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Italia al penultimo posto in Europa per crescita della produttività del lavoro: +0,14% medio annuo tra il 2010 e il 2016

Italia al penultimo posto in Europa per crescita della produttività del lavoro: +0,14% medio annuo tra il 2010 e il 2016

Tra il 2010 e il 2016 la produttività del lavoro in Italia è aumentata solamente dello 0,14% medio annuo, il dato peggiore in assoluto dopo quello della Grecia (-1,09%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione dei dati Ocse contenuti nel report Compendium of productivity indicators 2018.

Va detto che in questo periodo di tempo la crescita della produttività del lavoro, misurata come Pil per ora lavorata, è stata debole in Italia così come in molti altri Paesi europei. Incrementi superiori al 2% medio annuo si sono registrati solamente in Lituania (2,03%), Slovacchia (2,12%), Polonia (2,23%), Lettonia (2,73%) e Irlanda (6,12%). Nel Regno Unito la crescita del Pil per ora lavorata è stata solamente dello 0,23% medio annuo, in Francia dello 0,84%, in Spagna dell’1,03% e in Germania dell’1,04%.

Dal 2001 al 2007 l’Italia era addirittura ultima in questa particolare classifica con una flessione pari a -0,01% medio annuo, l’unico segno meno tra tutti i Paesi considerati. Il Pil per ora lavorata cresceva invece molto di più in Lettonia (8,14% medio annuo), Lituania (6,36%) ed Estonia (6,01%). Sotto all’1,5% invece la Germania (1,33% medio annuo), la Francia (1,21%) e la Spagna (0,49%).

I Paesi che hanno quindi perso più posizioni tra la classifica del 2001-2007 e quella del 2010-2016 sono l’Ungheria (-15 posizioni) e la Grecia (-13), seguite a ruota dal Regno Unito (-10). Hanno invece scalato la classifica la Spagna (+15 posizioni), la Germania (+12) e la Francia (+7). L’Italia è invece salita di una sola posizione, più precisamente dall’ultimo al penultimo posto.

Nel Regno Unito, così come in Italia e Spagna, la crescita del Pil per ora lavorata negli ultimi anni è stata sostenuta principalmente dall’aumento dell’occupazione. Basti pensare che nell’ultimo quinquennio l’incremento di posti di lavoro in attività con produttività inferiore alla media è stato da 2 a 4 volte più alto di quello in comparti con produttività superiore alla media.

In molti Paesi europei la produttività stenta quindi a decollare. Tra le determinanti si annovera ad esempio la bassa quota di investimenti in prodotti di proprietà intellettuale. Nel 2016 (ultimo dato disponibile) in Italia quest’ultimi erano pari solamente al 16,6% del totale mentre in Danimarca e Svezia erano superiori al 26% e in Irlanda oltrepassavano addirittura il 56%. Sempre nello stesso anno in Francia si investiva per questa voce una quota pari al 24,3% del totale, in Regno Unito il 19%. In fondo alla classifica Lettonia, Polonia e Slovacchia con valori di poco superiori al 7%.

Per quanto riguarda invece gli investimenti in attività di Ricerca e Sviluppo, altra importante determinante della crescita della produttività, l’Irlanda nel 2016 contava investimenti per questa voce pari al 38,7% del totale, contro il 3% di alcuni Paesi dell’Est Europa, il 7,3% dell’Italia, l’8,2% della Grecia e il 9,8% del Regno Unito. La Svezia (18,1%) si situava al secondo posto in classifica, sebbene con 20 punti percentuali di distacco rispetto all’Irlanda. A seguire Danimarca (14,8%) e Germania (13,8).

«Se durante gli anni Novanta la produttività in Italia cresceva a un tasso medio annuo paragonabile a quello delle principali economie europee, nel decennio successivo è cresciuta di meno con una contrazione ulteriore a partire dal 2008» spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «I motivi di questa scarsa crescita sono legati alla formazione, all’innovazione tecnologica ma anche all’intensità dell’impegno al lavoro. Non vanno inoltre dimenticati i rapporti economici non sempre limpidi tra Stato e sistema produttivo. Talvolta l’aiuto statale si è rivelato più un salvagente di situazioni di per sé già critiche che un incentivo all’innovazione o alla crescita dimensionale».

La crisi taglia 48 miliardi di investimenti. Pesano le costruzioni: meno 30 miliardi

La crisi taglia 48 miliardi di investimenti. Pesano le costruzioni: meno 30 miliardi

Negli ultimi 4 anni, gli investimenti in Italia sono calati di 48,7 miliardi di euro in termini nominali, pari a 3,1 punti di PIL. Solo tra il 2013 e il 2014 il calo è stato di 9,1 miliardi (lo 0,6% in meno in rapporto al Prodotto Interno Lordo).

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Così gli investimenti nel nostro Paese sono scesi al 16,8% del PIL, un dato superiore, nel panorama internazionale, solo a quello di Cipro, Grecia, Portogallo, Irlanda e Islanda, e contro una media OCSE del 19,5%. Rispetto al 2010, l’Italia ha perso 6 posizioni in classifica, facendosi superare, tra gli altri, da Regno Unito, Stati Uniti, Danimarca, Germania e Olanda.

investimenti val ass

I paesi periferici dell’Area Euro come l’Italia, il Portogallo, la Spagna, Grecia e Cipro sono quelli che hanno registrato, assieme alla Romania, il calo peggiore tra il 2010 e il 2014, mentre la media dell’Eurozona mostrava una contrazione pari a 1,1 punti di PIL, in linea con l’andamento internazionale medio. Altri paesi nell’Eurozona come Germania, Austria, Irlanda e Belgio hanno invece mostrato un aumento, compreso tra lo 0,5% e lo 0,8%  del PIL.  In valori assoluti questo significa per il nostro paese un taglio degli investimenti dal 2010 di 48,7 miliardi di euro, mentre in Germania gli investimenti crescevano di 83 miliardi, nel Regno Unito di 90 miliardi e in Francia di 21 miliardi.
Il fattore costruzioni.
Le costruzioni rappresentano il 51,2% del totale degli investimenti del nostro paese. Questo settore ha visto calare gli investimenti di 30 miliardi di euro in quattro anni e da qui arriva il più grosso contributo al rallentamento delle spese complessive per investimento. Complessivamente gli investimenti in costruzioni passano dal 10,6% del Pil del 2010 al 8,6% del 2014. Nello stesso periodo, invece, gli investimenti in costruzioni sono cresciuti in Germania dello 0,8%, nel Regno Unito dello 0,7% e calati in Francia solo dello 0,5%. In valori assoluti questo significa che gli investimenti in costruzioni sono cresciuti di 5,7 miliardi in Francia (cala la percentuale su un Prodotto Interno Lordo che cresce, quindi aumenta leggermente il valore assoluto), di 54 miliardi in Germania e di 49 miliardi nel Regno Unito.

investimenti costruzioni

Secondo Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro “è difficile immaginare una ripresa robusta e stabile se non ripartono gli investimenti, sia privati che pubblici. Non va dimenticato che lo Stato non è certo un buon esempio in questo senso avendo tagliato tra il 2009 e il 2013 15,9 miliardi euro di investimenti pur aumentando complessivamente il resto delle spese per 20 miliardi di euro. Ed è sempre la mano pubblica che con l’inasprimento fiscale sul comparto immobiliare ha determinato il brusco rallentamento del settore delle costruzioni che, come evidenziano i dati, cresce nei paesi che meglio sono riusciti a uscire dalla crisi. Emergono nelle ultime settimane alcuni segnali positivi come la crescita dei mutui casa rispetto allo scorso anno: è ora fondamentale riuscire a far ripartire il ciclo degli investimenti, anche agendo sulla leva fiscale.
Il fisco italiano non merita fiducia: il caso degli investimenti in ricerca

Il fisco italiano non merita fiducia: il caso degli investimenti in ricerca

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Nei paesi avanzati le norme fiscali retroattive non sono pensabili. In sistemi fiscali meno rispettosi dei diritti dei contribuenti può accadere che un contribuente scopra a fine anno che la sua fiscalità è stata modificata con effetti che si iniziano a produrre dal precedente gennaio, mai nei paese dell’Ocse. L’Italia, purtroppo, rappresenta un’eccezione anche a questa regola di civiltà.Il governo Renzi, ad esempio, con l’ultima legge di Stabilità ha modificato con effetto retroattivo almeno tre norme fiscali: quella sulla riduzione dell’Irap del 10%; quella sul regime fiscale di fondi pensione e della casse previdenziali private; quella relativa al credito di imposta sugli investimenti in ricerca. Il caso dell’abrogazione retroattiva per l’intero 2014 del credito di imposta sulle spese di R&D è, poi, perfino paradossale nella sua attuazione. Perché penalizza due volte le imprese che hanno creduto nella serietà della Repubblica italiana.

Il governo Letta aveva introdotto, con decreto legge, data l’urgenza e l’importanza della materia, un credito di imposta del 50% sugli investimenti incrementali rispetto alla media del triennio 2011/13 per l’anno 2014. Supponiamo, come è sicuramente accaduto, che un’impresa abbia investito nel 2014 in attività di ricerca 500mila euro per dotarsi di una nuova offerta per vendere all’estero, visto lo stallo della domanda interna. L’impresa, nel fare il calcolo del costo effettivo del suo investimento e del periodo di payback, ha sicuramente incluso i 250mila euro di credito di imposta (supponiamo che non avesse fatto alcun investimento in R&D nel triennio precedente). Ora, in assenza del credito di imposta, il periodo di recupero dell’investimento raddoppia e quindi la convenienza in termini di cash flow generato si riduce di molto. A fine 2014, poi, la stessa impresa ha scoperto che il governo Renzi ha abrogato retroattivamente la norma che era stata determinante per indurla a investire in innovazione e l’ha lasciata da sola nel dover fronteggiare la copertura finanziaria dei 250mila euro che mancano nel suo piano. Con l’aggravante che, avendo creduto nella serietà fiscale dell’Italia, adesso di ritrova anche 500mila euro di investimenti in ricerca che entrano nel computo del nuovo triennio di franchigia introdotto dal governo Renzi. Se investirà altri 500mila euro in ricerca nel 2015 non avrà diritto ad alcun credito di imposta, stante la legge di stabilità attuale, e per recuperare i 250mila, teoricamente a lei spettanti nel 2014, dovrà investire addirittura 1,5 milioni di euro nel 2015: il credito di imposta è stato dimezzato al 25% e va decurtata la franchigia di 500 mila euro. Insomma cornuto e mazziato. Poi Renzi non può meravigliarsi se l’Italia fa poca innovazione e il pil ristagna.

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Bonus ricerca&innovazione, Renzi ha fatto meno di Letta

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Dopo tanti annunci e tante promesse la montagna della legge di Stabilità ha partorito meno di un topolino. Il governo Renzi è tornato indietro perfino rispetto a quanto prodotto dall’esecutivo Letta in materia di credito di imposta per la ricerca. Così da un biennio l’Italia, in piena crisi da mancanza di investimenti privati e da competitività dell’offerta, non ha una bonus che incentiva gli investimenti in ricerca ed in innovazione.

L’ultimo intervento in materia è stato quello del governo Berlusconi che aveva introdotto una vera discontinuità per l’Italia: un credito di imposta pari al 90% degli investimenti fatti nel biennio 2011-2012 con università o enti di ricerca, recuperabile per quote paritetiche in tre anni. I 155 milioni di euro a suo tempo stanziati in bilancio non sono stati neppure tutti utilizzati dal mondo produttivo, a riprova che i timori della Ragioneria spesso cozzano con la realtà della recessione. Prima il bonus fiscale, sempre deciso dal governo Berlusconi, era stato commisurato al valore complessivo degli investimenti fatti dalle imprese: il 10%.

A fine 2013 Enrico Letta vara un credito di imposta pari al 50% delle spese incrementali in ricerca a partire dall’esercizio 2014. La burocrazia ha lasciato la norma inattuata e così le imprese che hanno creduto nella serietà della Repubblica italiana e hanno fatto nel corso del 2014 investimenti in ricerca confidando nel credito di imposta si ritrovano oggi con un deficit di cash flow da dover finanziare. In pieno credit crunch non è un gap facile da chiudere attingendo al credito bancario.

Ora la legge di Stabilità cambia nuovamente le carte in tavola: credito di imposta dimezzato al 25%, sempre solo per gli investimenti incrementali e con effetti che si produrranno, ragionevolmente, solo a partire dalla seconda parte del 2016 quando i bilanci saranno stati depositati. Sarebbe stato molto più serio, onde evitare di impattare nuovamente sulle aspettative delle imprese, lasciare la norma Letta invariata e non eliminare il 2014, esercizio ormai chiuso e quindi con effetti risibili sui conti pubblici, dall’applicazione della norma. In questo modo si potevano premiare in pochi mesi le imprese che, nel corso del 2014, hanno avuto il coraggio di investire mentre il pil crollava e la deflazione prendeva il largo, cioè già il prossimo maggio.

In Francia per il triennio 2013-2015 il Cir, il credito di imposta per la ricerca francese, varato nel 1983, è stato dotato di un fondo annuo di 5 miliardi di euro perché raddoppiato dal presidente François Hollande. La legge di Stabilità di Renzi è stata coraggiosa sull’Irap e sugli 80 euro ma troppo timida sulla ricerca.

Imprese, incentivi a ricerca e brevetti

Imprese, incentivi a ricerca e brevetti

Carmine Fotina – Il Sole 24 Ore

Innovazione come capitolo centrale. Nel pacchetto sviluppo che il governo intende varare con la legge di stabilità il tema della ricerca gioca un ruolo chiave, sia con il recupero del credito d’imposta per gli investimenti sia con la norma che dovrebbe incentivare fiscalmente le spese in brevetti. Nelle ultime settimane si sono susseguite riunioni tecniche tra il ministero dello Sviluppo economico e il ministero dell’Economia, con il primo a proporre misure di politica industriale e il secondo a fare i conti sulle coperture. Due miliardi e mezzo: questa la cifra ritenuta dallo Sviluppo indispensabile per rendere almeno semi strutturale il credito d’imposta per la ricerca con una dote da 500 milioni annui per cinque anni. La copertura, dopo il flop della precedente versione della norma (i fondi della programmazione Ue 2014-2020 previsti dal Dl Destinazione Italia), stavolta dovrebbe essere a portata di mano, magari sacrificando in parte l’entità del beneficio in termini di percentuale di credito d’imposta.

L’innovazione è in buona parte anche il filo conduttore di quello che dovrebbe costituire un decreto “crescita” collegato alla legge di stabilità. Il provvedimento allo studio conterrà le prime misure che in queste settimane sono state elaborate dal gruppo di lavoro sull’«Industrial compact» coordinato dallo Sviluppo economico, da integrare con alcune proposte più direttamente mirate alla finanza d’impresa. Nel pacchetto dell’«Industrial compact» spicca il «patent box», una defiscalizzazione al 50 per cento dei redditi derivanti da beni riconducibili alla proprietà intellettuale. Anche in questo caso bisognerà fare attenzione alle esigenze di copertura e si valuta, a questo scopo, se limitare la platea delle spese ammissibili ai soli brevetti o estenderla anche a marchi e opere d’ingegno. A completare il pacchetto dovrebbe esserci l’estensione del piano startup. In particolare, si studia un ampliamento della categoria di imprese che possono essere interessate dagli incentivi fiscali per gli investitori. Sempre il Dl collegato alla stabilità dovrebbe fare da cornice a un nuovo intervento a favore dei canali alternativi al credito bancario, come minibond e fondi di credito. Si valuta inoltre l’estensione ad assicurazioni e società di cartolarizzazioni della possibilità di beneficiare del Fondo centrale di garanzia.

Non rappresenterebbe una sorpresa il rifinanziamento della nuova legge Sabatini, più volte annunciato. L’obiettivo è quello di raddoppiare il plafond della Cassa depositi e prestiti destinato a finanziamenti agevolati per l’acquisto o il leasing di beni strumentali. La Cdp potrebbe mettere a disposizione ulteriori 2,5 miliardi ma anche in questo caso è possibile che si restringa il raggio d’azione della misura, forse attraverso l’innalzamento dell’importo unitario minimo dei beni acquistabili. Tra i capitoli aperti, ancora in fase di lavorazione, anche la spinta allo sviluppo dimensionale delle Pmi. L’obiettivo dovrebbe essere favorire lo sviluppo di filiere e la crescita del taglio medio delle aziende mediante facilitazioni fiscali alle aggregazioni.

La sinergia che manca tra imprese e ricerca

La sinergia che manca tra imprese e ricerca

Romano Prodi – Il Messaggero

Nella sua visita in California il Presidente del Consiglio ha incontrato un nutrito gruppo di giovani imprenditori italianiche, a migliaia di chilometri di distanza, sono andati a costruire delle “start up”, cioè delle nuove imprese che nascono a grappoli dove esiste un ambiente favorevole. Dove sono disponibili risorse finanziarie e, soprattutto, energie umane giovani e coraggiose. In fondo anche noi abbiamo avuto il periodo delle nostre start-up quando, dagli anni cinquanta fino agli anni ottanta, fiorivano i nostri distretti industriali, con sempre nuove aziende che fra di loro si integravano e nello stesso tempo si facevano feroce concorrenza. Questo era allora possibile perché le imprese si fondavano su tecnologie semplici e su accessibili fenomeni imitativi, mentre la tumultuosa crescita del mercato permetteva un rapido ritorno degli investimenti. Il tutto era molto adatto all’Italia di allora: pur con tutti i nostri problemi si è perciò potuto parlare di miracolo italiano e vedere le nostre piccole e medie imprese indicate come esempio di efficienza e di innovazione nei manuali di tutte le Business School del mondo.

Oggi viviamo in un pianeta diverso: le imprese fondate sull’imitazione non reggono più di fronte ai nuovi concorrenti mentre le nuove iniziative si fondano su tecnologie raffinate, hanno bisogno di nascere e vivere vicino a università e laboratori di ricerca d’avanguardia e, anche nei casi in cui richiedono capitali modesti, il ritorno del capitale di rischio è a lungo termine. Questo in conseguenza della complessità delle conoscenze da mettere insieme, delle laboriose prove sperimentali e delle autorizzazioni pubbliche necessarie. Il tutto senza tenere conto della difficoltà di reperire credito bancario, data la maggiore facilità nel giudicare il rischio di un prestito concesso a una fabbrica di piastrelle o di abbigliamento che non a un laboratorio che propone nuove molecole o raffinati processi di software. D’altra parte queste sono le aziende del futuro e la loro esistenza condiziona anche la vita e lo sviluppo delle aziende tradizionali.

Non è quindi sorprendente dovere constatare le difficoltà della nostra industria, presa nella tenaglia fra i Paesi a basso costo del lavoro e quelli che fanno tanta ricerca, soprattutto ricerca applicata. Tuttavia, come capita in tutti i casi della vita, se si vuole cambiare qualcosa bisogna prima di tutto partire dalle risorse che abbiamo e cercare di utilizzarle al meglio, sperando di potere in seguito preparare il complesso ecosistema che caratterizza i distretti dove nascono le nuove imprese. Partiamo dal fatto che le nostre risorse spese in ricerca applicata sono scarse, anzi infime, rispetto agli altri Paesi moderni. Abbiamo tuttavia centri di dimensioni non trascurabili, almeno attorno aI politecnici di Torino e Milano, alle università di Bologna e Pisa e al complesso delle università romane e napoletane. Senza nominare la non trascurabile presenza del CNR e dell’Enea. Ho inoltre in mente l’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) che è stato opportunamente creato proprio per promuovere la ricerca applicata dedicata a fare avanzare il nostro sistema produttivo e che sta facendo bene il suo mestiere.

Ebbene quando mi sono messo ad analizzare se questi centri di ricerca promuovono nuove imprese sono rimasto profondamente deluso. Le imprese generate sono pochissime e quasi sempre abbandonate a se stesse. E quindi non si sviluppano. I contatti fra le università e le imprese sono scarse, le “start up” non sono capite e non nascono le strutture dedicate a farle vivere. Strutture che, non a caso, nel linguaggio internazionale, sono chiamate “angeli“. Certo gli impedimenti burocratici e le regole allucinanti a cui sono sottoposte le nostre università e le nostre imprese costituiscono la prima difficoltà, ma ho dovuto constatare come siano difficili e complessi i rapporti perfino fra i laboratori d’avanguardia come quelli dell’IIT e la città di Genova che ne ospita le strutture portanti. Ancora ostacoli burocratici ma anche un quasi totale disinteresse del mondo produttivo per capire che cosa si può ricavare da quei ricercatori e da quei laboratori d’eccellenza. Almeno in questi casi la colpa non è certo tutta del governo. Sappiamo che i nuovi business sono difficilmente individuabili, altamente rischiosi e diversi fra di loro. Tra le nuove imprese solo una su cinque (o forse una su dieci) avrà successo ma sappiamo anche che, come accade in tutti gli altri Paesi, il guadagno che deriva dall’impresa di successo costituisce una remunerazione del capitale impiegato molto più elevata della media, anche tenuto conto del costo dei fallimenti.

Mi chiedo perciò come mai, intorno a questi ed altri centri di ricerca, non nascano gli “angeli” in grado di adempiere il complesso compito di legare le imprese all’ecosistema della ricerca, della finanza e delle altre imprese. E mi chiedo perché le autorità pubbliche non ne aiutino in modo prioritario la nascita, impegnandosi anche a contribuire in modo proporzionale agli impegni degli operatori privati. Parlo naturalmente di una presenza minoritaria, perché questo non è un mestiere adatto al pubblico. Ma quanti e dove sono gli operatori privati disposti a rischiare? Ben pochi! Eppure in Italia vi sono sufficienti persone che hanno preparazione, esperienza e conoscenza di uomini per aiutare i giovani ricercatori che si vogliono fare imprenditori, per consigliare a loro gli specialisti di cui hanno bisogno nelle nuove imprese e per dotare le imprese stesse delle necessarie risorse finanziarie. In Italia i potenziali “angeli” non mancano. E non mancano di certo le risorse finanziarie.

Nelle città indicate, ma non solo in queste, basterebbe una infima (ma proprio infima) percentuale delle risorse immobiliari o mobiliari parcheggiate all’estero per dare un contributo concreto all’occupazione giovanile, per rallentare la fuga dei cervelli e per fare si che almeno i colleghi migliori degli imprenditori che Renzi ha incontrato in California possano operare con successo in Italia. Diamo pure alla burocrazia le colpe che si merita ma non dimentichiamo che il coraggio ed il senso del futuro hanno importanza determinante per costruire il nuovo. Ricordiamo Inoltre che i nostri padri, al loro tempo, lo hanno avuto. E, soprattutto, ricordiamo che senza “angeli”non si può arrivare in paradiso.