. E in questo ha ragione il ministro Boschi: centrosinistra e centrodestra sono due mondi diversi, con programmi diversi. Ma la ricetta del centrodestra, guarda caso, coincide con quella di Mario Draghi e della Commissione europea. È la sinistra che è fuori rotta. Al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, i nostri migliori auguri.

I governo sbaglia i conti, tutte le tasse in arrivo

I governo sbaglia i conti, tutte le tasse in arrivo

Renato Brunetta – Il Giornale

Se anche Eugenio Scalfari invoca la Troika, ancorché nella versione buona (per una politica economica espansiva, e non restrittiva), vuol dire che le cose vanno proprio male per l’economia italiana. Se è vero che il problema è di tutta l’eurozona, l’Italia è comunque il fanalino di coda: basta fare il confronto con Grecia e Spagna, che fino a un anno fa erano messe peggio di noi.

Questo vuol dire che l’Italia, dal governo Monti in poi, ha sbagliato tutto. Con l’aumento stellare della tassazione casa (triplicata); la controriforma del mercato lavoro; la riforma sbagliata delle pensioni; l’aumento della pressione fiscale su famiglie e imprese, per quanto riguarda Monti e Letta. E con il riformismo confuso, impotente, clientelare, inadeguato del governo Renzi: basti pensare al Jobs act; alla controriforma Madia della Pubblica amministrazione; allo sconquasso dei conti pubblici causato dal “bonus Irpef” di 80 euro; alla Spending review impantanata e alla svendita, senza logica e senza un piano, dei propri gioielli di famiglia (si veda, da ultimo, la cessione del 35% del capitale sociale di Cdp Reti, che contiene il 30% di Snam e il 29% di Terna, al gruppo che controlla le reti energetiche cinesi). Su quest’ultimo punto, del programma di dismissioni del ministro Vittorio Grilli, per un punto di Pil, pari a 16 miliardi, si è persa traccia. Così come restano ad oggi irrealizzati gli 11 miliardi all’anno di dismissioni contenuti nel Def 2014 di Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan.

In quasi 3 anni, passati invano, 3 distinti governi, tutti caratterizzati dal fatto di non essere stati eletti dal popolo, non hanno voluto, o non sono stati capaci di fare le cose che si dovevano fare, guarda caso contenute nella lettera che il 26 ottobre 2011 il governo Berlusconi inviò, ricevendo tanti applausi, ai presidenti di Commissione e Consiglio europeo. Misure di modernizzazione e rilancio dell’economia italiana in parte approvate a novembre 2011 con il maxiemendamento alla Legge di stabilità per il 2012 (ultimo atto del governo Berlusconi), ma poi, purtroppo, a causa dei tanti cambi di esecutivo, non attuate (si pensi alla mobilità obbligatoria per il pubblico impiego). Oggi le cose da fare sono chiare a tutti, perfino a Eugenio Scalfari, che invoca la Troika, delegittimando, di fatto, Renzi.

I dati parlano chiaro: per mantenere gli impegni presi con l’Europa nel 2014 mancano tra 29 e 32 miliardi di euro. E per mantenere le promesse che Renzi ha fatto agli italiani bisognerà trovare altri 37 miliardi nel 2015.

IL PIANO BERLUSCONI PER USCIRE DALLA CRISI

1) Attacco al debito pubblico ed elezione diretta del presidente della Repubblica: due facce della stessa medaglia, per una strategia credibile

Innanzitutto, per sopperire alla più grave debolezza italiana e rafforzare la nostra posizione in Europa, si rende necessario, dunque, un intervento straordinario, ma duraturo, di aggressione del debito pubblico. Una riduzione strutturale del debito sovrano dell’ordine di 400 miliardi (circa 20-25 punti di Pil) in 5 anni: 100 miliardi derivano dalla vendita di beni pubblici per 15-20 miliardi all’anno (circa 1 punto di Pil ogni anno); 40-50 miliardi (circa 2,5 punti di Pil) dalla costituzione e

cessione di società per le concessioni demaniali; 25-35 miliardi (circa 1,5 punti di Pil) dalla tassazione ordinaria delle attività finanziarie detenute all’estero (5-7 miliardi all’anno); 215-235 miliardi dalla vendita di beni patrimoniali e diritti dello Stato disponibili e non strategici ad una società di diritto privato, che emetterà obbligazioni con warrant. Altro che svendite per fare cassa. Il segnale strategico che si vuol dare con un piano di questo tipo è quello di aumentare l’efficienza, la produttività e la competitività dell’economia italiana; ridurre il peso dello Stato; liberare risorse oggi patologicamente impiegate per il servizio del debito. Vendita del patrimonio pubblico immobiliare, al centro come in periferia, liberalizzazioni e privatizzazioni delle Public utilities, riduzione del peso delle industrie pubbliche, sdemanializzazione nel territorio, emersione del sommerso, per trasformare il capitale morto, come direbbe l’economista peruviano Hernando De Soto, in capitale vivo. E per avere, come vedremo, lo spazio necessario e sufficiente per ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese, innescando così il circuito virtuoso meno debito-meno tasse-più crescita.

Ma l’attacco stabile e duraturo al debito pubblico, da solo, non basta: per scongiurare l’incertezza e l’ingovernabilità e per avere un’Italia credibile in Europa e sui mercati finanziari, ad esso occorre

accompagnare una parallela verticalizzazione delle istituzioni, che preveda l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e assicuri una guida stabile e democraticamente legittimata alla politica italiana. Altro che l’attuale riforma del Senato. Attacco al debito ed elezione diretta del presidente della Repubblica: due facce della stessa medaglia. Un doppio segnale fortissimo. L’operazione nel suo complesso avrebbe in sé tutta la forza, tutta l’etica, di una vera rivoluzione: si avvierebbe

finalmente un meccanismo positivo di modernizzazione del paese per essere europei a 360 gradi, che i mercati non potrebbero non apprezzare, sia da un punto di vista finanziario sia da un punto di vista di credibilità politico-istituzionale. Un grande, decisivo investimento collettivo nel senso di dare certezze, agli italiani innanzitutto, ai nostri severi (ed egoisti) partners europei, ai mercati, per tirare fuori il paese dalla crisi, dal pessimismo, dall’autolesionismo, dai suoi errori e dalle sue strutturali inefficienze: debito e cattiva politica. Una grande occasione non solo per l’Italia, maanche per tutte quelle forze politiche e sociali che se ne faranno interpreti.

2) Riduzione della pressione fiscale

Una volta avviato il piano di riduzione strutturale del debito pubblico, andrebbe parallelamente avviato un grande piano di riduzione della spesa pubblica, destinando le risorse così ottenute alla riduzione, di pari importo, della pressione fiscale. Nel programma elettorale 2013 della coalizione di centrodestra, che 10 milioni di italiani hanno votato, Berlusconi ha proposto di ridurre di 80 miliardi in 5 anni (16 miliardi all’anno) la spesa pubblica corrente (attualmente pari a circa 800 miliardi) e di ridurre di pari importo la pressione fiscale. Con l’ambizioso obiettivo di portare la nostra economia a crescere a un ritmo di almeno il 2%, stimolando così i consumi delle famiglie e gli investimenti delle imprese. Con più gettito e più risorse per gli ammortizzatori sociali. Quindi più benessere. Se si riduce di 16 miliardi all’anno la spesa pubblica, di pari importo andrebbe ridotta la pressione fiscale, con provvedimenti per 8 miliardi all’anno a favore delle famiglie e per altri 8 miliardi all’anno a favore delle imprese. Il tutto per portare, in 5 anni (durata di ogni legislatura) dal 45% al 40% la pressione fiscale in Italia.

3) La politica economica europea

Questa è la vera Spending review: attacco strategico e strutturale al debito pubblico, taglio strutturale della spesa corrente, e pari riduzione della pressione fiscale per le famiglie e per le imprese. Cui aggiungere la richiesta, a livello europeo, non di una generica “maggiore flessibilità”, che non porta a niente, ma di una nuova politica economica nell’intera area dell’euro. A partire dalla reflazione in Germania; le riforme simultanee in tutti gli Stati dell’eurozona; l’accelerazione sulle 4 unioni: bancaria, di bilancio, politica e economica (significa Euro bond, Union bond, Stability

bond, Project bond). Solo in questo modo potranno crearsi le condizioni per consentire alla Banca centrale europea di utilizzare al massimo gli strumenti di politica monetaria previsti dal suo Statuto. Fino al Quantitative easing all’europea, di cui abbiamo tanto bisogno. Anche per deprezzare l’euro di almeno il 20%, in modo tale da far riacquistare competitività all’intera eurozona. E per questa strada “domare” i mercati.

4) Riforma del mercato del lavoro, Tfr in busta paga e pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione

Infine, la riforma del mercato del lavoro. Tutto parte dalla lettera della Bce al governo italiano del 5 agosto 2011, ove, pur riconoscendo gli sforzi dell’esecutivo Berlusconi sul tema e, in particolare, la giusta direzione in cui andava l’accordo del 28 giugno 2011 tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali, si chiedeva l’introduzione di una vera flessibilità nel mercato del lavoro, attraverso “un’ulteriore riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello di impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”, nonché “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”.

Realizziamo questi due punti, fondamentali per far funzionare veramente il mercato del lavoro, e avremo il plauso non solo dell’Europa e dei mercati, ma soprattutto dei nostri giovani, delle nostre famiglie, delle nostre imprese. A tutto questo andrebbe aggiunto uno stimolo immediato per riportare liquidità (fino a 6 miliardi di euro) nelle casse delle imprese e nelle tasche dei lavoratori, da un lato riassegnando alle aziende con più di 50 dipendenti la quota di Tfr non utilizzata per la previdenza complementare (attualmente accantonata presso l’Inps), dall’altro consentendo a tutti i

lavoratori di poter reclamare, in costanza di rapporto di lavoro e senza doverla giustificare, una anticipazione fino al 100% del proprio Trattamento di fine rapporto. Per quanto riguarda le imprese, il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione, per i 64 miliardi ad oggi restanti, fornirebbe ulteriore liquidità, di cui mai come oggi c’è bisogno. Insieme al Tfr, una manovra espansiva di politica economica.

Questo è il piano Berlusconi contro l’autunno nero che verrà. Renzi lo adotti per uscire dalla crisi. Se c’è stato e c’è ancora dialogo sulle riforme istituzionali, per le quali l’apertura di credito del presidente Berlusconi nei confronti del presidente Renzi è stata grande e generosa; e se la riforma elettorale è ancora in discussione (anche se dobbiamo ricordare che la gente non vive né di riforma del Senato né di riforma elettorale), dopo il fallimento della sua strategia di politica economica, Renzi mostri la stessa generosità che con lui ha avuto Berlusconi in tema di riforme costituzionali. Adotti il suo piano. Uno scambio alla luce del sole, per il bene del paese.